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l’ultimo de’ puristi 223


Il Puoti dunque non era uomo politico, non cospiratore, era un puro e semplice uomo di lettere, un «pennarulo», come lo chiamava Ferdinando; ma quello che seppe fare questo «pennarulo» si vedrá dagli effetti che il suo insegnamento produceva sulla gioventú.

Addurrò il mio esempio; e da me si può argomentare degli altri.

Avevo sedici o diciassette anni. Cresciuto in Napoli sotto la guida di Carlo De Sanctis, a cui ero nipote, riputatissimo maestro di lettere latine a quel tempo, compiuti gli studi filosofici sotto il Fazzini, mi trovavo al primo anno degli studi legali. Avevo letto moltissimi libri e di ogni materia: scrivevo versi e prose, improvvisavo anche, e tutti mi lodavano, e il maestro mi chiamava «penna d’oro», ed io una superbia che mai la maggiore : mi tenevo seriamente il piú istrutto uomo di Napoli. Avevo parte copiato, parte riassunto Hobbes, Leibniz, il mio favorito, Spinosa, Cartesio, Malebranche, Ahrens, Genovesi, Beccaria, Filangieri e tanti altri, come portava il caso, senza disegno né ordine : di storie, di romanzi e di tragedie e di commedie era pieno il capo, e tutto ci rimanea, perché avevo grande memoria. Mi avvenne che un giorno Francesco Costabile mi propose di menarmi alla scuola del marchese Puoti. — A che fare? — , diss’io. E lui : — Ad impararvi l’italiano — . Mi parve un’offesa. Ma molti miei amici ci andavano, e tutti me ne cantavano meraviglie, e ci andai pur io. La chiamavano «scuola di perfezionamento». Vi si andava a «compier gli studi». Moveva tutti un desiderio di maggior coltura e di stare a paro con gli altri.

Giá quel palazzo magnatizio, quelle superbe scale, quel servitore in guanti, quella sala magnifica tapezzata di libri innalzava l’animo, lo tirava in una regione piú elevata. Non so che signorile spirava colá che cacciava in fuga tutte le rozze memorie del seminario. Quel di che ci andai io, eravamo parecchi a far l’esame di ammissione. Il Puoti volle sapere i nostri studi, e il dove, e il come, tutto minutamente; ci fe’ tradurre un brano di Cornelio Nipote. Dal suo modo di scrivere parrebbe