Piccolo mondo antico (Gogol)
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PICCOLO MONDO ANTICO
Vedo di qua una casetta piuttosto bassa, con una loggetta coperta, sostenuta da minuscoli colonnini di legno anneriti, che gira attorno a tutta la casa, perché si possa in tempo di tuoni e di grandine chiudere le imposte delle finestre senza inzupparsi di pioggia. Dietro ad essa sono amaraschi profumati, intere file di nani alberi da frutta, affondati nella porpora delle ciliege e nel mare di ametista che formano le susine velate da un lieve strato di piombo, e un acero ramoso all’ombra del quale è disteso un tappeto per la siesta; dinnanzi alla casa un largo cortile coperto di piccola erba fresca con un sentierino formatosi a furia di passare dal granaio alla cucina e dalla cucina alle camere dei padroni; un’oca dal lungo collo nell’atto di bere acqua con le piccole ochette tenere come peluria; al muro di cinta sono attaccati mazzi di pere e di mele secche e tappeti esposti all’aria; un carretto di meloni fermo presso il granaio; il bue, staccato dal carro, è sdraiato pigramente accanto ad esso... tutto ciò ha per me una inesplicabile attrattiva, forse per questo che ormai non lo vedo piú, e per noi è caro tutto quello da cui abbiam dovuto separarci. Sia come si voglia; ma anche allora, quando il mio biroccino si avvicinava alla scala di quella casetta, l’anima mia entrava in uno stato mirabilmente piacevole e calmo; i cavalli si affrettavano allegramente verso la scala; il cocchiere con tutta flemma si calava giú dal suo sedile e si riempiva la pipa, come se fosse arrivato a casa sua; perfino il latrato che alzavano i cani sornioni, barboni e bracchi e cani neri, riusciva gradito, ai miei orecchi. Ma piú di tutto mi piacevano i padroni stessi di quegli angoletti modesti, i vecchietti e le vecchiette che premurosamente venivano incontro. I loro volti mi si presentano anche adesso qualche volta in mezzo al frastuono e alla folla, tra le marsine alla moda, e allora improvvisamente mi capita di essere in una specie di dormiveglia, e mi si presenta come in sogno il passato. Essi avevano sempre dipinta sul volto una tale bontà, una tale bonomia e sincerità, che tu avresti tuo malgrado rinunziato, sia pure per breve tempo, a ogni sorta di audaci disegni, e insensibilmente ti saresti con tutti i sensi immedesimato in quell’umile vita pastorale.
Non riesco finora a dimenticare due vecchietti del secolo passato, che, ahimè! ora non esistono piú, ma l’anima mia è ancora piena di rimpianto, e i miei sensi provano una strana angoscia quando mi figuro di tornare per qualche tempo alla loro dimora di prima, adesso deserta, e vedere un cumulo di capanne cadute, un laghetto disseccato, un fosso coperto d’erbacce nel posto in cui sorgeva la piccola casetta... e niente altro. Che tristezza! tristezza precoce per me! Ma torniamo al racconto.
Attanasio Ivanovic Tovstogub e sua moglie Pulcheria Ivanovna Tovstogubicha, secondo la pronunzia dei contadini dei dintorni 1, erano quei due vecchietti di cui ho cominciato a narrare. Se io fossi pittore, e mi proponessi di ritrarre sulla tela Filemone e Bauci, non sceglierei mai altri modelli all’infuori di essi. Attanasio Ivanovic aveva sessant’anni, Pulcheria Ivanovna ne aveva cinquanta. Attanasio Ivanovic era di alta statura; portava sempre una pelliccetta di montone coperta di cammellotto; sedeva ripiegato; e quasi sempre sorrideva, sia che parlasse, sia che stesse semplicemente ad ascoltare. Pulcheria Ivanovna era piuttosto seria, non rideva quasi mai; sul volto e negli occhi portava scritta una cosí grande bontà, e cosí grande premura di regalarvi tutto quello che aveva, che voi, sto per dire, avreste trovato troppo insipido per il suo viso buono un sorriso. Rughe leggere sui loro volti erano disposte con tanta grazia, che un pittore, credo bene, le avrebbe rubate. In esse si poteva, a quanto pareva, leggere tutta la loro vita, chiara, tranquilla — la vita che menavano vecchie famiglie nazionali, cordiali e sincere e ricche in pari tempo, che sempre formavano il contrapposto di quei Piccoli Russi volgari, rifatti da ex venditori di catrame e merciai, che invadono a guisa di cavallette le corti e i tribunali, pelano fino all’ultimo centesimo i propri conterranei, inondano Pietroburgo di spie e attaccabrighe, raggruzzolano in fine un patrimonio e solennemente aggiungono al loro cognome dalla desinenza in o la lettera v2. No, essi non somigliavano a codeste spregevoli e miserabili creature; e lo stesso si può dire di tutte le vecchie e genuine famiglie della Piccola Russia.
Non si poteva senza commozione contemplare il loro amore scambievole. Non si davano mai del tu, ma sempre del voi:
— Voi, Attanasio Ivanovic!
— Voi, Pulcheria Ivanovna!
— Siete stato voi che avete sfondato la sedia, Attanasio Ivanovic?
— Che importa? Non andate in collera, Pulcheria Ivanovna; sono stato io.
Non ebbero mai bambini; e per questo tutta la loro affezione si era concentrata in loro stessi. Una volta, in gioventú, Attanasio Ivanovic era stato soldato, poi aveva raggiunto il grado di maggiore in seconda; ma tutto ciò era molto lontano, già passato, già Attanasio Ivanovic non se ne ricordava quasi mai. Attanasio Ivanovic si ammogliò a trent’anni, quando era giovine e portava il giubbetto ricamato; anzi egli rapí molto sveltamente Pulcheria Ivanovna che i genitori non volevano dargli; ma anche di questo ormai si ricordava assai poco; per lo meno, non ne parlava mai.
A tutti quei lontani straordinari avvenimenti successe una vita tranquilla e solitaria, tutta fatta di quelle soporose e insieme armoniche visioni di sogno che voi provate stando a sedere in un rustico balcone esposto sopra un giardino, mentre una bella pioggia scroscia abbondante, percotendo le foglie degli alberi, colando a rivi gorgoglianti e insinuando il sopore nelle vostre membra, e intanto l’arcobaleno sfugge di dietro agli alberi e in forma di arco mezzo rovinato splende nel cielo con sette colori smorti — o pure quando un calesse vi culla, mentre si tuffa in mezzo alle macchie tutte verdi, e strilla la quaglia della steppa, e un’erba profumata, insieme con spighe di grano e fiori di campo, striscia sugli sportelli della vettura e vi picchia carezzevole sulle mani e sulla faccia.
Egli ascoltava sempre con un amabile sorriso i discorsi di quelli che andavano a fargli visita; qualche volta parlava anche lui, ma per lo piú interrogava. Non era del numero di quei vecchi che annoiano con le eterne lodi del tempo passato o col dir male del presente: egli, al contrario, facendovi delle domande, mostrava un gran desiderio di sapere e partecipava alle vicende della vostra vita, ai successi e agli insuccessi, che generalmente interessano i buoni vecchi; sebbene quella curiosità somigli un poco a quella del bambino che, mentre parla con voi, osserva la marca del vostro orologio. Allora il suo volto, si può dire, aveva l’alito della bontà.
Le stanze della casetta abitata dai nostri vecchietti erano piccoline; bassine, come per lo piú si trovano nelle case di vecchie famiglie. In ogni stanza c’era una stufa enorme che ne occupava quasi la terza parte. Quelle stanzucce erano riscaldate in modo da far paura, perché Attanasio Ivanovic e Pulcheria Ivanovna amavano molto il caldo. Il riscaldamento era fornito a tutte dal vestibolo, che fino al soffitto era pieno di paglia, combustibile comunemente usato nella Piccola Russia invece della legna. Lo scoppiettío di molta paglia accesa e la sua viva fiamma rendono molto piacevole il vestibolo nelle sere d’inverno, quando la fervida gioventú, presa dal freddo nel pedinare una qualsiasi brunetta, si ripara lí battendo le palme.
Le pareti della stanza erano adornate di alcuni quadri e quadretti in vecchie cornici sottili. Sono convinto che gli stessi padroni da gran tempo ne avevano dimenticato i soggetti, e se qualcuno di quei quadri fosse stato portato via, essi certamente non se ne sarebbero accorti. Due ritratti erano grandi, dipinti a olio; uno rappresentava non so quale arciprete, l’altro Pietro III; da una delle cornici sottili guardava la duchessa La Vallière, imbrattata dalle mosche. Attorno alle finestre e sopra le porte si trovava una quantità di piccoli quadretti, che si prendeva l’abitudine di considerare come macchie sulle pareti, e perciò nessuno vi badava.
Il pavimento in quasi tutte le stanze era di mattoni, ma cosí pulito e tenuto con sí grande nettezza, come probabilmente non è curato nessun parquet in una casa signorile, pigramente spazzato da un insonnolito messere in livrea.
La camera di Pulcheria Ivanovna era tutta occupata da cofani, casse, cassette e cofanetti. Una quantità di fagottelli e sacchetti con semi di fiori, di ortaggi, di cocomeri, era appesa alle pareti. Una quantità di gomitoli di lana di vari colori, avanzi di stoffa di vecchi abiti cuciti mezzo secolo addietro, erano messi a dormire negli angoli, nei cofanetti e tra i cofanetti. Pulcheria Ivanovna era una grande massaia, e conservava tutto, quantunque a volte non sapesse neppur lei quale uso dovesse farne.
Ma la cosa piú notevole della casa erano le porte che cantavano. Appena si faceva giorno, il canto delle porte cominciava in tutte le stanze. Non so dire perché cantassero: se la colpa fosse dei cardini arrugginiti, o pure se lo stesso meccanico che le costruí, vi avesse nascosto dentro un suo segreto; ma è da osservare che ogni porta aveva la sua voce particolare.
Quella che menava in camera da letto cantava il piú delicato soprano; la porta della stanza da pranzo russava in voce di basso; ma quella che si apriva sul vestibolo mandava un suono come di campana fessa e insieme di lamento, tanto che, stando ad ascoltare, si finiva con l’udire abbastanza chiaro: «Mamma mia, ho freddo!». So bene che a molti riesce sgradito quel suono; ma a me piace assai; e se qualche volta mi capita qui di udire il cigolío di una porta, allora improvvisamente io sento un odore di campagna; mi pare di essere in una stanzetta bassa, rischiarata da una candela sopra un vecchio candeliere, con la cena già in tavola; una cupa notte di maggio occhieggia dal giardino, attraverso la finestra spalancata, sulla tavola già coperta dalla tovaglia; un usignolo spande coi suoi gorgheggi un’onda di calore sul giardino, sulla casa e sul fiume lontano; sento il pauroso fruscío dei rami... e Dio mio! quale lunga fila di ricordi allora mi viene davanti!
Le sedie nella camera erano di legno, pesanti, di quelle che ordinariamente contraddistinguono i tempi antichi; tutte avevano alte spalliere lavorate al tornio e lasciate grezze, senza vernice e senza colore; non erano neppure ricoperte di stoffa, e somigliavano un poco a quelle sedie su cui ancora oggi siedono gli arcipreti. Tavolini triangolari negli angoli, quadrangolari avanti al divano e ad uno specchio racchiuso da una sottile cornice dorata, con foglie intagliate su cui le mosche avevano seminato un’infinità di punti neri; avanti al divano un tappeto istoriato di uccelli che parevano fiori e di fiori che parevano uccelli: ecco press’a poco tutto l’addobbo di quella casetta senza pretese, dove abitavano i miei vecchietti.
La camera delle donne di servizio era piena zeppa di ragazze giovani e non giovani vestite di sottane a righe. A queste ragazze Pulcheria Ivanovna dava qualche volta qualche gingillo da cucire oppure ordinava di ripulire dei chicchi; ma il piú delle volte esse scappavano in cucina e dormivano. Pulcheria Ivanovna considerava come suo dovere il tenerle custodite in casa, e sorvegliava severamente i loro costumi; ma, con sua straordinaria meraviglia, non passavano vari mesi senza che all’una o all’altra di quelle ragazze s’ingrossasse la vita troppo piú del consueto. Tanto piú il fatto pareva strano, in quanto nella casa non c’era, si può dire, nessun uomo scapolo, fatta eccezione del solo cameriere, un giovinotto che portava un farsetto grigio e andava a piedi nudi, e quando non mangiava, certamente dormiva. Pulcheria Ivanovna regolarmente sgridava la colpevole, e la puniva severamente, acciocché il fatto non si ripetesse in avvenire.
Sui vetri delle finestre ronzava una paurosa moltitudine di mosche, ma il loro ronzio era coperto dall’accompagnamento del moscone che faceva da basso, e qualche volta ad esso si univa il brusío penetrante delle vespe; ma, non appena si accendevano i lumi, tutta la frotta si ritirava a dormire nel suo quartiere e copriva il soffitto con una nuvola nera.
Attanasio Ivanovic si occupava assai poco dell’azienda domestica, quantunque, del resto, andasse qualche volta dai mietitori e dai falciatori e stesse a guardare piuttosto attentamente il loro lavoro; tutto il peso della direzione era sulle spalle di Pulcheria Ivanovna. Il governo della famiglia per Pulcheria Ivanovna consisteva in un continuo aprire e chiudere la credenza per salare, seccare e cuocere un’immensa quantità di frutta e di verdura. La sua casa era simile in tutto e per tutto a un laboratorio chimico. Sotto un albero di melo era sempre acceso il fuoco, e quasi mai si toglieva dal treppiede di ferro la marmitta o il calderotto di rame, contenente lo sciroppo, la gelatina, i canditi, preparati al miele, allo zucchero e non ricordo a che altro ancora. Sotto un altro albero il cocchiere distillava eternamente con un alambicco di rame la vodka alle foglie di pesco, al fiore di amarasco, alla centaurea, ai noccioli di ciliege, e alla fine di questo processo non era mai in grado di muovere la lingua; borbottava parole insensate che Pulcheria Ivanovna non riusciva mai a capire, e se ne andava difilato in cucina a dormire. Tutti questi miscugli si salavano, si cuocevano, si seccavano in tanta quantità, che probabilmente avrebbero alla fine sommerso tutto il cortile (giacché Pulcheria Ivanovna sempre, oltre quello che era calcolato per l’uso della famiglia, amava di prepararne anche per provvista d’avanzo), se non fosse che una buona metà ne veniva mangiata dalle ragazze di servizio, le quali, andatesi a chiudere nella dispensa, si rimpinzavano là in modo cosí spaventoso da doversi poi lamentare per tutto il giorno e patire male di stomaco.
All’agricoltura e agli altri capitoli dell’azienda domestica fuori della casa Pulcheria Ivanovna aveva poca possibilità di accudire direttamente.
Il fattore, messosi d’accordo col capoccia del villaggio, rubava senza misericordia. Avevano preso l’abitudine di andare nei boschi del padrone come in una loro proprietà, vi costruivano una quantità di slitte, e le vendevano nel mercato vicino; inoltre vendevano a taglio le querce piú grosse ai cosacchi dei dintorni per i loro mulini. Una volta soltanto Pulcheria Ivanovna ebbe voglia di andare a ispezionare i suoi boschi. Per questo fu preparata una treggia con enormi copertoni di cuoio; e da quella treggia, appena il cocchiere scuoteva le redini e cominciavano a spostarsi i cavalli, che avevano già servito nella milizia, l’aria si riempiva di strani suoni, in modo che ad un tratto si udivano insieme flauto, tamburo e grancassa; ogni chiodo e ogni arpione di ferro suonava, tanto che anche al di là dei mulini si sentiva che la padrona usciva dalla villa; e sí che la distanza non era al disotto delle due verste 3.
Pulcheria Ivanovna non poté a meno di osservare dei vuoti tremendi nel bosco e la sparizione di quelle querce che già nella sua infanzia era usa a chiamare secolari.
— Perché, Nicipor — disse rivolgendosi al fattore, che si trovava sul posto — le querce si sono fatte cosí rade? Bada che non ti si facciano radi i capelli sulla testa!
— Perché sono rade? — diceva usualmente il fattore. — Sono cadute! Per una ragione o per l’altra sono cadute tutte quante: o il fulmine le colpí, o i vermi le rosero; sono cadute signora padrona, sono cadute.
Pulcheria Ivanovna rimaneva interamente sodisfatta di quella risposta, e giunta a casa, dava ordine soltanto di raddoppiare la guardia nel giardino attorno alle visciole e alle grosse pere d’inverno.
Quei degni amministratori, che erano il fattore e il capoccia, trovavano del tutto superfluo trasportare tutta la farina nei magazzini padronali, una volta che ai padroni era piú che sufficiente anche una metà; da ultimo anche quella metà la portavano muffita e inumidita, quella che era stata rifiutata nel mercato. Ma per quanto rubassero a gara il fattore e il capoccia, per quanto tutti spietatamente divorassero nella villa, cominciando dalla massaia fino ai maiali che sterminavano una quantità spaventosa di prugne e di mele, e spesso coi loro grifi scuotevano un albero per farne cadere tutta una pioggia di frutti; per quanto ne beccassero i passeri e i corvi; per quanti regali portasse tutta la servitú ai compari degli altri villaggi, e perfino sottraesse dai magazzini vecchie tele e matasse, tutta roba che andava a finire al pozzo universale, cioè a dire, alla bettola; per quanto rubassero i visitatori, i vetturini flemmatici e i camerieri; pure la terra benedetta produceva tutto in cosí grande abbondanza, Attanasio Ivanovic e Pulcheria Ivanovna avevano bisogno di tanto poco, che tutte quelle tremende ruberie passavano affatto inosservate nell’economia domestica.
Tutti e due i vecchietti per un’antica abitudine dei signori del «mondo antico», amavano molto di mangiucchiare. Appena si annunziava l’aurora (essi sempre si levavano per tempo), e le porte intonavano il loro concerto dalle voci svariate, già sedevano a un tavolino e sorbivano il caffè. Dopo aver preso il caffè, Attanasio Ivanovic usciva nel vestibolo e agitando il fazzoletto diceva: — Kisc, Kisc, via, oche, dalla scala! — Nel cortile veniva incontro regolarmente il fattore. Egli, per abitudine, entrava in discorso col fattore, s’informava minutamente dei lavori dei campi e comunicava tali osservazioni e ordini, che ognuno sarebbe rimasto ammirato di cosí straordinaria competenza in materia di economia domestica, e un novellino qualunque non avrebbe osato neppure pensare che fosse possibile rubare a un padrone cosí accorto. Ma il fattore era una volpe vecchia: sapeva come si deve rispondere, e anche piú, come si deve amministrare.
Dopo ciò, Attanasio Ivanovic tornava in casa per riposarsi, e, accostatosi a Pulcheria Ivanovna, diceva:
— Dite un po’, Pulcheria Ivanovna, non sarebbe ora di prendere un boccone qualsiasi?
— Che si potrebbe mangiare a quest’ora, Attanasio Ivanovic? Forse un po’ di focaccia col grasso, o dei pasticcini al papavero, o piuttosto dei funghetti salati?
— Magari, per me, dei funghetti o dei pasticcini — rispondeva Attanasio Ivanovic; e sulla tavola appariva a un tratto la tovaglia coi pasticcini e coi funghetti.
Circa un’ora prima del pranzo Attanasio Ivanovic faceva un altro spuntino, beveva ad una vecchia coppa d’argento piena di vodka, mangiava dei funghetti, vari pesci salati e altro. Per il pranzo si mettevano a tavola alle dodici. Oltre i piatti e le salsiere, erano in tavola una quantità di barattoli coi coperchi unti, perché non potessero svanire gli svariati prodotti appetitosi della vecchia cucina saporita. A pranzo il discorso ordinariamente cadeva sugli argomenti piú affini al pranzo.
— Mi pare come se questa farinata — diceva per lo piú Attanasio Ivanovic — si fosse un tantino bruciata. A voi non pare, Pulcheria Ivanovna?
— No, Attanasio Ivanovic; metteteci un po’ piú di burro, e allora non vi sembrerà piú bruciata; o se no, ecco, prendete di questa salsetta coi funghi e versatecela sopra.
— Per favore! — diceva Attanasio Ivanovic sporgendo il suo piatto — proviamo un po’ come andrà.
Dopo il pranzo Attanasio Ivanovic andava a riposare un’oretta, e dopo ciò Pulcheria Ivanovna portava un cocomero tagliato a fette e diceva:
— Ecco, Attanasio Ivanovic, provate un po’ che buon cocomero.
— Non credete, Pulcheria Ivanovna che sia rosso nel mezzo? — diceva Attanasio Ivanovic, prendendone un pezzo ben tagliato. — Può capitare che sia rosso, e allora non è buono.
Ma il cocomero finiva immediatamente. Dopo ciò, Attanasio Ivanovic mangiava ancora alcune pere, e poi si avviava a passeggiare nel giardino insieme con Pulcheria Ivanovna. Tornati a casa, Pulcheria Ivanovna si dirigeva alle sue faccende, e lui si sedeva sotto una tettoia rivolta verso il cortile, e stava a guardare come la dispensa incessantemente metteva in mostra e nascondeva il suo interno, e le ragazze, urtandosi l’una con l’altra, ora portavano dentro, ora portavano fuori una massa d’intrugli d’ogni sorta, in cassette di legno, setacci, pacchi e altri recipienti da frutta. Passato qualche tempo, egli mandava a chiamare Pulcheria Ivanovna o si dirigeva egli stesso da lei e diceva:
— Che avete per me da mangiare, Pulcheria Ivanovna?
— Che ho? — diceva Pulcheria Ivanovna.
— Volete che vada a dire di portarvi dei pasticcini con le more, che ho fatto preparare appositamente per voi?
— Anche quelli sono buoni rispondeva — Attanasio Ivanovic.
— O forse mangereste volentieri un kisjel4.
— Anche quello è buono — rispondeva Attanasio Ivanovic; dopo di che, tutto questo era portato senz’altro, e debitamente divorato.
Prima della cena Attanasio Ivanovic assaggiava ancora qualche cosetta. Alle nove e mezzo si metteva a tavola per cenare. Dopo la cena si dirigeva immediatamente di nuovo a dormire, e una quiete generale s’impadroniva di quel cantuccio cosí operoso e in pari tempo cosí tranquillo.
La camera in cui dormivano Attanasio Ivanovic e Pulcheria Ivanovna era cosí calda, che difficilmente un uomo sarebbe stato in grado di rimanervi per alcune ore; ma Attanasio Ivanovic ancora per giunta dormiva sul banco della stufa per stare piú caldo, quantunque il soverchio calore spesso l’obbligasse a levarsi piú d’una volta durante la notte e passeggiare per la stanza. Qualche volta Attanasio Ivanovic, andando su e giú per la camera si lamentava.
Allora Pulcheria Ivanovna domandava:
— Perché vi lagnate, Attanasio Ivanovic?
— Dio lo sa, Pulcheria Ivanovna; mi par di sentire un’uggiolina al ventre — diceva Attanasio Ivanovic.
— Non sarebbe meglio che provaste a mangiare qualche cosa, Attanasio Ivanovic?
— Non so se farei bene, Pulcheria Ivanovna!
E poi, che cosa potrei mangiare?
— Un sorso di latte acido o di sciroppo di frutta con pere secche.
— Sia pure, cosí un tantino, solo per fare la prova — diceva Attanasio Ivanovic. Una ragazza insonnolita andava a frugare nei palchetti della credenza, e Attanasio Ivanovic consumava ancora un piattino; dopo di che normalmente diceva: — Adesso mi pare proprio di sentirmi alleggerito.
Qualche volta, quando il tempo era sereno e le camere erano molto bene riscaldate, Attanasio Ivanovic, sentendosi di buon umore, amava celiare alle spalle di Pulcheria Ivanovna, e cominciava a parlare di qualche soggetto casuale:
— Dite un po’, Pulcheria Ivanovna — egli diceva — se tutt’a un tratto prendesse fuoco la nostra casa, dove andremmo a finire?
— Che Dio ci scampi da una cosa simile! — diceva Pulcheria Ivanovna facendosi il segno della croce.
— Sia pure, ma poniamo il caso che la nostra casa bruciasse, dove andremmo allora?
— Dio sa quello che dite, Attanasio Ivanovic! Come può essere che la casa debba bruciare? Dio non lo permetterà.
— Sia; ma se bruciasse?
— Oh via! allora noi passeremmo nella cucina. Voi occupereste quella camera che ora occupa la massaia.
— E se bruciasse anche la cucina?
— E dàlli! Dio ci guardi da un tale castigo, che ad un tratto dovesse bruciare la casa e la cucina! Oh via! allora andremmo nella dispensa fino a che si costruisse una nuova casa.
— E se si bruciasse anche la dispensa?
— Dio sa che cosa dite! Non voglio neppure starvi a sentire! È peccato parlare cosí, e Dio punisce tali discorsi.
Ma Attanasio Ivanovic, contento di avere celiato alle spalle di Pulcheria Ivanovna, sorrideva, seduto sulla sua seggiola.
Ma piú interessanti che mai apparivano per me i due vecchietti nel tempo in cui avevano in casa degli ospiti. Allora, tutto nella loro casa prendeva un altro aspetto. Quella brava gente, si può dire, viveva per gli ospiti. Tutto quello che avevano di meglio si cavava fuori. A gara essi cercavano di regalarvi tutto ciò che poteva produrre la loro azienda domestica. Ma piú di ogni altra cosa era per me gradito il non trovare in tutte le loro cortesie la minima finzione. Gli è che la cordialità e la premura si esprimevano nei loro volti con tanta dolcezza, si adattavano loro cosí bene, che involontariamente l’ospite aderiva alle loro richieste. Queste erano la conseguenza della pura e limpida semplicità delle loro anime buone, senza malizia. Era una cordialità affatto diversa da quella con cui vi tratta l’impiegato della Corte dei Conti, che si è fatto strada nel mondo per i vostri aiuti, e vi chiama benefattore, e striscia ai vostri piedi.
All’ospite per nessuna ragione si concedeva di ripartire lo stesso giorno; bisognava assolutamente che egli rimanesse a pernottare.
— Com’è possibile a un’ora cosí tarda avviarsi per un viaggio cosí lungo? — diceva ogni volta Pulcheria Ivanovna (l’ospite per lo piú abitava alla distanza di tre o quattro verste) 5.
— Certamente — diceva Attanasio Ivanovic — ci sono contrattempi d’ogni genere; si è aggrediti dai malandrini o da qualche altro cattivo soggetto.
— Dio ci scampi dai malandrini! — diceva Pulcheria Ivanovna. — Ma perché parlare di una cosa simile per la notte? Malandrini o non malandrini, il fatto è che la notte è buia, e non conviene affatto di andare. E poi il vostro cocchiere... lo conosco il vostro cocchiere; è cosí fiacco, e anche mingherlino! qualunque cavallo lo spossa; e per giunta, a quest’ora probabilmente egli è ubbriaco e dorme chi sa dove!
E l’ospite era obbligato a fermarsi a ogni costo, ma, del resto, una serata in una cameretta bassa e tiepida, una conversazione cordiale, calorosa e sonnifera, il fumo delle vivande messe in tavola, il cibo sempre nutriente e magistralmente preparato, tutto ciò erano per l’ospite un buon compenso. Io vedo, come se fosse qui ora, Attanasio Ivanovic, seduto un po’ curvo sulla sedia, col suo perenne sorriso sulle labbra e intento ad ascoltare con attenzione, e anzi con soddisfazione, un ospite! Spesso il discorso cadeva anche sulla politica. L’ospite, che anche lui assai raramente usciva dal suo villaggio, molte volte, con un aspetto significativo e con una misteriosa espressione del volto, esponeva le sue congetture, e diceva che la Francia s’era accordata segretamente con l’Inghilterra per mandare una seconda volta in Russia il Bonaparte, o semplicemente parlava di una prossima guerra, e allora Attanasio Ivanovic diceva spesso, fingendo di non guardare a Pulcheria Ivanovna:
— Io stesso ho in mente di partire per la guerra; perché non potrei andare alla guerra?
— Eccolo bell’e partito! — interrompeva Pulcheria Ivanovna. — Non gli date retta — diceva poi, rivolgendosi all’ospite — dove mai, lui vecchio, andrebbe alla guerra! Il primo soldato gli sparerà; eh, Dio mio! gli sparerà. Detto e fatto, gli punterà il fucile e l’ammazzerà!
— Che! — diceva Attanasio Ivanovic — anch’io tirerò a lui.
— To’, state un po’ a sentire come parla! — rispondeva Pulcheria Ivanovna. — Dove mai egli andrebbe alla guerra? le sue pistole sono già da tempo arrugginite e giacciono abbandonate nel granaio. Se voi le vedeste! come sono ridotte, prima di sparare, la polvere le farà scoppiare; e gli porteranno via le mani e gli storpieranno la faccia e lo renderanno un infelice per sempre!
— Che vuol dire? — diceva Attanasio Ivanovic. — Io mi comprerò delle armi nuove; prenderò una sciabola o una picca da cosacco.
— Tutte belle trovate! Come una cosa gli viene in testa, subito comincia a parlare! — ripigliava stizzita Pulcheria Ivanovna. — Io lo so che parla per burla, e con tutto ciò non lo posso sentire. Sempre fa di codesti discorsi; e qualche volta, stai a sentire e stai a sentire, e in fine ti mette paura.
Ma Attanasio Ivanovic, soddisfatto di aver messo un po’ di paura addosso a Pulcheria Ivanovna, rideva, sedendo curvo sulla sua sedia.
Pulcheria Ivanovna per me era piú interessante che mai quando introduceva l’ospite a fare uno spuntino.
— Ecco qui — diceva, sturando una bottiglia — questa è vodka stillata alla sanguinella e alla salvia; se uno ha un dolore alle scapole o alla vita, questa dà un gran sollievo. Quest’altra è alla centaurea; se si ha un po’ di ronzío negli orecchi, o si formano delle impetigini sul viso, questa fa molto bene. E quest’altra è stillata ai noccioli di pesche; prendetene un sorso, sentite che buon odore! Se capita qualche volta, nel levarsi dal letto, di urtare nello spigolo di una credenza o di una tavola, e vi si forma un bernoccolo sulla fronte, allora basta prenderne un bicchierino prima del pranzo, e porta via tutto in un attimo; sul momento passa tutto, come se non ci fosse stato mai niente. — Dopo ciò, passava in rassegna allo stesso modo anche le altre bottiglie, che quasi sempre avevano qualche speciale virtú curativa. Dopo aver caricato l’ospite di tutta quella farmacia, lo guidava a una quantità di piattini preparati sulla tavola: — Ecco dei funghi al timo selvatico; e questi altri con chiodini di garofano e noce moscata. A salarli imparai da una turca, nel tempo in cui si trovavano ancora da noi dei prigionieri turchi. Era tanto buona quella turca, e non si sarebbe detto che professasse la religione turca, tanto in ogni cosa procedeva su per giú come si usa da noi; soltanto non mangiava la carne di maiale; diceva che da loro questo è proibito dalla legge. Ecco qui dei funghi con foglie di ribes e noce moscata! Ed ecco qui dei cetrioli; li ho preparati io all’aceto per la prima volta; non so come sono riusciti. Imparai il segreto da mio padre Ivan: in una piccola tinozza bisogna prima di tutto fare uno strato di foglie di quercia e poi cospargerlo di pepe e salnitro e metterci ancora uno di quei ciclamini che nascono tra l’erba boschereccia; dopo, togliere il fiore e coprire tutto con uno strato di codole. E qui, ecco dei pasticcini! Qui, pasticcini allo strutto! E qui, alla crema! E questi sono quelli che piacciono molto ad Attanasio Ivanovic, fatti col cavolo e la polenta di granturco.
— Sí — aggiungeva Attanasio Ivanovic — sono molli e un tantino agri.
Insomma Pulcheria Ivanovna era straordinariamente di buon umore quando aveva degli ospiti in casa. Che buona vecchietta! Si metteva tutta al servizio degli ospiti. A me piaceva molto di recarmi da loro, e quantunque finissi col rimpinzarmi in modo spaventoso, come tutti quelli che capitavano lí, e ciò fosse dannoso per la mia salute, pure ero sempre felice di andare da loro. Del resto, penso che forse l’aria stessa nella Piccola Russia ha una proprietà speciale che favorisce la digestione, perché, se a qualcuno qui venisse in mente di mangiare a quel modo, indubbiamente poi, andando a letto, gli parrebbe di stare a giacere su una tavola.
Che cari vecchietti! Ma la mia narrazione si avvicina a un avvenimento molto triste, che cangiò per sempre la vita di quel pacifico nido. Questo avvenimento fa tanto piú forte impressione, in quanto derivò da un caso fortuito insignificante. Ma per una strana disposizione delle cose, sempre avviene che motivi da nulla producano grandi accidenti, e viceversa, le piú grandiose premesse vanno a finire in futili conseguenze. Un conquistatore qualsiasi raduna tutte le forze del suo regno, guerreggia per parecchi anni, i suoi generali si coprono di gloria, e da ultimo tutto questo armeggio finisce con l’acquisto di una zolla di terra, in cui non c’è modo di seminare delle patate; e talora, invece, vengono alle mani tra loro e si picchiano maledettamente per una sciocchezza due ignobili salsicciai di due città diverse, e quella lite da ultimo si estende alle città stesse e invade i villaggi e le campagne, e quindi tutto un regno. Ma lasciamo queste riflessioni, che non fanno al caso nostro; e, del resto, a me non piacciono le riflessioni quando rimangono riflessioni.
Pulcheria Ivanovna aveva una gattina grigia che stava quasi sempre a giacere, tutta raggomitolata ai suoi piedi. Pulcheria Ivanovna qualche volta la lisciava e con un dito le solleticava il collo delicato, che la gattina viziata allungava in alto piú che poteva. Non si può dire che Pulcheria Ivanovna le volesse molto bene, ma soltanto aveva per essa un certo attaccamento, avendo fatto l’abitudine a vederla di continuo. Vero è che Attanasio Ivanovic celiava spesso sopra quella affezione.
— Non so capire, Pulcheria Ivanovna, che ci trovate in quella gatta. A che serve? Se aveste un cane, sarebbe un’altra faccenda; un cane si può menare a caccia; ma un gatto, a che?
— Voi, tacete, Attanasio Ivanovic — diceva Pulcheria Ivanovna. — A voi piace solamente di parlare e niente altro. Il cane non è pulito, il cane sporca tutto, il cane addenta tutto, ma il gatto è una creatura tranquilla, non fa male a nessuno.
Del resto, Attanasio Ivanovic era indifferente a tutto: tanto ai cani quanto ai gatti; diceva cosí solo per celiare un po’ alle spalle di Pulcheria Ivanovna.
Proprio accosto al giardino si trovava un gran bosco, che era stato interamente risparmiato dall’intraprendente fattore, forse perché il rumore dei colpi di scure sarebbe giunto fino alle orecchie di Pulcheria Ivanovna. Era deserto e abbandonato: i vecchi tronchi erano coperti da folti rami di nocciuolo e somigliavano a lanose zampe dî piccione. In quel bosco abitavano dei gatti selvatici. I gatti selvatici dei boschi non si debbono confondere con quelle bestie ardite che corrono sui tetti delle case; trovandosi in città, questi, pur con i loro rozzi costumi, sono molto piú inciviliti degli abitatori dei boschi. Questi, al contrario, formano per lo piú una razza sinistra e feroce; sono sempre secchi e magri, e miagolano con una voce aspra, non modulata. Talora si scavano un passaggio sotterraneo fino ai granai, e lí rubano il lardo; fanno perfino qualche apparizione nella cucina; saltando all’improvviso dalla finestra aperta, quando s’accorgono che il cuoco è andato un momento a cogliere delle erbe. In genere, non conoscono alcun nobile sentimento; vivono di ruberie, e vanno a soffocare i piccoli passeri fino dentro ai loro nidi. Questi gatti da lungo tempo avevano fiutato attraverso una fessura sotto il granaio l’umile gattina di Pulcheria Ivanovna e da ultimo riuscirono a sedurla, come una brigata di soldati seduce una sciocca contadinella. Pulcheria Ivanovna notò la sparizione della gattina; mandò a cercarla, ma la gattina non si trovò. Passarono tre giorni; Pulcheria Ivanovna ne era spiacente, ma poi finí col non pensarci piú. Un giorno, dopo aver passato in rivista i suoi ortaggi, mentre se ne tornava portando dei cetrioli freschi e verdi colti con le sue mani per Attanasio Ivanovic, le giunse all’orecchio un molto lamentoso miagolío. Ella quasi istintivamente profferí: «Kisc, kisc!» e ad un tratto uscí dall’erba la sua gattina grigia, magra, stecchita; si capiva che ormai da parecchi giorni non aveva messo in bocca cibo di sorta. Pulcheria Ivanovna seguitava a chiamarla, ma la gattina era lí davanti a lei, miagolava, ma non osava avvicinarsi; evidentemente già in pochi giorni si era molto inselvatichita. Pulcheria Ivanovna andò avanti seguitando a chiamare la gatta, che veniva tutta timida dietro a lei fino al recinto. Infine, vedendo i luoghi di prima e consueti, entrò fino in camera. Pulcheria Ivanovna le fece portare subito del latte e della carne e, stando a sedere vicino ad essa, si compiaceva di guardare con quanta avidità la sua misera favorita inghiottiva un boccone dopo l’altro e sorbiva il latte. La grigia fuggitiva pareva che sotto ai suoi occhi s’impinguasse, e ormai mangiava con meno avidità. Pulcheria Ivanovna tese una mano per lisciarla, ma l’ingrata evidentemente s’era già e s’era troppo assuefatta coi gatti rapaci, oppure s’era imbevuta delle massime romantiche, per cui una capanna e un cuore valgono piú che i palazzi, e quei gatti erano veramente poveri in canna; comunque sia, essa spiccò un salto alla finestra, e nessuno dei villici riuscí piú a riprenderla.
La vecchietta si fissò. «Quella è la mia morte che è venuta a cercarmi» diceva a se stessa; e niente poté distrarla. Tutto il giorno ella fu di cattivo umore. Indarno Attanasio Ivanovic scherzava e cercava di sapere perché si fosse cosí all’improvviso rattristata; Pulcheria Ivanovna non rispondeva, oppure rispondeva in modo che non poteva soddisfare Attanasio Ivanovic. Il giorno dopo ella apparve sensibilmente dimagrata.
— Ma che avete, Pulcheria Ivanovna? Voi siete malata?
— No, non sono malata, Attanasio Ivanovic. Vi voglio solo rivelare un avvenimento singolare: io so che quest’anno devo morire; la mia morte è già venuta a cercarmi.
Le labbra di Attanasio Ivanovic si torsero un po’ convulsamente. Egli volle, tuttavia, vincere nell’anima sua un senso di tristezza, e sorridendo disse:
— Dio sa che cosa dite, Pulcheria Ivanovna! Ho paura che invece di quel decotto che bevete spesso, abbiate bevuto quello di pesche.
— No, Attanasio Ivanovic, non ho bevuto quello di pesche — disse Pulcheria Ivanovna.
E Attanasio Ivanovic si pentí di avere scherzato cosí alle spalle di Pulcheria Ivanovna, e una lagrima spuntò nelle sue ciglia.
— Io vi prego, Attanasio Ivanovic, di adempiere la mia volontà — disse Pulcheria Ivanovna. — Quando sarò morta, seppellitemi dietro il recinto della chiesa. Vestitemi con l’abito grigio, quello coi fiorellini sul fondo color cannella. L’abito di velluto, quello con le righe color fragola, non me lo mettete: una morta non ha bisogno dell’abito... che se ne fa? Ma per voi esso va bene; fatevene cavar fuori una veste da camera, da far figura nel caso che vengano degli ospiti, acciocché voi possiate presentarvi bene e riceverli convenientemente.
— Dio sa quello che dite, Pulcheria Ivanovna! — diceva Attanasio Ivanovic. — La morte deve ancora venire quando che sia; ma voi mettete paura fin da ora con codesti discorsi.
— No, Attanasio Ivanovic, io già lo so quando sarà la mia morte. Voi, però, non vi addolorate per me: io sono vecchia, e ho vissuto abbastanza, e poi anche voi siete vecchio; presto ci rivedremo nel mondo di là.
Ma Attanasio Ivanovic singhiozzava come un bambino.
— È peccato piangere, Attanasio Ivanovic! Non fate peccato, non provocate l’ira di Dio col vostro pianto. Io non mi dolgo di questo, che devo morire; di una cosa sola mi dolgo — un profondo sospiro interruppe per un minuto il suo discorso — mi dolgo di questo, che non so a chi affidarvi, chi avrà cura di voi quando io sarò morta. Voi siete come un bambino piccino: bisogna che vi voglia bene chi dovrà accudirvi.
Nel dire queste parole, il suo volto esprimeva un dolore cosí profondo, cosí sincero, che io non so se qualcuno avrebbe potuto in quel momento guardarlo con indifferenza.
— Stammi attenta, Iavdocha — disse poi rivolgendosi alla massaia, che essa aveva intanto mandata a chiamare a bella posta. — Quando io sarò morta, abbi cura del padrone, accudiscilo, curalo come i tuoi occhi, come se fosse un figlio tuo proprio. Guarda che in cucina si preparino i cibi che piacciono a lui; pensa a dargli sempre la biancheria e gli abiti puliti; quando capitano degli ospiti, tu abbi cura di abbigliarlo in modo decente; se no, lui, magari, si presenterà con la vecchia veste da camera, perché anche adesso molte volte non ricorda quando è giorno di festa e quando è giorno di lavoro. Non gli levare mai l’occhio di dosso: io pregherò per te nel mondo di là, e il Signore te ne renderà merito. Non te ne scordare, Iavdocha: tu sei vecchia; non hai molto da stare al mondo... non ti mettere un peccato sull’anima. Se tu non gli starai con gli occhi aperti addosso, non avrai un’ora di bene nella vita. Io stessa pregherò Dio che non ti dia una buona morte. Sarai infelice tu stessa e saranno infelici i tuoi figli, e tutta la vostra famiglia non avrà in niente la benedizione di Dio.
Povera vecchietta! In quel momento non pensava né all’ora solenne che l’attendeva, né all’anima sua, né alla sua vita futura: pensava soltanto al suo povero compagno di viaggio, col quale aveva percorso il cammino della vita, e che essa lasciava orfano e privo di assistenza. Con incredibile prontezza ella preparò tutto in maniera che dopo la sua morte Attanasio Ivanovic non dovesse sentire la sua assenza. La sua convinzione circa la sua prossima fine era cosí forte, e l’anima sua era cosí disposta in quel senso, che realmente, entro pochi giorni si mise a letto e non poté piú prendere alcun cibo. Attanasio Ivanovic era divenuto tutto attenzione, e non si scostò mai dal suo capezzale.
— Forse vorreste gustare qualche cosa, Pulcheria Ivanovna? — diceva guardandola negli occhi con inquietudine. Ma Pulcheria Ivanovna non diceva niente. Infine, dopo un lungo silenzio, parve che volesse dire qualche cosa, mosse un poco le labbra... ed esalò l’ultimo respiro.
Attanasio Ivanovic ne rimase annientato. Il colpo gli parve cosí crudele, che non poté neppure piangere; con gli occhi torbidi, la guardava come se non capisse di avere dinanzi a sé un cadavere.
Deposero la morta sulla tavola, la vestirono con quell’abito preciso che lei stessa aveva indicato, le misero le braccia incrociate sul petto, le diedero in mano una candeletta di cera... egli guardava tutto questo senza dar segno di vita. Una moltitudine di gente d’ogni ceto riempí la villa; molti ospiti vennero ai funerali; lunghe tavole furono disposte nel cortile e riempite di kutjia6, di liquori e di pasticcini a mucchi. Gli ospiti parlavano, piangevano, guardavano la defunta, ragionavano delle sue virtú, volgevano gli sguardi a lui; ma egli fissava tutto con uno sguardo strano. Da ultimo cominciarono a trasportare il cadavere; tutta quella folla si riversò dietro il feretro, ed egli la seguí. Il clero era in pieno apparato, il sole splendeva, bambini lattanti piangevano tra le braccia delle madri, cantavano le allodole, ragazzi in maniche di camicia correvano e folleggiavano sulla strada. Da ultimo deposero la bara sopra la fossa; invitarono lui ad accostarsi a baciare per l’ultima volta la morta. Si accostò, baciò; nei suoi occhi apparvero delle lagrime, ma come lagrime non sentite. Calarono la bara nella fossa, il sacerdote prese una pala e gettò per primo un pugno di terra; il fitto e lento coro del diacono e dei due chierici cantò fino in fondo l’«eterna memoria», sotto il cielo puro, senza nubi; i braccianti diedero mano alle pale, e ormai la terra aveva colmata e spianata la fossa. In quel momento egli si spinse avanti; tutti si scostarono, gli fecero largo, desiderando di sapere le sue intenzioni. Alzò gli occhi, guardò confusamente e disse: — To’, l’avete già seppellita! perché?!... — Rimase a mezzo, e non terminò il suo discorso.
Ma quando tornò a casa, quando vide che la sua camera era vuota, che perfino la sedia in cui soleva sedere Pulcheria Ivanovna era stata portata via... singhiozzò, singhiozzò forte, singhiozzò sconsolatamente, e le lagrime come un fiume si versavano giú dai suoi occhi ottenebrati.
Passarono cinque anni da quel giorno. Qual è quel dolore che il tempo non porta via? Qual è quella passione che rimane intatta nell’impari lotta con esso? Io conoscevo un uomo ancora nel fiore della giovinezza e della forza, un uomo di genuina nobiltà e dignità; lo sapevo innamorato, di un amore tenero, appassionato, furente, audace, timoroso, e innanzi a me, quasi sotto i miei occhi, l’oggetto di quell’amore, una donna tenera, bella come un angelo, fu colpita dalla morte insaziabile. Io non ho mai veduto cosí tremendi assalti di passione spirituale, cosí furente, cocente dolore, cosí divorante disperazione come nella smania di quell’infelice innamorato. Non avevo mai pensato che un uomo potesse crearsi da sé un tale inferno, in cui non fosse né un’ombra né un’immagine né una cosa qualsiasi che somigliasse a una speranza... Si faceva di tutto per non perderlo di vista un momento; gli avevano nascosto tutti gli arnesi con cui avrebbe potuto darsi la morte. Passate due settimane, improvvisamente egli si vinse; cominciò a ridere, a scherzare; gli diedero la libertà, e il primo uso ch’egli ne fece fu di andarsi a comprare una pistola. Un giorno un’improvvisa detonazione gettò il terrore nell’animo dei suoi parenti: corsero nella sua camera, e lo trovarono steso per terra col cranio fracassato. Un medico che si trovava lí per caso, e la cui abilità era proclamata dalla fama universale, riscontrò in lui i segni della vita, trovò che la ferita non era addirittura mortale, e quel giovine, con grande meraviglia di tutti, fu guarito. La sorveglianza attorno a lui divenne sempre piú grande; perfino a tavola non gli mettevano accanto il coltello, e procuravano di allontanare da lui ogni cosa con cui avrebbe potuto colpirsi. Ma egli in breve trovò una nuova opportunità e si gettò sotto la ruota di una carrozza che passava. Si fracassò un braccio e una gamba, ma di nuovo fu guarito. Un anno dopo lo vidi in una sala piena di gente: sedeva a una tavola, era allegro e diceva «petit ouvert» mentre copriva una carta da giuoco, e dietro a lui stava, coi gomiti appoggiati alla spalliera della sua sedia, la sua giovine moglie che gli ricontava i gettoni.
Al termine dei detti cinque anni dalla morte di Pulcheria Ivanovna, trovandomi da quelle parti, mi recai anche alla piccola fattoria di Attanasio Ivanovic per visitare il mio vecchio vicino, dal quale un tempo passavo piacevolmente qualche giornata e sempre gustavo i migliori prodotti della premurosa padrona di casa. Quando mi avvicinai alla corte, la casa mi sembrò due volte piú vecchia; le capanne dei contadini erano tutte pendenti da un lato, certo, come i loro abitatori; il recinto e la palizzata nel cortile erano distrutti, e vidi io stesso come la cuoca andava a cavarne dei pali per accendere la stufa, mentre non aveva da fare se non qualche passo di piú per procurarsi gli sterpi che vi erano ammonticchiati. Con tristezza mi avviai verso la scala; c’erano ancora gli stessi barboni e bracchi, ma già ciechi e con le gambe tronche, cominciarono ad abbaiare sollevando le loro code ondulate, a cui s’erano attaccate molte lappe. Mi venne incontro il vecchietto. Eccolo, è lui! Lo riconobbi subito, ma era curvo il doppio di prima. Mi riconobbe e mi salutò con lo stesso sorriso a me noto. Entrai con lui nella sua camera. In apparenza, li tutto era come prima, ma osservai in ogni cosa non so qual strano disordine, non so quale sensibile mancanza di qualche cosa; in una parola, io provai in me quelle sensazioni strane che c’investono quando entriamo la prima volta nell’abitazione di un vedovo che prima conoscemmo inseparabile dalla moglie, sua compagna per tutta la vita. Quelle sensazioni somigliano a ciò che proviamo vedendo senza gambe avanti a noi un uomo che conoscemmo sempre sano e perfetto. In tutto si notava la mancanza delle cure di Pulcheria Ivanovna: a tavola misero un coltello senza manico; i piatti non erano piú preparati con tanta arte. Sull’andamento della casa non volli fare domande, ebbi anzi paura di dar un’occhiata all’ordinamento dell’azienda domestica.
Quando ci mettemmo a tavola, una ragazza annodò un tovagliolo al collo di Attanasio Ivanovic, e fece molto bene, ché altrimenti egli si sarebbe imbrattato di broda tutta la veste da camera. Io cercai di intrattenerlo in qualche modo, e gli raccontai parecchie novità; mi ascoltava con lo stesso sorriso, ma il suo sguardo di tempo in tempo era del tutto senza senso, e i pensieri in lui non divagavano, ma erano spenti. Spesso tirava su il cucchiaio con la kascia, e invece di portarselo alla bocca, se lo al naso; la forchetta, invece d’infilzarla nel pezzo di pollo, la ficcava nella bottiglia, e allora la ragazza gli prendeva la mano e la portava verso il pollo. A volte aspettammo parecchi minuti la pietanza successiva. Lo stesso Attanasio Ivanovic notò questo fatto, e disse:
— Che vuol dire che aspettano tanto a portare la pietanza? — Ma io vedevo attraverso una fessura della porta che il ragazzo incaricato di portare i piatti non ci pensava affatto, e dormiva con la testa ciondoloni sopra uno sgabello.
— Ecco, questa è la pietanza — disse Attanasio Ivanovic quando ci portarono in tavola i mnisc’ki7 alla crema — questa è la pietanza — seguitò a dire, ed io m’accorsi che la sua voce cominciava a tremare, e una lagrima si preparava ad affacciarsi dai suoi occhi plumbei, ma egli chiamava a raccolta tutte le sue forze per trattenerla: — Questa è quella pietanza che la bu... bu... buona... buon’anima... — e ad un tratto scoppiò in lagrime; il suo braccio cadde sul piatto, il piatto si ripiegò, saltò via e andò in pezzi; la salsa lo inondò tutto. Egli rimase a sedere insensibile; insensibile teneva in mano il cucchiaio, e le lagrime come rivi, come una fontana che versa mormorando, scorrevano, scorrevano copiose sul tovagliolo che lo copriva.
«Dio!» pensavo io guardandolo «cinque anni del tempo che distrugge tutto... un vecchio già insensibile, un vecchio la cui vita, a vederlo, non fu mai turbata da una troppo forte sensazione dell’anima; un uomo, la cui vita, a vederlo, non consisteva in altro che nello stare a sedere sopra un’alta poltrona, nel mangiare pesci salati e pere secche, e in piacevoli conversazioni... e un dolore cosí lungo, cosí cocente! Che è dunque, piú forte in noi: la passione o l’abitudine? O tutti i forti impeti, tutto il turbine dei nostri desideri e delle nostre bollenti passioni non sono altro che una conseguenza della nostra fiammante adolescenza, e solo per questo paiono profondi e rovinosi?» Sia come si voglia, in quel momento mi parvero puerili tutte le nostre passioni di fronte a quella lunga, lenta, quasi insensibile, consuetudine. Parecchie volte egli si sforzò di pronunziare il nome della buon’anima, ma a metà della parola il suo volto pacifico e comune faceva una smorfia, e quel pianto da bimbo mi colpiva proprio in mezzo al cuore. No, non erano quelle lagrime di cui sono ordinariamente cosí prodighi i vecchi presentandovi la loro triste posizione e la loro infelicità; non erano neppure quelle che essi versano avanti a un bicchiere di ponce; no, erano lagrime che scorrevano, senza chiedersi il perché, per loro stesse, accumulate sotto il morso del dolore di un cuore ormai gelato.
Non visse poi molto a lungo. Seppi della sua morte poco tempo addietro. È strano, però, che le circostanze della sua fine ebbero una certa somiglianza con quelle che accompagnarono la fine di Pulcheria Ivanovna. Un giorno Attanasio Ivanovic s’indusse a passeggiare un po’ nel giardino. Mentre andava lentamente per un viottolo, con la sua consueta indolenza, senza avere il minimo pensiero per la testa, gli capitò un fatto strano. Udí a un tratto che alle sue spalle qualcuno pronunciava con voce abbastanza chiara:
«Attanasio Ivanovic!» Si voltò, ma non c’era proprio nessuno; guardò da tutti i lati, sbirciò nei cespugli... nessuno da nessuna parte. Era un giorno calmo, e il sole era chiaro. Per un minuto stette a pensare, il suo volto in certo modo si avvivò, e infine egli disse:
— È Pulcheria Ivanovna che mi chiama!
Vi sarà capitato senza dubbio una volta tanto di udire una voce che vi chiama per nome; cosa che le persone semplici spiegano dicendo che un’anima è inquieta per un uomo e lo chiama a sé, e che a questa chiamata segue immancabilmente la morte. Confesso, a me ha fatto sempre paura quella chiamata misteriosa. Mi ricordo che nella mia infanzia l’udivo spesso: qualche volta dietro a me qualcuno pronunziava chiaramente il mio nome. Ciò avveniva in giornate molto serene e illuminate dal sole; non una foglia si muoveva sopra gli alberi del giardino; era una quiete di tomba; perfino il grillo in quel momento aveva smesso di gridare; non c’era un’anima nel giardino. Ma, confesso, se la notte piú furiosa e burrascosa con tutto l’inferno degli elementi mi avesse colto, solo, in mezzo a una selva impervia, non avrei avuto tanta paura quanto in quella spaventosa quiete di un giorno senza nubi. Allora per il solito fuggivo con immensa paura e con respiro affaticato, fuor del giardino, e non mi calmavo finché non incontravo una persona qualsiasi, la cui vista scacciava quella tremenda solitudine dal mio cuore.
Egli si lasciò dominare interamente dall’intima convinzione che Pulcheria Ivanovna lo aveva chiamato. Si sottomise con la volontà di un fanciullo obbediente, dimagrò, tossí, si consumò come una candela, e infine si spense come la candela quando non le è rimasto piú niente che tenga su la sua misera fiamma.
— Mettetemi accanto a Pulcheria Ivanovna. — Ecco tutto quello che disse prima della sua fine.
La sua volontà fu rispettata, ed egli fu sepolto dietro la chiesa presso la tomba di Pulcheria Ivanovna. C’erano meno ospiti ai funerali, ma del popolo semplice e dei poveri c’era la stessa moltitudine. La casetta padronale rimase interamente deserta. L’intraprendente fattore insieme col capoccia trasportarono nelle loro capanne tutti gli oggetti antichi che ancora vi rimanevano e le masserizie che la massaia non riuscí a sottrarre. Presto arrivò — non si sa di dove — un certo lontano parente, erede della proprietà, uno che prima aveva servito nell’esercito col grado di tenente, non so piú in quale reggimento, ed era un formidabile riformatore. Notò subito un’immensa devastazione e abbandono del patrimonio; stabilí di sradicare a ogni costo quel malanno, regolare ogni cosa e portare ordine in tutto. Acquistò in blocco sei magnifiche falci inglesi, attaccò ad ogni capanna un numero speciale, e infine regolò le faccende tanto bene, che in capo a sei mesi la proprietà era sotto tutela. La saggia tutela (composta di un assessore e di un certo capitano in seconda, dall’uniforme sbiadita), in breve tempo sterminò tutti i polli e tutte le uova. Le capanne, quasi tutte ormai giacenti a terra, finirono di rovinare; i contadini presero ad avvinazzarsi e cominciarono la maggior parte ad essere considerati come fuggitivi. Lo stesso attuale proprietario che, del resto, viveva abbastanza d’accordo con i suoi tutori, e si trovava con essi a bere il ponce, andava molto di rado a visitare i suoi fondi, e non vi rimaneva molto a lungo. Egli frequenta ancora adesso tutte le fiere e i mercati della Piccola Russia, s’informa accuratamente dei prezzi di vari tra i piú cospicui prodotti che si vendono all’ingrosso, come la farina, la canapa, il miele e cosí via; ma non compra se non gingilli di poco conto, come pietre focaie, ferretti da sturare la pipa, e in genere tutto ciò che non supera, venduto all’ingrosso, il prezzo di un rublo.
Note
- ↑ Fuori della pronunzia dialettale, il cognome della coppia doveva esere Tolstogub (dalle labbra grosse).
- ↑ Nomi in -o di gente comune si trasformano in nomi in -ov, caratteristici dei nobili casati. Analogamente nell’occidente si crea un’apparenza di nobiltà premettendo al cognome un di o un de.
- ↑ Km. 2,134.
- ↑ Purè d’avena, patate ecc. al latte o altro liquido.
- ↑ Km. 3,201 ovvero 4,268.
- ↑ Specie di riso, o di frumento, al miele, usato nei banchetti funebri.
- ↑ Pietanza ucraina, fatta con farina e giuncata.