Roma e lo Stato del Papa/Capitolo XIX

Capitolo XIX

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CAPITOLO XIX.

Insorge Bologna. - Altre insurrezioni. - I casi di Perugia.



Sommario: Dopo Magenta non si dubita più dell’insurrezione. — Partono gli austriaci da Bologna la notte del12 giugno. — La città insorge. — La relazione della Magistratura al Consiglio municipale. — Come era formata la Magistratura in Bologna. — Il manifesto del giorno 12. — Ceneri, Sassoli e Malvezzi. — Vaniloqui del Corpo municipale. — Il governo provvisorio invita il Montanari a recarsi a Bologna. — Insurrezione di Ravenna. — Arrivo improvviso degli austriaci reduci da Ancona. — Si rimettono le bandiere pontificie, e la Giunta di governo si allontana. — Tatto e coraggio del conte Pasolini. — Passati gli austriaci, insorge Cesena. — Le insurrezioni non si contano più. — Lo Stato è in fiamme. — Ultima a insorgere è Ferrara. — Dal 12 al 21 giugno il governo del Papa cessa di esistere nelle Legazioni. — Tentativi di rivolta nelle Marche. — Sono repressi. — L’esercito della Lega. — Garibaldi ne ha il comando in secondo. — Vuol passare la Cattolica. — È costretto a dimettersi. — Suoi sdegni e proclami. — Insurrezione di Perugia. — Il marchese Gualterio e Cesare Mazzoni. — Si chiede l’aiuto del Mezzacapo. — Vuole ordini in iscritto. — Senza aiuti e senza armi, Perugia non resiste. — Particolari inediti. — I ricordi di Cesare Leonardi. — Una lettera del generale Cerroti. — Giuseppe Bertanzi smentisce le asserzioni di Gregorovius.



Si può immaginare con quanta pubblica letizia si apprendesse a Bologna, nella giornata del 5 giugno, che gli austriaci, battuti a Magenta il giorno innanzi, si erano ritirati a Milano, e si seppe che nella capitale lombarda erano entrati il giorno 8, tra acclamazioni frenetiche, Napoleone III e Vittorio Emanuele, e che, in quel dì stesso, la duchessa di Parma aveva lasciata la città, conferendo al municipio il governo del Ducato, e sciogliendo le truppe dal giuramento. Le grandi notizie si succedevano con fulminea rapidità: in pochi giorni gli austriaci ritirati sul Mincio, e la Lombardia libera. La mattina degli 11 parti il duca di Modena, conducendo seco l’intero battaglione estense oltre Po.

Non vi fu più dubbio, che la guarnigione austriaca avrebbe abbandonato Bologna, Ancona e Ferrara. A Bologna il fermento popolare era grandissimo. I liberali erano concordi nel pensiero [p. 358 modifica]e nell’azione. Nella notte dall’11 al 12 giugno gli austriaci lasciarono davvero la città, e i particolari dell’avvenimento, che fu favilla secondatrice della gran fiamma rivoluzionaria, di qua e di là dall’Appennino, si leggono con precisione ed obiettività nel rapporto del Magistrato bolognese, riferito al Consiglio comunale il 14 giugno, e ch’è bene pubblicare nel suo testo, per la prima volta. Il documento, procuratomi dal conte Nerio Malvezzi, dice:

Illustrissimi signori!

Dopo i gravissimi avvenimenti, che hanno avuto luogo nei trascorsi giorni, e nei quali è stata necessità che la Magistratura pigli qualche parte, non poteva essa non raccogliervi, o signori onorevolissimi, intorno a lei per farvi una breve, ma esatta e sincera esposizione delle cose e della condotta che ha tenuta la Magistratura in tali emergenti.

Il capo di essa era, sabato 11 del corrente mese, invitato a recarsi dall’eminentissimo legato ad un’ora pomeridiana, e poco dopo accedeva alla residenza legatizia. Presentatosi all’eminentissimo, e dettosi da questo essere a sua notizia, che correva voce in città, che erano per partire le truppe austriache, venendo in luogo di esse quelle di Francia secondo gli accordi fra i governi stabiliti (sic) disse: 1° che niun accordo era tra il governo pontificio e quello di Francia ed Austria, perchè al partirsi delle truppe di quest’ultima potenza quelle dell’altra subentrasse[ro] a presidio della nostra città; 2° che per le convenzioni stabilite fra i governi anzidetti non poteva ritenere che le truppe austriache partissero di Bologna; 3° che autorizzava il capo della Magistratura a smentire quindi la voce in proposito sparsa.

Ma alle 9 incirca della sera era rimesso al conservatore anziano un dispaccio dell’eminentissimo cardinale concepito in questi termini: «La prego a venire da me colla Magistratura, dovendole parlare d’urgenza». Si dava egli tosto pensiero di chiamare i suoi colleghi colla maggiore possibile sollecitudine, ma soltanto dopo le ore 101/2 potè essere riunita la Magistratura. La quale dallo stato della città ben argomentando onde movesse l’invito dell’eminentissimo di convocarsi a quell’ora, poneva a sè stessa vari quesiti, e sulla soluzione dei medesimi con breve discussione cercava a venire in accordo unanime.

Salita di poi alla residenza legatizia e introdotta nella sala d’udienza, riceveva dopo alcuni istanti dall’eminentissimo cardinale legato l’annuncio che nella notte istessa sarebbero partite le truppe austriache, e che la città rimaneva al tutto sprovvista di forze, essendo in antecedenza altrove andate le poche truppe pontificie, che qui stanziavano, e buon numero di gendarmi e dragoni, provveduto dell’occorrente custodia forte Urbano. Soggiungeva egli che in tanta gravità di cose faceva appello alla Magistratura perchè a lui unita volesse dar opera a chiamare i buoni cittadini pel mantenimento dell’ordine e la tutela della popolazione.

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A questo appello rispondeva la Magistratura che, prescindendo dall’angustia del tempo, certo gravissima, e dal non avere essa, colta all’improvviso, in pronto alcun mezzo, riconosceva impossibile nel presente stato, e nell’agitazione fervente degli animi di potere riuscire nell’opera, che le si voleva affidare; che essa non poteva assumerne alcuna responsabilità; e che invitati i cittadini in quei momenti ad armarsi, non era dato alla Magistratura di garantire che la loro azione si fosse limitata alla difesa e conservazione dell’ordine materiale. Allora dichiarava l’eminentissimo che egli niuna transazione avrebbe accettata, la quale in qualunque modo avesse lesi i diritti del governo, di cui era rappresentante, e di tale sua dichiarazione chiese che la Magistratura rendesse testimonianza; dichiarava inoltre che era risoluto di restare al suo posto fino a tanto che il fatto gli avesse dimostrata l’impossibilità di permanervi.

Appresso queste parole, e molte altre che a svolgimento di quanto è sopraccennato vennero dette, il signor conte Malvezzi faceva palese all’eminentissimo la gratitudine vivissima, che egli e tutta la città gli professava pel modo prudente ed amorevole onde aveva retta questa provincia, alle quali espressioni l’intera Magistratura aderiva pienamente; indi dichiarava che egli, rimasto nell’ufficio di conservatore municipale sino a quel punto per servire il proprio paese, il che credeva aver adempiuto con zelo e coscienza, reputava giunto il momento, in cui non gli era più concesso di servirlo efficacemente, rimanendo in quel posto; per la qual cosa, ond’essere sciolto da ogni vincolo per potere liberamente cooperare alla salvezza del paese, emetteva la formale sua rinuncia. Osservava l’eminentissimo che non era regolare un tal modo, dovendosi le rinuncie anco accettarsi dal Consiglio; ma il signor conte Malvezzi, appoggiatosi sull’urgenza, reiterate volte insisteva nella presa determinazione.

Congedatasi quindi la Magistratura, e raccoltasi nella propria residenza, il prefato signor conte Malvezzi, pregando si facesse d’atti la sua rinuncia, rinnovate le parole che già aveva espresse all’eminentissimo cardinale legato, si allontanava; e la Magistratura, date alcune disposizioni perchè, ove il bisogno lo richiedesse, si fosse subito avvisata, e fermato di trovarsi riunita nelle prime ore del mattino, si scioglieva.

Non è qui d’uopo il narrare che avvenisse nella notte del 12, poichè a tutti sono ben noti quegli avvenimenti; solo diremo che accorsa la Magistratura e raccoltasi nella propria residenza alle sei antimeridiane, per non mancare in sì perigliosi momenti al debito suo, ebbe a ricevere parecchie deputazioni di cittadini che le venivano chiedendo provvedesse di qualche guisa all’ordine pubblico, rimasta essendo la città senza governo: al che rispondeva la Magistratura esservi tuttavia il rappresentante governativo, e doversi a lui far capo; ma inteso poi che egli era per partire, dopo emessa . una formale protesta, e che a lui null’altro rimaneva di fare dopo che erasi tolto lo stemma pontificio, ed incalzando ognora più le deputazioni di cittadini per un pronto provvedimento, a scansare gravi disordini nella città, ed a por termine alle dimostrazioni che in sulla piazza e nelle strade si facevano, le quali prolungandosi sarebbero agevolmente degenerate in moti [p. 360 modifica]pericolosi per l’ordine pubblico, la Magistratura, partito di fatto l’eminentissimo, divisava di tosto convocare il Consiglio, perchè in tanto frangente volesse colla sua provvidenza e col suo senno provvedere; ma l’urgenza delle circostanze non permetteva alcun indugio, onde la Magistratura dovè essa venire alla nomina di una Giunta provvisoria di governo, scegliendo a tale ufficio quelle persone che avrebbero potuto dominare il pubblico commovimento e porre termine a quello stato d’incertezza e di pericolo, in cui versava il nostro paese. A voi è noto l’atto che fece la vostra Magistratura, che qui si riporta a corredo degli atti.

Noi crediamo di avere operato in sì difficili momenti come il dovere ci domandava, e nell’enunciarvi che, finito il nostro compito, andiamo ad emettere le nostre rinuncie, lasciamo l’ufficio da voi commessoci con animo sereno e francheggiato da una pura coscienza, restando però al nostro posto fino a che non siasi altrimenti provveduto.


*


Nel 1859 l’illustrissima Magistratura di Bologna era formata dei signori: avvocato Enrico Sassoli, Francesco Maria Neri, conte Giovanni Malvezzi Medici, conte Francesco Bianchetti, conte Carlo Marsili, conte Luigi Scarselli, marchese Luigi Pizzardi e professor Giuseppe Ceneri. Il Malvezzi, per aver le mani libere e per un eccesso di lealtà, aveva rassegnato le dimissioni al cardinal legato; e benchè tutti di nomina pontificia, e solo dopo il viaggio del Papa, quando si volle riformare il municipio con criteri più larghi, alcuni di fede liberale fossero stati chiamati a farne parte, il Magistrato bolognese ebbe in quella occasione la coscienza del proprio dovere e della propria responsabilità, in una congiuntura storica affatto nuova, per cui, partendo gli austriaci, la città rimaneva senza governo. Nessuno riteneva che il cardinal legato e i pochi uomini di truppa indigena e la squadra dei doganieri bastassero a garantire l’ordine. Il manifesto del Magistrato affisso la mattina del 12 fu scritto dal Ceneri, allora clericale, e che divenne poi repubblicano, e morì senatore del regno. Sobrio e dignitoso, quel manifesto è monumento di storia; e se il merito di averlo scritto è del Ceneri, quello di averlo pubblicato fu di Enrico Sassoli, conservatore anziano e funzionante da senatore. Quel manifesto indicò la procedura per far insorgere tutta la regione; e difatti ciò che compì il municipio di Bologna, fu imitato subito da Ravenna, [p. 361 modifica]da Forli, da Ferrara, e dai municipi minori delle quattro provincie: sostituirsi all’autorità, che abbandonava il suo posto, e creare un governo. Il manifesto diceva:

Rimasta senza rappresentanza governativa questa città e provincia, il vostro municipio sente il debito di provvedere senza ritardo alla conservazione dell’ordine pubblico, e alla tutela degli interessi morali e materiali di questa popolazione.

A questo fine ha nominato ad unanimi voti una Giunta provvisoria di governo, composta dei signori: Pepoli marchese Giovacchino Napoleone Malvezzi Medici conte Giovanni - Tanari marchese Luigi - Montanari prof. Antonio - Casarini avv. Camillo.

Confida il municipio che saprete contenervi in modo degno di questi solenni momenti, e che tutti i buoni ed onesti presteranno il loro cordiale appoggio alla Giunta di governo pel conseguimento dell’indicato fine.

Bologna, 12 giugno 1859.

Dalla residenza municipale

Firmati: Enrico Sassoli - Francesco marchese Neri - Carlo Marsili - Luigi Pizzardi - Francesco Bianchetti - Luigi Scarselli - Giuseppe Ceneri.


Ma non si potrebbe attribuire eguale elogio al Corpo municipale, che non rispose all’appello della Magistratura. Dei ventotto consiglieri, che lo formavano, soli nove comparvero nella seduta del 14 giugno, ad udire la relazione di quanto era avvenuto. E tra i nove sono da ricordare Gaetano Tacconi, che fu più tardi sindaco di Bologna e deputato al Parlamento, e il marchese Carlo Bevilacqua, che fu senatore del regno. Quel verbale, ultimo del municipio pontificio bolognese, non è monumento di senso politico, e neppure di coraggio. Non si fu in numero; si discusse con petulanza circa la condotta tenuta dal. Magistrato il giorno 12: condotta, che alcuni consiglieri non osavano approvare, ma temevano di condannare. Dissero parole savie e animose il marchese Luigi Pizzardi, il marchese Bevilacqua, e più il Sassoli, che presiedeva, e dette tutte le informazioni circa la condotta di lui e della Magistratura. Dopo un lungo vaniloquio, fu tolta la seduta non mancando, come sì legge nel verbale, l’intervento del deputato ecclesiastico, il canonico don Giambattista Bontà, che, al finire della seduta, recitò «le consuete preci per rendimento di grazie all’Altissimo».

[p. 362 modifica]Nella famosa notte del 12 stettero riuniti in casa Pepoli il Malvezzi, il Tanari, l’avvocato Ramponi, il Vellani, e pochi altri, per dar ordini e istruzioni; e infatti, alle cinque del mattino, scrive il Malagola1, tutti quegli egregi corrono in piazza. Li precedeva Giovanni Malvezzi, il quale, siccome dichiara un testimone oculare, era il più infervorato in quei momenti di sublime e pericoloso ardimento e di felici speranze, ed era il primo sempre ad intonare gli evviva. Il popolo ben presto riempie la piazza; si abbassa lo stemma pontificio; il governo papale è dichiarato decaduto, e il legato è costretto a partire il giorno stesso per Ferrara. E poichè uno dei personaggi, nominati a far parte della Giunta di governo, era assente, Antonio Montanari, lo stesso ex collega del Rossi nel novembre del 1848, il Tanari lo chiamò a Bologna, con questa lettera:


Mio caro professore,

Voi foste nominato dal comune a far parte del governo provvisorio di cui Pepoli, Malvezzi, Casarini ed io siamo membri. Tutto è proceduto pel meglio, e il cardinale parti e noi siamo quivi al suo posto. Noi vi supplichiamo caldissimamente!!! (sic) a non vi rifiutare. Si tratta non tanto di amicizia, che ora nulla conta, ma del paese, che abbisogna di lumi e di spiriti pari a voi. Per vostra regola niuno sin qui rifiutò gl’incarichi loro offerti.

Vi aspettiamo, e intanto mi ripeto

Bologna li 12 giugno 1850.

Tutto vostro
firmato: Luigi Tanari.



*


Il 13 insorse Ravenna, con la stessa procedura di Bologna, e monsignor Achille Ricci, delegato apostolico, lasciò la città, facendogli scudo della sua persona il conte Giuseppe Pasolini, gonfaloniere. Partì con lui la truppa di linea; il popolo si radunò sulla piazza maggiore; abbattè gli stemmi papali, e inalberò i tricolori. Il gonfaloniere e il Magistrato nominarono una Giunta provvisoria di governo, in persona del conte Gioacchino Rasponi, d’Ippolito Gamba e di Domenico Boccaccini. Ma a Ravenna [p. 363 modifica]accadde un fatto non privo di comicità. La sera del 17 quattromila austriaci, provenienti da Ancona, vi giunsero inaspettatamente: spedati, sfiniti dalle lunghe marce, e în così cattivo stato che facevano pietà, dice il Pasolini. Erano diretti a Ferrara.

Al loro appressarsi la città fu invasa da paura. Si gridava al tradimento contro gli amici di Cesena, i quali non avevano rotta la strada a quelle milizie, o avviatele in altre direzioni. Vennero rimossi in fretta i vessilli tricolori, e rimessi i pontifici. La Giunta di governo si allontanò. Gli austriaci accamparono fuori la città, e non dettero molestia ai cittadini. Partirono l’indomani, 18, e dopo la partenza, ritornò la Giunta; sì rialzarono i vessilli sabaudi, e la rivoluzione si riaffermò. Il contegno pacifico degli austriaci fu dovuto in gran parte al tatto e al coraggio del Pasolini, e nelle memorie di lui sono riferiti altri particolari. Il preveduto e temuto passaggio della guarnigione di Ancona, che iperbolicamente si faceva ascendere a quindicimila uomini, arrestò il moto, ma di poco. La sera del 15 gli austriaci erano arrivati a Cesena, e ne ripartirono la mattina del 17. Appena fuori le mura, la città insorse, e il municipio formò la Giunta di governo, con Pietro Pasolini e Camillo Romagnoli alla testa. Il Romagnoli aveva in moglie una marchesa Honorati di Jesi, cugina anch’essa di Napoleone III, donna di vivace talento, e che tenne desto il fuoco liberale, promovendo riunioni e spettacoli di beneficenza. E nella stessa giornata del 17, saputa la partenza degli austriaci per Ravenna, insorsero Faenza, Rimini e altre città minori, sempre con la procedura di Bologna, e senza resistenza da parte delle autorità pontificie, civili e militari.

Ultima a insorgere fu Ferrara, donde, non prima del 21 giugno, parti la guarnigione austriaca, abbandonando precipitosamente la fortezza, i posti di guardia, e i magazzini di viveri. Partirono anche i militi pontifici, e monsignor Gramiccia, tranquillamente, parti anche lui. La rivoluzione, abbattuti gli stemmi, si affermò senza ombra di resistenza. Della Giunta di governo fu anima il conte Francesco Aventi Roverella, uomo di grande temerità, e agente della Società Nazionale, e del comitato nazionale della provincia, e da non confondersi con un suo omonimo, morto nel 1855, brav’uomo anche lui. Del comitato nazionale [p. 364 modifica]della provincia, oltre all’Aventi, facevan parte il dottor Giovanni Gattelli, il dottor Dino Pesci e l’ingegner Gaetano Forlani. Era stato operosissimo negli ultimi due anni, e dipendeva da quello di Bologna, e più particolarmente dal Tanari e dal Casarini. Aveva emesso boni per raccogliere danari destinati agli emigrati, ai volontari, e ai disertori pontifici e austriaci. La stagione teatrale dì quell’anno era stata brillantissima, come in tutte le città delle Legazioni, ricche di teatri, di circoli e di accademie. Si videro risorgere i vecchi corsi del carnevale, e a quello della Giovecca partecipò sfarzosamente la nobiltà. Il movimento liberale trovava un caratteristico favore nel mondo femminile delle quattro provincie, mondo vivace e passionale, non privo di malizie e pieno di seduzioni. Giannina Milli percorreva la Romagna, dando saggi d’improvvisazione, e raccogliendo applausi patriottici. Il 2 aprile dette nella maggior sala del circolo di Ferrara un’accademia, e vi destò tale entusiasmo, che un cronista scrisse: «dalla nostra città, sede delle muse italiane, meritamente venne acclamata sovrana fra gli odierni poeti estemporanei».

In soli nove giorni, dunque, dal 12 al 21 giugno, prima ancora di Solferino, il governo pontificio cessava d’esistere nelle quattro Legazioni, non senza una tal quale filosofia da parte delle autorità. Ma non avveniva così di qua dalla Cattolica, dove le minacciate insurrezioni di Ancona, Jesi, Fano, Urbino e Fossombrone furon domate con poca fatica dall’esercito indigeno, che si ritirava dalla Romagna, e il moto di Perugia fu soffocato nel sangue.


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Perugia insorse il 14, e i particolari di quella insurrezione furono da me narrati in altra opera2. Rivoluzione pacifica, perchè, da parte dell’autorità pontificia, non vi fu ombra di resistenza. Quando si seppe che a Roma si era deciso di riconquistare la città, i capi dell’insurrezione si accorsero che mancavano armi ed uomini, perchè la parte più giovane e vigorosa della cittadinanza era partita per la guerra. Furono chiesti [p. 365 modifica]aiuti alla divisione, che formava a Firenze il generale Luigi Mezzacapo, e composta in gran parte di volontari romagnoli e di esuli e volontari romani, e con ufficiali scelti in gran parte tra quelli della difesa di Roma, di Venezia e di Sicilia del 1848. Questa divisione, formata in Toscana, era creazione del governo sardo, rappresentato, presso il comando di essa, dal marchese Gualterio, col titolo nominale d’intendente, e che aveva Cesare Mazzoni per segretario. Quella divisione, che contava fra i suoi ufficiali superiori il colonnello Carlo Mezzacapo, comandante lo stato maggiore, Federico Torre, Filippo Cerroti e Luigi Torelli, capo del servizio delle sussistenze, era destinata a prender parte alla guerra. Non apparteneva all’esercito toscano, nè aveva per comandante il principe Napoleone. Quando la divisione giunse a Bologna, seppe dell’armistizio di Villafranca, e non andò oltre. Restò nelle insorte provincie pontificie, per difenderle da ogni possibile attacco, sia da parte dell’Austria, sia da parte delle milizie papali. Fu formata un’altra divisione, al comando del generale Roselli; e l’una e l’altra, insieme alle milizie toscane, costituirono quell’esercito della Lega, di cui assunse provvidenzialmente il comando il generale Manfredo Fanti, che tanti servigi rese alla causa dell’ordine in quei mesi nei quali alle grandi speranze si succedevano i grandi sconforti, dall’indomani di Villafranca al gennaio, quando il conte di Cavour tornò al governo.

Dell’esercito della Lega ebbe, per breve tempo, il comando in seconda il generale Garibaldi, il quale, volendo nell’ottobre invadere le Marche e penetrare nel Napoletano, venne in urto col Fanti, e diresse, in data 23 novembre, da Genova, un infiammato proclama ai compagni d’arme dell’Italia centrale, che si chiudeva così: «Cittadini! Che non vi sia uno solo in Italia che non prepari un’arme per ottenere forse domani con la forza ciò, che si tentenna ora a concederci con la giustizia». Garibaldi e Fanti non si conciliarono più. Fanti fu il braccio destro di Cavour, il ministro e il duce supremo di quella maravigliosa spedizione nelle Marche, nell’Umbria e nel Napoletano, che compi l’unità della patria. Quando Garibaldi trovavasi nell’esercito dell’Emilia, i sentimenti monarchici di lui erano molto accentuati. Egli aveva acconsentito d’indossare la [p. 366 modifica]divisa di generale piemontese. I superstiti ricordano che quella divisa lo rendeva irriconoscibile a coloro, che l’avevano sempre veduto con la camicia rossa, il puncho, e il berretto tondo, in luogo della lucerna di generale subalpino.


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Al Mezzacapo vennero mossi aspri rimproveri, per non essersi arreso alle insistenze dei perugini, chiedenti aiuti, e fatto marciare per Perugia il reggimento di stanza ad Arezzo, comandato dal colonnello Cerroti. Il Mezzacapo si difese, dichiarando che, per assumere sopra di sè tanta responsabilità, voleva in iscritto un ordine di Cavour. Ma questi, che forse avrebbe lasciato fare, non osò dar quell’ordine, temendone complicazioni con la Francia, proprio nel periodo più difficile della campagna, fra l’indomani di Magenta e la vigilia di Solferino. Napoleone III era assai inquieto per quanto avveniva nelle provincie pontificie; e l’eco delle proteste del Papa, per l’insurrezione trionfante nel suo Stato, arrivava a lui, da Roma e da Parigi. Nè Cavour, nè Gualterio mossero alcuna osservazione al Mezzacapo per la sua condotta; anzi l’uno e l’altro seguitarono ad avere fiducia nel suo tatto e nel suo valore. La verità è, ch’essi s’illudevano che la rivoluzione a Perugia potesse riuscire per forza propria, com’era riuscita a Bologna e nelle altre Legazioni, senz’alcun aiuto diretto e compromettente da parte del Piemonte. I documenti, pubblicati in questi ultimi tempi, lo confermano. Mancando gli aiuti, l’insurrezione fallì. Il colonnello Cerroti, che anelava l’ordine di passare il confine e marciare su Perugia, dove contava molti amici, fu richiamato, e il reggimento, fremente di sdegno, lasciò Arezzo. Egli scrisse al Comitato: io verrei con gran piacere, ma sto agli ordini, e perciò qualunque cosa si voglia, non vi dovete dirigere a me, ma a chi rappresenta il governo regio, di cui io non sono che un esecutore. E chiudeva la lettera: Coraggio dunque e Perugia sarà3. Parole degne di un uomo come il Cerroti.

[p. 367 modifica]Sapendosi che le milizie pontificie si raccoglievano in Foligno, per andare alla conquista di Perugia, furono mandate di Toscana alcune centinaia di cattivi fucili, e il Gualterio, per mezzo del Mazzoni, fece proporre all’ingegnere Cesare Leonardi, volontario nella divisione Mezzacapo, col grado di sergente, di recarsi a Foligno, e qui indurre il capitano Labruzzi dell’artiglieria pontificia, che si diceva accompagnasse il corpo svizzero di spedizione, ad abbandonare la bandiera del Papa, e fraternizzare con gl’insorti. Nonostante che il Leonardi non riponesse gran fiducia nel buon esito d’un siffatto tentativo, pur sapendo il Labruzzi amato e stimato dai dipendenti, e già combattente valoroso nella difesa di Roma dieci anni prima, accettò l’incarico, ottenne il permesso di assentarsi, e dall’intendenza militare gli fu consegnata la cospicua somma di quattrocento lire. Corse in Arezzo, e informò il Cerroti delle istruzioni ricevute, e di là passò a Perugia, informando alla sua volta il governo provvisorio dell’incarico affidatogli. Là seppe che la batteria del Labruzzi non faceva parte del corpo di spedizione, composto solo di svizzeri, per cui si rendeva inutile andare a Foligno. Restò a Perugia, anche per premure del governo provvisorio, e qualche cosa potè fare per la difesa della città.

Si attendeva il conte Pagliacci di Viterbo, con armi e uomini, ma non si videro nè gli uni, nè le altre. Il Pagliacci arrivò solo, e la sua presenza non valse a dare maggior animo ai rivoltosi. La verità è, che Perugia non era preparata, e la insurrezione fu l’effetto di uno di quegli entusiasmi, che non sentono ragioni; e a volerla furono i liberali moderati, come. il Guardabassi, il Danzetta, il Faina e il Berardi, uomini di altissimo valore morale, e che sentivano l’influenza del Gualterio. Essi non si perdettero d’animo, quando videro svanire le due illusioni, che li avevano spinti a insorgere: che da Roma non si sarebbe lasciato partire alcun corpo d’esercito per riconquistare la città, e che da parte della Toscana non sarebbero mancati gli aiuti. Sarebbero bastate, assicura il Leonardi, poche centinaia di giovani bene armati, a respingere gli svizzeri, i quali non superavano i duemila. Lo spirito della città era alto e concorde; e l’iniziativa della rivolta, ripeto, fu merito dei patrioti moderati, come a Bologna, a Ravenna, e in quasi tutta la [p. 368 modifica]Romagna; ma è anche da dire, che quando il partito repubblicano fu richiesto di concorso, lo dette senza riserve, e il suo capo, Annibale Vecchi, non esitò di assumere la direzione della pubblica sicurezza. La concordia dei partiti non salvò la città dalla strage e dalla conquista.


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Nel detto mio libro pubblicai interessanti documenti circa l’infelice sommossa, e la parte, che vi rappresentò il vescovo Gioacchino Pecci. Fra quei documenti, che videro la luce per la prima volta, e a me forniti dal mio amico il senatore Zeffirino Faina, si deve ricordare il telegramma del cardinale Antonelli a monsignor Giordani, delegato apostolico, ricoveratosi a Foligno. Quel telegramma diceva: Procuri d’impedire insieme alla truppa ogni disordine, chiamando anche, ove occorra, qualche compagnia da Spoleto. A momenti intanto si spediranno costà altri duemila uomini e forse francesi. Il tentativo di mandare i francesi venne fatto, ma non riuscì. Sarebbe stato enorme, che, fra le due battaglie di Magenta e Solferino, i soldati francesi fossero andati a riconquistare Perugia al Papa!

E qui occorre, in omaggio alla verità storica circa il moto di Perugia, rettificare quanto si legge nei Diarii romani del Gregorovius, in data 20 giugno 1859. Dice il Gregorovius, che «se il Papa avesse aspettato solamente tre giorni, Perugia si sarebbe sottomessa da sè». Il mio amico Giuseppe Bertanzi, il quale, benchè giovanissimo, ebbe parte non trascurabile in quella sommossa, mi scrive: «Non è vera l’asserzione del Gregorovius. Che vi fosse qualcheduno che disapprovasse il movimento, sì; che altri non vi prendessero parte, vero ancora; ma che di quelli, che si erano buttati nel disperato tentativo, qualcuno volesse ritirarsene al momento, nel quale bisognava mostrare di non aver paura, questo non è vero; questo posso dirlo coscienziosamente. Fui presente a tutte le manifestazioni pubbliche; intervenni ai ristretti convegni dei dirigenti il movimento, e non solo non sentii la proposta, ma non scorsi nessun segno d’esitanza. Molti credevano che le truppe pontificie non avrebbero fatto che una dimostrazione; ma anche ammesso che fossero venute a vie di fatto, tutti quelli, che [p. 369 modifica]vano messa la coccarda sul petto, erano ben risoluti di accettare la sfida: molti con speranza di successo. Gli altri sentivano nel loro buon senso, che anche perdendo si sarebbe vinto. E quelli del governo provvisorio erano proprio di questi».

Il Leonardi fu creduto morto dai suoi amici di Firenze. Egli si tenne nascosto per alcuni giorni a Perugia, e poi, mercè l’aiuto disinteressato di contrabbandieri, potè riguadagnare la frontiera toscana, e tornare all’esercito, dove pervenne al grado di capitano del genio. Si dimise nel 1865, e prese servizio nelle ferrovie Meridionali; tornato a Roma nel 1872, fu nominato vicedirettore dell’ufficio tecnico municipale, che lasciò, pochi anni or sono. Devo a lui, liberale della vigilia, uomo integro e di forte animo, alcuni di questi ricordi, non privi d’interesse storico. Poco, egli confessa, potei fare per Perugia, ma fui testimonio della virtù di quel popolo, del quale mi basta dir questo, che fra i moltissimi perugini, che ritrovai fuggiaschi in Toscana, non uno ne intesi accusare di tradimento o di viltà il governo provvisorio, non uno che non pronunziasse con riverenza il nome di Francesco Guardabassi, ch’era stato il capo e l’anima della sfortunata insurrezione.

Appena dopo la conquista di Perugia da parte delle truppe pontificie, il Gualterio si recò a Torino, e ve lo raggiunse Nicola Danzetta. Fecero reclami al Cavour per quanto era avvenuto, e che il Gualterio pareva non immaginasse neppure, e per cui era profondamente afflitto. Ho veduto Gualterio, scriveva la contessa Bonaparte Valentini, il 30 giugno, da Firenze, esso pare un martire rassegnato a morire per la sua fede. Il sacrificio di Perugia, del quale andò l’eco molto lontana, promuovendo in ogni parte del mondo civile vivaci proteste contro il governo del Papa, fu arma potente, l’anno appresso, nelle mani di Cavour4.



Note

  1. Il conte Giovanni Malvezzi de Medici, senatore del Regno, per Carlo Malagola. Bologna, tip. Azzolini, 1892.
  2. Il Conclave di Leone XIII e il futuro Conclave. Città di Castello, S. Lapi, 1888.
  3. Archivio storico del Risorgimento Umbro, anno II, fascicolo III. Perugia, Unione tipografica cooperativa, 1906.
  4. Archivio storico del Risorgimento Umbro, id. id.