e balbettava. Diceva la chiarezza esser la base dello scrivere, ma sola esser come l’acqua, senza sapore e senza odore. Voleva l’efficacia: cosí chiamava tutte le altre qualitá che danno vigore e nerbo e colore, danno il sangue allo stile. Quelli un po’ aridi e fiacchi li chiamava «de frigidis et muleficiatis», e talora diceva: — «Manca l’utero». L’efficacia era in certe scorciatoie e rapidi trapassi, e scelta di epiteti o di avverbii e spostamenti di parole che davano all’aspetto non so che di peregrino e lontano dal volgare. I piú guasti de’ seminari erano certi «abati», cosí chiamava il marchese i preti, che avevano imparato tutto il De Colonia, avevano scritto molti panegirici, e si tenevano maestri e stavano gonfi e pettoruti. Uno di questi tali venne a lui e disse: — Ho fatto tutt’ i miei studi e sono giá maestro nel seminario. Da voi non chiedo altro se non di apprendere un po’ di lingua, si che io impari a scrivere, per esempio, come Annibal Caro — . Il marchese raccontava spesso quest’aneddoto. E raccomandò l’abate a certi «Anziani», i quali al primo lavoro ch’ei lesse gli fecero tale una pettinatura, che l’amico si rannicchiò e non si fece piú vivo. Il marchese aborriva il rettorico, il declamatorio, il gonfio, il convulso, i concetti e le antitesi : tendeva piú verso l’Arcadia che verso il Seicento. Conformi a queste opinioni erano i suoi giudizi degli scrittori. I piú antipatici a lui erano il Tasso e il Metastasio, forse appunto perché erano i piú noti e i piú raccomandati nelle scuole. La lingua del Metastasio diceva povera e impropria; giudicava migliore il Tasso per la lingua, ma trovava biasimevole il suo periodare, anzi «speriodare»: giacché diceva che la sua ottava non aveva periodo. Aggiungeva che nel Tasso spunta giá quella corruzione dello stile, che fu poi sf grande nel secolo appresso. Il suo favorito era l’Ariosto, ma teneva miglior fabbro di ottave il Poliziano, e piú puri di lingua il Pulci ed il Berni. De’ nostri prosatori metteva in cima Boccaccio e Guicciardini, artefici perfetti di stile, comeché quell’artificio gli paresse soverchio e non imitabile. Chiamava De Vincenzi, uno degli «Anziani», il «Boccaccino», come colui che boccacceggiava piú. Fra’ piú eleganti metteva Firenzuola, Giambullari e Annibal Caro e