Orlando innamorato/Libro secondo/Canto ventesimosecondo

Libro secondo

Canto ventesimosecondo

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1   Se a quei che trïonfarno il mondo in gloria,
     Come Alessandro e Cesare romano,
     Che l’uno e l’altro corse con vittoria
     Dal mar di mezo a l’ultimo oceàno,
     Non avesse soccorso la memoria,
     Serìa fiorito il suo valore invano;
     Lo ardire e senno e le inclite virtute
     Serian tolte dal tempo e al fin venute.

2   Fama, seguace de gli imperatori,
     Ninfa, che e gesti e’ dolci versi canti,
     Che dopo morte ancor gli uomini onori
     E fai coloro eterni che tu vanti,
     Ove sei giunta? A dir gli antichi amori
     Ed a narrar battaglie de’ giganti,
     Mercè del mondo che al tuo tempo è tale,
     Che più di fama o di virtù non cale.

3   Lascia a Parnaso quella verde pianta,
     Ché de salirvi ormai perso è il camino,
     E meco al basso questa istoria canta
     Del re Agramante, il forte saracino,
     Qual per suo orgoglio e suo valor si vanta
     Pigliar re Carlo ed ogni paladino.
     D’arme ha già il mare e la terra coperta:
     Trentaduo re son dentro da Biserta.

4   E poi che ritrovato è quel Rugiero,
     Qual di franchezza e di beltate è il fiore,
     L’un più che l’altro a quel passaggio è fiero:
     Non fu veduto mai tanto furore.
     Or ben se guardi Carlo lo imperiero,
     Ché adosso se gli scarca un gran romore;
     Contar vi voglio il nome e la possanza
     Di ciascadun che vôl passar in Franza.

5   Venuto è il primo insin de Libicana,
     Re Dudrinaso, che è quasi un gigante:
     Tutta senz’arme è sua gente villana,
     Ricciuta e negra dal capo alle piante;
     Ma lui cavalca sopra ad una alfana,
     Armato bene è di dietro e davante,
     E porta al paramento e sopra al scudo
     In campo rosso un fanciulletto nudo.

6   E Sorridano è gionto per secondo,
     Qual signoreggia tutta la Esperia;
     Cotanto è in là, che quasi è fuor del mondo,
     Ed è pur negra ancor la sua zinia.
     Rossi ambi gli occhi e il viso furibondo
     Costui che io dico e i labri grossi avia;
     Sotto ha una alfana, sì come il primiero.
     Or viene il terzo, che è spietato e fiero:

7   Tanfirïone, il re de l’Almasilla,
     Anci nomar si può re del diserto,
     Ché non ha quel paese o casa o villa,
     Ma tutta sta la gente al discoperto.
     Chi me donasse l’arte de Sibilla,
     Indovinando io non sarrìa di certo
     Della sua gente scegliere il megliore,
     Ché senza ardir son tutti e senza core.

8   Non vi meravigliati poi se Orlando
     Caccia costor tal fiata alla disciolta,
     E se cotanti ne taglia col brando,
     Ché nuda è quasi questa gente istolta;
     E sempre è bon cacciare alora quando
     Fugge la torma e mai non se rivolta.
     Ma dal proposto mio troppo mi parto:
     Dett’ho del terzo, odeti per il quarto,

9   Ch’è Manilardo, il re de la Norizia,
     La qual di là da Setta è mille miglia;
     De pecore e di capre ha gran divizia,
     E la sua gente a ciò se rassomiglia.
     Non han moneta e non hanno avarizia
     De oro e de argento; e non è maraviglia,
     Che tra noi anco il bove né il montone
     Ciò non desia, perché è senza ragione.

10 Il re di Bolga, il quinto, è Mirabaldo,
     Che è longi al mare ed abita fra terra.
     Grande è il paese, tutto ardente e caldo,
     Sempre sua gente con le serpe han guerra.
     Il giorno va ciascun sicuro e baldo,
     La notte ne le tane poi si serra;
     D’erba se pasce, e non so che altro guste:
     Scrive Turpin che vive de locuste.

11 Re Folvo è il sesto, il qual venne di Fersa:
     Non trovo gente di questa peggiore;
     Come il sol se alcia al mezo giorno, è persa,
     Biastemando chi ’l fece e ’l suo splendore.
     La feccia qua del mondo se roversa,
     Per dar travaglia a Carlo imperadore.
     Or vengano pur via, gente balorda,
     Che ogni cristian ne avrà cento per corda.

12 E se nulla vi manca, per aiuto
     Già Pulïano, il re di Nasamona,
     Con gente di sua terra è qua venuto.
     Non trovaresti armata una persona;
     Chi porta mazza e chi bastone acuto,
     Trombe ni corni a sua guerra si suona;
     Avengaché il suo re sia bene armato,
     Di molto ardire e gran forza dotato.

13 Il re de le Alvaracchie è Prusïone,
     Che le Isole Felice son chiamate,
     E tra gli antiqui ne è larga tenzone,
     E ne le istorie molto nominate.
     Ma lui condusse alla terra persone
     Ignude quasi, non che disarmate;
     Ciascun portava in mano un tronco grosso,
     E sol di pelle avean coperto il dosso.

14 Venne Agrigalte, il re de la Amonia,
     Qual ha il suo regno in mezo de la arena.
     Una gran gente detro a lui seguia,
     Ma tutta quanta de pedocchi è piena.
     Apresso di questo altro ne vien via
     Re Martasino, e la sua gente mena,
     Qual più de altre de arme non se vanta:
     Il giovanetto è re di Garamanta.

15 Perché, dopo che morto fu il vecchione,
     Quale era negromante e incantatore,
     Il re concesse questa regïone
     A Martasino, a cui portava amore.
     Apresso a questo venne Dorilone;
     Aveva pur costui gente megliore,
     Ché è re di Septa ed ha porto su il mare;
     La gente sua selvatica non pare.

16 Vennevi ancora Argosto di Marmonda,
     Che stimato è guerrer molto soprano.
     Il suo paese di gran pesci abonda,
     Perché è disteso sopra allo oceàno,
     Tornando dietro al mare, alla seconda.
     Bambirago d’Arzila, a destra mano.
     La gente di costor è de una scorza
     Nera, come è il carbon quando se smorza.

17 Ma tra’ Getuli avea perso Grifaldo,
     Che, via passando, non me venne a mente.
     Lontano è al mare il suo paese caldo,
     Populo ignudo, tristo e da nïente.
     Bardulasto era morto, quel ribaldo,
     Ma novo re fu posto alla sua gente,
     La qual condotta venne da Alghezera;
     Questa tra l’altre è ben gagliarda e fiera.

18 Vero è che non han ferro in sua provenza,
     Ma tutti portano ossa de dragoni
     Tagliente e acute, e non vedresti un senza;
     Per elmi in capo han teste de leoni,
     Sì che a mirarli è strana appariscenza.
     In Francia periran questi poltroni;
     Tutti han scoperte le gambe e le braccia;
     Un sol non vi è, che assembri uno omo in faccia.

19 Bucifaro il suo re fu nominato,
     Qual di prodezza è tra’ baroni il terzo.
     Il re di Normandia gli viene a lato,
     Forte ed ardito, e nome ha Baliverzo;
     Ma il popol che ha condotto è sciagurato,
     Qual sordo, quale è zoppo e quale è guerzo:
     Gente non fu giamai cotanto istrana;
     Poi vien Brunello, il re de Tingitana.

20 Più sozza fronte mai non fie’ natura,
     E ben li ha posti del mondo in confino,
     Ché a l’altra gente potria far paura,
     Che se scontrasse avante al matutino.
     Né già il suo re gli avanza di figura,
     Negretto come loro e piccolino;
     Più volte vi narrai come era fatto,
     Però lo lascio e più de lui non tratto.

21 E torno ver ponente alla marina,
     Ove è il paese più domesticato,
     Benché la gente è negra e piccolina,
     Né trovaresti tra mille uno armato.
     Di là vien Farurante di Maurina;
     Feroce è lui, ma male accompagnato.
     Ora nel nostro mar mi volto adesso:
     Il re di Tremison gli viene apresso

22 (Alzirdo ha nome, e la sua schiera è armata
     Di lancie e scudi, e de archi e de saette),
     E Marbalusto, la anima dannata,
     Che seco ha tante gente maledette,
     E per menarle meglio alla spiegata
     La Francia tutta in preda gli promette,
     Onde quei pacci volentier vi vano;
     Costui de cui ragiono, è re d’Orano.

23 Un altro, che al suo regno gli confina,
     Venne con gente armata con vantaggio:
     Ciò fu Gualciotto di Bellamarina,
     Forte ne l’armi e di consiglio saggio.
     Poi Pinadoro, il re di Costantina;
     Questo dal mare è longi in quel vïaggio:
     Quando già fece con gli Arabi guerra,
     Fie’ Costantino al monte quella terra.

24 Non par, segnor, che io ne abbia detto assai
     Che lasso son cercando ogni confino?
     E parmi ben ch’io non finirò mai;
     Pur mo se me apresenta il re Sobrino,
     Che è re di Garbo, come io vi contai.
     Non è di lui più savio saracino;
     Tardocco, re di Alzerbe, venne apresso.
     Tre vi ne sono ancora, io ve ’l confesso.

25 Quel Rodamonte che è passato in Francia,
     È re di Sarza, ed è tanto gagliardo,
     Che non è pare al mondo di possancia.
     Ora vi venne ancora il re Branzardo
     Con belle gente armate a scudo e lancia;
     Re di Bugia se appella quel vecchiardo.
     Lo ultimo venne, perch’è più lontano,
     Mulabuferso, che è re di Fizano.

26 Era già prima in corte Dardinello,
     Nato di sangue e di casa reale,
     Che fu figlio de Almonte il damigello,
     Destro ne l’arme, come avesse l’ale,
     Molto cortese, costumato e bello,
     Né se potrebbe apponervi alcun male.
     Il re Agramante, che gli porta amore,
     Re de Azumara l’ha fatto e segnore.

27 Io credo ben che serà notte bruna
     Prima che tutti possa nominare,
     Perché giamai non fu sotto la luna
     Tal gente insieme, per terra o per mare.
     Re Cardorano a gli altri anco se aduna:
     Chi gli potrebbe tutti ramentare?
     E vien con seco il nero Balifronte:
     Quasi il lor regno è fuor de l’orizonte.

28 Il primo ha in Cosca la sua regïone,
     Mulga se appella poi l’altro paese.
     Africa tutta e le sue nazïone
     Intorno de Biserta son distese,
     Varii di lingue e strani di fazone,
     Diversi de le veste e de lo arnese;
     Né se numerarebbe a minor pena
     Le stelle in celo o nel litto l’arena.

29 Fece Agramante e re tutti alloggiare
     Dentro a Biserta, che è di zoie piena;
     Là con baldanza stanno ad armeggiare
     Con balli e canti e con festa serena;
     Altro che trombe non se ode suonare,
     L’un più che l’altro gran tempesta mena;
     Chi a destrier corre, e chi l’arme si prova,
     Cresce nel campo ognior più gente nova.

30 Da Tripoli e Bernica e Tolometta
     Vien copia de pedoni e cavallieri;
     Questa è ben tutta quanta gente eletta
     Con arme luminose e bon destrieri.
     Quivi il re di Canara anco se aspetta,
     Ma già non son cotali e suoi guerrieri,
     Ché alle lor lancie non bisogna lima;
     Corne di capre gli han per ferri in cima.

31 Era il suo re nomato Bardarico,
     Terribil di persona e bene armato;
     Or quando fu giamai nel tempo antico
     Per tale impresa un popolo adunato,
     Tanto diverso quanto è quel che io dico,
     La terra e il mar coperto in ogni lato?
     Oh quanto era superbo il re Agramante,
     Che a suo comando avea gente cotante!

32 Benché gli Arabi e il suo re Gordanetto
     Ad obedirlo ancor non sian ben pratichi;
     Questi non hanno né casa né tetto,
     Ma ne le selve stan come selvatichi;
     Ragione e legge fanno a suo diletto,
     Né son tra loro astrologi o gramatichi.
     Non è de questi alcun paese certo,
     Robbano ogniuno e fuggono al diserto.

33 E chi volesse dietro a lor seguire,
     Serìa perdere il tempo con affanno;
     Essi de frutti se sanno nutrire
     E vivere al scoperto senza panno;
     Però fan gli altri di fame morire,
     Né se acquista a seguirli se non danno;
     Onde Agramante per questa paura
     De subiugarli mai non prese cura.

34 E standosi in Biserta a sollacciare,
     Come io vi dissi, con molto conforto,
     Un messo li aportò come nel mare
     Son più nave apparite sopra al porto,
     Le qual già Rodamonte ebbe a menare,
     Ma de lui non se sa se è vivo o morto;
     E che seco avean loro un gran pregione,
     Che è cristiano ed ha nome Dudone.

35 Il re turbato incominciò gran pianto,
     Stimando che sia morto Rodamonte;
     Ma io il vo’ piangendo abandonare alquanto,
     Per tornare a que’ duo che a fronte a fronte
     De ardire e de fortezza se dàn vanto.
     Forse stimati che io parli del conte,
     Qual con Ranaldo a guerra era venuto;
     Ma io dico Rodamonte e Ferraguto,

36 Che non ha tutto il mondo duo pagani
     Di cotal forza e tanta vigoria.
     Crudel battaglia quei baron soprani
     Menata han sempre e menan tuttavia.
     De arme spezzate avean coperti i piani,
     Né alcun de lor sa già chi l’altro sia;
     Ma ciascun giuraria senza riguardo
     Non aver mai trovato un più gagliardo.

37 De l’altro è Feraguto assai minore,
     Ma non gli lasciaria del campo un dito,
     Ché a lui non cede ponto di valore,
     Perché ogni piccoletto è sempre ardito;
     Ed èvi la ragion, però che il core
     Più presso a l’altre membra è meglio unito;
     Ma ben vorebbe aver la pelle grossa
     Il cane ardito, quando non ha possa.

38 Durando anco tra lor lo assalto fiero,
     Per l’aspri colpi orribile a guardare,
     Passava per quel campo un messaggiero,
     Qual, fermo un poco, gli prese a parlare:
     - Se alcun di voi de corte è cavalliero,
     Male novelle vi sazo contare,
     Ché ’l re Marsilio, il perfido pagano,
     Posto ha lo assedio intorno a Montealbano.

39 E dissipato in campo ha il duca Amone,
     E con soi figli l’ha dentro cacciato,
     Seco Anzoliero e il suo parente Ivone:
     Alardo è preso, e non so se è campato;
     E quel paese è in gran destruzïone,
     Ché tutto intorno l’hanno arso e robbato.
     Questo vidi io, che son de là venuto
     Per dimandare a Carlo Mano aiuto. -

40 Non fece alcuna indugia quel corriero,
     Che dopo le parole è caminato.
     Assai turbosse Feraguto il fiero,
     Poi che a quel fatto non se era trovato;
     E stato essendo alquanto in tal pensiero
     Da Rodamonte al fin fu domandato
     Se di tal guerra avea ponto che fare,
     Ché non vi avendo, è da lasciarla andare.

41 E Feraguto a ponto gli contava
     Come era il re Marsilio suo cïano,
     E poi cortesemente lo pregava
     Che seco voglia pace a mano a mano;
     Né mai più de impicciarsi gli giurava
     Per la figliola del re Stordilano.
     Non lasciò già per tema cotal prova,
     Ma sol per gire a quella guerra nova.

42 Re Rodamonte, che l’avea provato
     Di tal franchezza e di tanto ardimento,
     Assai nel suo parlar l’ebbe onorato,
     Facendo il suo volere a compimento;
     E poi se furno l’un l’altro abracciato,
     E fratellanza ferno in giuramento,
     Con sì grande amistate e tanto amore
     Che tra duo altri mai non fu maggiore.

43 E destinati non se abandonare
     L’un l’altro mai sin che in vita serano,
     Insieme cominciarno a caminare,
     Per ritrovarse entrambi a Montealbano;
     E, via passando senza altro pensare,
     Scontrarno Malagise e Vivïano:
     Venian que’ duo fratei, de’ qual vi parlo,
     Per impetrar soccorso dal re Carlo

44 Per Montealbano, il quale è assedïato,
     Come di sopra potesti sentire.
     Or Malagise se trasse da lato,
     Come e due cavallier vidde venire,
     Dicendo a Vivïan: - Per Dio beato!
     Chi sian costoro io vo’ saperti dire -;
     Ed intrato lì presso in un boschetto,
     Fece il suo cerchio ed aperse il libretto.

45 Come il libro fu aperto, più né meno,
     Ben fu servito di quel che avea voglia,
     Ché fu a demonii il bosco tutto pieno:
     Più de ducento ne è per ogni foglia.
     E Malagise, che gli tiene a freno,
     Comanda a ciascadun che via se toglia,
     Largo aspettando insin che altro comanda;
     Poi di costoro a Scarapin dimanda.

46 Era un demonio questo Scarapino,
     Che dello inferno è proprio la tristizia:
     Minuto il giottarello e piccolino,
     Ma bene è grosso e grande di malizia;
     Alla taverna, dove è miglior vino,
     O del gioco e bagascie la divizia,
     Nel fumo dello arosto fa dimora,
     E qua tentando ciascadun lavora.

47 Costui, da Malagise adimandato,
     Gli disse il nome e lo esser de’ baroni;
     Là dove il negromante ebbe pensato
     Pigliarli entrambi ed averli pregioni.
     Tutti e demonii richiamò nel prato
     In forma de guerreri e de ronzoni,
     Mostrando in vista più de mille schiere,
     Con cimeri alti e lancie e con bandiere.

48 Lui da una parte, da l’altra Viviano
     Uscirno di quel bosco a gran furore.
     Diceva Feraguto: - Odi, germano,
     Ch’io non sentitte mai tanto rumore!
     Questo è veramente Carlo Mano.
     Or bisogna mostrar nostro valore;
     Abench’io voglia te sempre obedire,
     Per tutto il mondo non voria fuggire. -

49 - Come fuggir? - rispose Rodamonte
     - Hai tu di me cotale opinïone?
     Senza te solo io vo’ bastare a fronte
     A tutti e cristïani e al re Carlone,
     E alle gente di Spagna seco aggionte.
     Se sopra il campo vi fosse Macone
     E tutto il paradiso con lo inferno,
     Non me farian fuggire in sempiterno. -

50 Mentre che e duo baron stavano in questa,
     Ragionando tra lor con cotal detti,
     E Malagise uscì de la foresta,
     Già non stimando mai che alcun lo aspetti,
     Però che seco avea cotal tempesta
     De urli e de cridi da quei maledetti,
     Che sotto gli tremava il campo duro:
     Dal lor fiatare è fatto il celo oscuro.

51 Venìa davanti agli altri Draginazza,
     Che avea le corne a l’elmo per insegna;
     Questo di rado a vil gente se abbrazza:
     Tra gli superbi alle gran corte regna.
     La lancia ha col pennone e spada e mazza,
     Ma di portare il scudo se disdegna.
     Questo si serra adosso a Rodamonte,
     E con la lancia il gionse ne la fronte.

52 Avea la lancia il fer tutto di foco,
     Che entrò alla vista ed arse ambe le ciglia:
     E questo mosse Rodamonte un poco,
     Perché ebbe di tal fatto meraviglia;
     Ma urtò il ronzon cridando: - Aspetta un poco,
     Giotton, giotton, ché tua faccia somiglia
     Proprio al demonio mirandoti apresso,
     E certamente io credo che sei desso. -

53 Al fin de le parole il brando mena,
     Come colui che avea forza soprana,
     E fu il gran colpo de cotanta lena,
     Che dentro lo passò più d’una spana,
     E dette a Draginazza una gran pena,
     Benché il passasse come cosa vana;
     Ma gli altri maledetti gli èno adosso
     Con tanta furia, che contar nol posso.

54 E lui per questo non è meno ardito,
     Non ve pensati che ’l dimandi aiuto;
     Or questo or quel demonio avea colpito:
     Già se pente ciascun d’esser venuto,
     E Draginazza via ne era fuggito:
     Ma molti sono adosso a Feraguto,
     E sopra a tutti un gran dïavolone,
     E questo è Malagriffa dal rampone.

55 Con quel rampone agriffa gli usurari,
     Conducendoli a ponto ove li piace,
     Perché ha possanza sopra de li avari,
     E giù gli coce in quel fuoco penace,
     E piglia preti e frati e i scapulari,
     Perché ciascun di loro è suo seguace.
     Ora al presente a Feraguto è intorno;
     Ben se diffende il cavalliero adorno.

56 E quel ferì de un colpo sì diverso,
     Che io vi so dir che l’altro non aspetta,
     E a tutti gli altri mena anco a traverso;
     Ma tanta era la folta maledetta,
     Che sol cridando quasi l’han somerso.
     Ora ecco un altro, che ha nome Falsetta,
     Ingannatore e de ogni vizio pieno:
     A fraude e trufferia mai non vien meno.

57 Costui con Feraguto fie’ battaglia,
     Non gli stando però molto dapresso,
     Ma errando intorno gli dava travaglia,
     Fuggendo e ritornando a gioco spesso.
     Mal fa chi sì gran pezzo al panno taglia,
     Che non sa de cusirlo per espresso;
     Credea Falsetta ad arte e con inganni
     Tenire il cavallier sempre in affanni.

58 Ma Rodamonte, che venìa da lato,
     A caso riscontrò quel maledetto;
     Intra le corne il brando ebbe callato,
     E divise la testa e tutto il petto.
     Via va cridando quel spirto dannato,
     Ma dove andasse, io non so per effetto,
     E Rodamonte dà tra quei malvasi,
     Benché ormai pochi al campo sian rimasi.

59 Fuggiano urlando e stridendo con pianti,
     Ché eran spezzati e non potean morire;
     E dove prima al bosco eran cotanti,
     Ora son pochi, e ciascun vôl fuggire.
     A benché Malagise con incanti
     Facesse alquanto il campo mantenire,
     Pur non gli puote ritenere al fine,
     Che irno in profondo alle anime tapine.

60 Esso, veggendo il fatto andar sì male,
     A fuggir cominciò con Vivïano;
     Ma tal fuggire ad essi poco vale:
     Feraguto gli segue per il piano
     Sopra a un destrier che par che metta l’ale,
     E in somma ambi li prese a mano a mano,
     Benché pur ferno alquanto de diffesa;
     Ma Rodamonte gionse alla contesa.

61 Ed ambi gli legarno in su un ronzone,
     E verso Montealbano andarno via,
     Per presentarli al re Marsilïone.
     Segnori e grazïosa compagnia,
     Io voglio mo finire il mio sermone,
     Seguendo poi con bella diceria
     La istoria cominciata e la gran guerra:
     Dio vi contenti in celo e prima in terra.