Orlando innamorato/Libro secondo/Canto ventesimoterzo

Libro secondo

Canto ventesimoterzo

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Libro secondo - Canto ventesimosecondo Libro secondo - Canto ventesimoquarto

 
1   Quella battaglia orribile e infernale
     Che io ve ho contata, e piena di spavento,
     Me piacque sì che, s’io non dico male,
     Mirarla in fatto avria molto talento,
     Sol per veder se il demonio è cotale
     E tanto sozzo come egli è dipento,
     Ché non è sempre a un modo in ogni loco:
     Qua maggior corne, e là più coda un poco.

2   Sia come vôle, io ne ho poca paura,
     Ché solo a’ tristi e a’ desperati nôce,
     E men fatica ancor più me assicura,
     Ché io so ben fare il segno de la croce.
     Or via lasciamolo in la mala ventura
     Nel fuoco eterno che il tormenta e coce,
     Ed io ritorno a dilettarvi alquanto
     Ove io lasciai l’istoria a l’altro canto.

3   Andando Feraguto a Montealbano
     E Rodamonte, come io ve contai,
     Che preso ha Malagise e Vivïano,
     Via caminando non restarno mai,
     Sin che trovâr lo esercito pagano,
     Che avea gran nobiltate e gente assai;
     Re, duci, cavallier, marchesi e conti
     Coperti di trabacche han piani e monti.

4   Feraguto andò avanti al re Marsilio,
     E conta in breve, stando ingenocchiato,
     Sì come a Malagise diè di piglio,
     E Rodamonte assai gli ebbe lodato.
     Il re, che più l’amava assai che figlio,
     Oltra meza ora lo tenne abracciato,
     Baciandolo più volte, e per suo amore
     A Rodamonte fece un grande onore.

5   Balugante era in campo e Falcirone,
     Fratei del re, con molta baronia,
     L’un de Castiglia e l’altro di Leone,
     E Maradasso, il re de Andologia,
     E il re di Calatrava, Sinagone,
     Grandonio di Volterna in compagnia,
     Qual dapoi mise e Cristïani al fondo
     (Sopra a Moroco regna il furibondo);

6   Re de’ Galegi, il quale era pedone,
     Ché destriero al portar non ha balìa,
     Vi venne Maricoldo col bastone;
     Ma di Biscaglia alcun non vi venìa,
     Perché il re Alfonso tien la regïone,
     Bon cristïano e de alta gagliardia,
     Di cui la stirpe e ’l bel seme iocondo
     Non Spagna sol, ma illuminato ha il mondo.

7   Né trovo per scrittura, o per ragione
     Più real sangue, e non credo che sia;
     Fanne Sardegna dimostrazïone,
     Le due Cecilie e in parte Barbaria:
     Ed è verace quella opinïone
     Che fu da’ Goti sua genologia.
     Chi fosser questi, già non vi respondo:
     La terra il seppe e il mar che gira in tondo.

8   Or veritate ed anco affezïone
     Me ha tratto alquanto de la strata mia;
     Ma torno adesso e dico le persone
     Sopra a le qual Marsilio ha signoria.
     Larbin di Portugallo era in arcione,
     E Stordilano ancor, che possedia
     Tutta Granata; e già non vi nascondo
     Il Maiorchin, che nome ha Baricondo;

9   Ma poi la corte di Marsilïone,
     Di tanto pregio e tal cavalleria.
     Serpentin de la Stella, il fier garzone,
     Ed Isolier s’aspetta tuttavia,
     Che è sir de Pampaluna, e Folicone,
     Del re bastardo e conte de Almeria;
     Non par di Spagna il terzo, né il secondo,
     Quel colorito, e questo bianco e biondo.

10 Ma perché vi faccio io tanta dimora
     Il nome e le provenze a racontare,
     Che poi ne le battaglie in poco de ora
     Gli sentireti a ponto divisare?
     Re Carlo giongerà senza dimora,
     Poscia per tutti vi serà che fare,
     A benché alcun pagan qua non l’aspetti,
     Che tutti in zoia stanno e gran diletti.

11 Aveano usanza tutti i re pagani,
     La quale in questo tempo anco è rimasa,
     Che, campeggiando, o vicini o lontani,
     Ma’ le lor dame lasciavano a casa;
     Né so se lor pensier sian fermi o vani,
     Ché pur sta mal la paglia con la brasa;
     Ma, da altra parte ancora, per amore
     Lo animo cresce e più se fa de core.

12 Per questo erano in campo le regine
     Quasi di tutta Spagna, e pur le belle;
     Ma sopra a tutte l’altre peregrine
     Era stimata il fior de le donzelle
     La Doralice; come tra le spine
     Splende la rosa e tra foglie novelle,
     Così lei di persona e di bel viso
     Sembra tra l’altre dea del paradiso.

13 Re Rodamonte, che tanto l’amava,
     Ogni giorno per lei facea gran prove;
     Or combatte a ristretto ed or giostrava,
     Sempre con paramenti e foggie nove,
     E Feraguto a ciò l’accompagnava;
     Onde per questo par che non se trove
     Altro baron che a lui tenga la fronte,
     Tanto era forte e destro Rodamonte.

14 Il re Marsilio per più fargli onore
     Facea gran feste e trïonfal conviti,
     E sempre Rodamonte ha più favore
     Tra quelle dame dai visi fioriti.
     Or così stando un giorno, alto rumore
     E trombe con gran cridi fôrno oditi,
     E la novella vien de mano in mano
     Come assalito è il campo giù nel piano.

15 Re Carlo ne venìa per la campagna,
     Ed avea seco il fior de’ Cristïani
     De l’Ongheria, di Franza e de la Magna,
     E la sua corte, quei baron soprani;
     Ma quando vidde la gente di Spagna
     Tutta assembrata per callare a i piani,
     Chiamò Ranaldo ed ebbe a lui promesso
     Non dar la dama a Orlando per espresso,

16 Pur che facesse quel giorno col brando
     Sì fatta prova e dimostrazïone,
     Che più di lui non meritasse Orlando.
     Poi d’altra parte il figlio de Milone
     Fece chiamar da parte, e ragionando
     Con lui gli diè segreta intenzïone
     Che mai la dama non avrà Ranaldo,
     Pur che combatta il giorno al campo saldo.

17 Ciascun di lor quel giorno se destina
     Di non parer de l’altro mai peggiore.
     Ahi sventurata gente saracina,
     Che adosso ben ti viene un gran romore!
     Quei duo baron faran tanta ruina,
     Che mai fu fatta al mondo la maggiore.
     Or tacete, segnori, e non v’incaglia,
     Ch’io vo’ contare un’aspra e gran battaglia.

18 Re Carlo Mano avea fatte le schiere
     Molto ordinate e con gran sentimento;
     Il nome de ciascuno e le bandiere
     Poi sentirete e l’altro guarnimento,
     Secondo che usciran le gente fiere
     Che contra lor ne van con ardimento.
     Ma la prima che è gionta alla campagna
     È Salamone, il bon re de Bertagna.

19 Con la bandiera a scacchi neri e bianchi
     Ricardo e’ soi Normandi è seco in schiera;
     Guido e Iachetto, che èn duo baron franchi,
     L’un de Monforte e l’altro de Riviera.
     Sei de sei millia non credo che manchi
     Di questa gente, che è animosa e fiera;
     Ne vien correndo e mena gran pulvino,
     Per assalire il campo saracino.

20 Marsilio avea mandato Balugante,
     Che refrenasse quello assalto un poco,
     Acciò che le sue gente, che son tante,
     Potesse trare alquanto di quel loco.
     Serpentino era seco e lo Amirante
     E il re Grandonio, l’anima di foco;
     Con più de trenta millia de Pagani
     Callarno il monte e gionsero in que’ piani.

21 Suonâr le trombe, e con molta tempesta
     L’un verso l’altro a gran crido se mosse
     A tutta briglia, con le lancie a resta,
     E con fraccasso l’un l’altro percosse.
     Aspra battaglia non fu più di questa:
     Volarno i tronchi al cel de l’aste grosse
     E l’arme resuonarno insieme e’ scudi,
     Quando scontrarno insieme a li urti crudi.

22 Era al principio questo un bel riguardo
     Per l’arme relucente e per cimieri;
     Ciascun destriero ancora era gagliardo,
     Coperte e paramenti erano intieri;
     Ma, poi che Salamone e il bon Ricardo
     E Iachetto con Guido, e baron fieri,
     Intrarno furïosi alla gran folta,
     La bella vista in brutta fu rivolta.

23 Roncioni e cavallier morti e tagliati
     Tutto infiammarno il campo sanguinoso,
     E l’arme rotte e gli elmi spenacchiati
     Facean riguardo tristo e doloroso.
     E paramenti e’ squarci dissipati,
     E ciascun pien di sangue e polveroso;
     Il ruïnare a terra e il gran fraccasso
     Avrian smariti gli occhi a un satanasso.

24 Ricardo entrò primiero alla battaglia,
     Il qual portava per cimiero un nido,
     E Salamone adosso alla canaglia,
     E Iachetto con seco e ’l franco Guido.
     Ciascun sì crudamente i Pagan taglia,
     Che sino al cel se odiva andare il crido;
     Ma alor se mosse incontra Balugante,
     Grandonio e Serpentino e lo Amirante.

25 E per la lor prodezza e suo valore,
     E per sua gente ancor, che gli abondava,
     La nostra certo arìa avuto il peggiore,
     Che indietro a poco a poco rinculava;
     Ma, ciò veggendo Carlo imperatore,
     Che a lato alla baruffa sempre istava,
     Mandò in soccorso Olivieri il marchese,
     E Naimo e il conte Gano e il bon Danese;

26 E seco Avino e Ottone e Berlengiero
     E Avorio, che anco lui fu paladino;
     Avenga che io nol ponga per primiero,
     Pur va con gli altri, e dietro a lui Turpino.
     Alor se radoppiò lo assalto fiero
     E levossi di novo alto polvino;
     Altro che trombe non se ode nïente,
     E lancie rotte de una e de altra gente.

27 Carlo chiamò da parte Bradamante,
     Ch’è fior de gagliardia, quella donzella,
     E ’l bon Gualtiero, il cavalliero aitante,
     Ed alla dama in tal modo favella:
     - Tu vedi il monte il quale è qua davante.
     Là con Gualtiero a quel bosco ti cella,
     Con questi cavallier che teco mando,
     Né te partir di là, se io nol comando. -

28 Ella ne andò; ma sopra di quel piano
     Era battaglia sì crudele e stretta,
     Che nol potria contare ingegno umano.
     A furia vien la gente maledetta;
     Benché il franco Olivier col brando in mano
     Di qua di là gli taglia a pezzi e fetta,
     Pur si diffende assai la gente fiera:
     Ecco de il monte scende un’altra schiera.

29 Questo è il re Stordilano, e Malgarino
     E Baricondo è seco e Sinagone,
     E Maradasso più gli era vicino:
     La schiera guida al campo Falcirone.
     Costui portava al suo stendardo un pino
     Col foco ne le rame e nel troncone,
     Ed ha la gente spessa come piova:
     Ben vi so dir che il gioco se rinova.

30 Alor Grandonio, quella anima accesa,
     Qual mai non se ha potuto adoperare,
     Sol per tenir la sua gente diffesa
     (Ché a ricoprirla troppo avea che fare),
     Ora una lancia in su la coscia ha presa,
     E sopra Salamon se lascia andare.
     Avendo posta già quella asta a resta,
     Roverso al campo il getta con tempesta.

31 Guido abattuto fu da Serpentino,
     Io dico Guido il conte de Monforte,
     E non il Borgognon, che è paladino,
     Il qual si stava con re Carlo in corte.
     Or Balugante, il forte saracino,
     Al conte de Rivera diè la morte,
     Dico a Iachetto; gionselo al costato,
     E via passando lo distese al prato.

32 Quando il Danese vidde Balugante,
     Che avea in tal modo morto il giovanetto,
     Turbato acerbamente nel sembiante
     Sprona il ronzone adosso al maledetto.
     Gionse al cimier, che è un corno de elefante,
     E specciòl tutto e roppe il bacinetto,
     E se dritto il colpiva a compimento,
     Tutto il fendeva di sotto dal mento.

33 Ma il brando per traverso un poco calla,
     Sì che una guanza con la barba prese,
     E venne gioso e colse nella spalla,
     Né piastra grossa o maglia la diffese.
     Nel scudo de osso il bon brando non falla,
     Ma seco ne menò quanto ne prese,
     E fo sì gran ferita e sì diversa,
     Che quasi ha lui da poi la vita persa.

34 Ma Balugante volta il suo ronzone
     Menando le calcagne forte e spesso,
     Sin che fo avante al re Marsilïone,
     Come io vi contarò qua poco apresso.
     Ora Oliviero abatte Sinagone,
     Ed hagli il capo insino ai denti fesso:
     Barbuta non gli valse o l’elmo fino;
     E poi se volta e segue Malgarino.

35 Ma non lo aspetta lui, che è impaurito;
     Mostrògli Sinagon ciò che ’l die’ fare,
     Ed ebbe senno a pigliar bon partito.
     Ecco Grandonio, che un serpente pare:
     E gionse Avino, il giovanetto ardito,
     E sottosopra il fece trabuccare;
     Poi Belengero abatte in sul sabbione,
     E seco Avorio e il suo fratello Ottone.

36 Gionse anche Serpentino a un’altra banda
     E scontrò il bon Ricardo paladino:
     For dello arcione alla campagna il manda;
     Né qui se arresta e scontrase a Turpino,
     E benché ’l prete a Dio se ricomanda,
     Pur fu abattuto da quel saracino.
     Rimescolata è tutta quella traccia,
     Qua fugge questo, e là quell’altro caccia.

37 Vidde Olivier Grandonio di Volterna,
     Che abatte sopra al campo gente tanta
     Che altri che lui non par che se discerna,
     E tutto è sangue dal capo alla pianta.
     Dicea Oliviero: - O Maiestate Eterna,
     Io pur diffendo la tua Fede santa,
     Come far deggio, e il tuo culto divino;
     Dammi possanza contra al Saracino! -

38 Egli avea già racolta un’altra lanza
     Così dicendo, e con animo ardito
     Spronava il suo destrier con gran baldanza.
     Or non so dir se ben fusse seguito,
     Però che gionse il conte di Maganza,
     E per traverso ha il Saracin colpito;
     Non se guardando forse da quel lato,
     Tutto el distese fuor de arcione al prato.

39 Quando Grandonio se vidde abattuto,
     Non dimandati se rodea la brena;
     Presto ricciato rembracciava il scuto,
     E mena il brando, e non è dritto apena;
     Ma il conte Gano, che stava aveduto,
     Volta il destriero e le calcagna mena;
     Ma il re Grandonio afferra il suo ronzone,
     Rimette il brando e salta nello arcione.

40 Poi che salito fu sopra al destriero,
     Tra la gran folta col brando se caccia;
     Mai non fu Saracin cotanto fiero:
     Questo abatte per terra e quello amaccia.
     Ecco raggionto il marchese Oliviero,
     Che avea ferito Falcirone in faccia,
     E spezzato gli ha l’elmo e rotto il scuto,
     Quando gionse Grandonio a darli aiuto.

41 Gionse Grandonio, e ben gli bisognava,
     Ché non potea durar lunga stagione;
     Presto Oliviero a questo se voltava,
     Lasciando mezo morto Falcirone.
     Or l’uno e l’altro gran colpi menava;
     Benché più forte sia quel can fellone,
     Era Olivier di lui poi più maestro,
     Ma molto accorto e più legiero e destro.

42 Menò Grandonio un colpo a quel marchese,
     E nel fondo del scudo agionse al basso,
     Qual ponto nol coperse né diffese,
     Ma tutto se fiaccò con gran fraccasso,
     E passò il brando ed arivò allo arnese:
     Se egli avea forza, a voi pensar vi lasso.
     Poco prese la coscia, e nello arcione
     Via passò il brando e gionse ’l bon ronzone.

43 Colse il ronzone a quella spalla stanca,
     E sconciamente l’ebbe innaverato;
     Per questo ad Oliviero il cor non manca,
     Mena a due mano il suo brando affilato;
     Gionse a Grandonio quella anima franca
     Sopra del scudo, e tutto l’ha spezzato,
     Né piastra integra al forte usbergo lassa:
     Tutte le speza e dentro al petto passa.

44 Come io ve dico, ove gionse Altachiera
     Non lascia a quello usbergo piastra sana;
     Spezza ogni cosa quella spada fiera,
     E ’l fianco aperse più de una gran spana.
     Ciascadun de essi a tristo partito era,
     Spargendo il sangue in su la terra piana,
     Né per ciò l’uno a l’altro dava loco,
     Ed ogni colpo accresce legne al foco.

45 Cresce lo assalto dispietato e fiero,
     E ben de l’arme sentirno il polvino;
     Ma da altra parte il bon danese Ogiero
     Per tutto il campo caccia Malgarino,
     E di suo scampo non ve era mestiero,
     Se non vi fosse agionto Serpentino,
     Quel dalla Stella, il giovanetto adorno,
     Che avea fatate l’arme tutte intorno.

46 Come fu gionto, e vidde che il Danese
     Condotto ha Malgarino a mal partito,
     Sopra de Ogiero un gran colpo distese
     Dal lato manco in su l’elmo forbito,
     Quale era grosso e ponto nol diffese,
     Perché aspramente al capo l’ha ferito.
     Volta il Danese a lui, forte adirato:
     Bene ha di che, sì come io vi ho contato.

47 Cominciarno battaglia aspra e feroce
     Que’ duo guerrer mostrandosi la fronte,
     Benché Curtana a quelle arme non nôce,
     Ché eran fatate per tagli e per ponte.
     Or cresce un novo crido ed alte voce,
     Ché un’altra schiera giù calla del monte,
     Maggiore assai de l’altre due davante:
     Non fur vedute mai gente cotante.

48 Colui che vien davanti è Folicone,
     Il figlio de Marsilio, che è bastardo,
     Che ha de Almeria la terra e il bel girone:
     Ben vi posso acertar che egli è gagliardo.
     Larbin de Portugallo, il fier garzone,
     Gli viene apresso in su un corsier leardo;
     Maricoldo il Galego, che è gigante,
     Vien seco, e lo Argalifa e il re Morgante;

49 Ed Alanardo, conte in Barzelona,
     Vi venne, e Dorifebo, il fier pagano,
     Qual porta di Valenza la corona,
     E il conte de Girona, Marigano,
     E il franco Calabrun, re de Aragona.
     Par che quel monte giù roini al piano;
     A sì gran folta ne vien via la gente,
     Che par che il cel profondi veramente.

50 Quando re Carlo vidde gente tante,
     Ben se crede quel dì de aver gran scorno;
     Chiamando a sé Ranaldo e il sir de Anglante,
     - Filioli, - dicea - questo è il vostro giorno! -
     E poi mandava un messo a Bradamante
     Che, giù voltando quella costa intorno,
     Quanto nascosta può, per quella valle
     Ferisca a i Saracin dietro alle spalle.

51 E dapoi che ebbe la dama avisata,
     Ranaldo e Orlando chiamò, con amore
     Dicendo a lor: - Questa è quella giornata
     Che sempre al mondo vi può fare onore:
     Or questa è quella che ho sempre espettata
     Per discerner qual sia di voi megliore;
     Per mia man seti entrambi cavallieri,
     Né so di qual di voi meglio mi speri.

52 Or via, miei paladini, alla battaglia!
     Ecco e nimici! Io non vi gli nascondo;
     Fatime un squarcio entro a quella canaglia,
     Che sempre mai di voi se dica al mondo.
     Io non li stimo tutti un fil di paglia,
     Quando io vi guardo il viso furibondo;
     Nel vostro viso ben mi sono accorto
     Che il mio nemico è già sconfitto e morto. -

53 Non aspettâr più oltra e duo baroni
     Il ragionar che fece Carlo Mano.
     Come dal cel turbato escon duo troni,
     E duo venti diversi allo oceàno,
     Così van loro a furia di ronzoni.
     Ahi sventurato e tristo quel pagano,
     Qual sia scontrato da Ranaldo ardito!
     Né quel de Orlando avrà meglior partito.

54 Ranaldo avanti il conte un poco avancia,
     Perché aveva il destrier più corridore;
     A mezo il corso aresta la sua lancia,
     Spronando tutta fiata a gran furore.
     Il re Larbino avea molta arrogancia,
     Come hanno tutt’e Portugesi il core;
     E veggendo venire il fio de Amone,
     - Chi è costui, - disse - che ha sì bel ronzone?

55 Come ne vene! E’ par che metta l’ale!
     E pure ha un gran poltrone armato adosso;
     Per manco nol darebbe come il vale,
     Né lasciarebbe del suo pregio un grosso.
     E veramente che io faccio ben male
     Ferire a quel meschin, ma più non posso;
     Qua fusse Orlando con Ranaldo a un fasso,
     Ché io so che a un colpo l’uno e l’altro passo. -

56 Così dicendo il re, che è bravo tanto,
     Un tronco for di modo ebbe arestato.
     Ranaldo ne venìa da l’altro canto,
     E l’uno a l’altro a gran corso è scontrato;
     Quel roppe il tronco grosso tutto quanto,
     E questo lui passò da l’altro lato,
     Dico Ranaldo il passa, e la sua lancia
     Dietro alle spalle un gran braccio gli avancia.

57 Poi lo urta a terra e quella asta abandona,
     E dà tra gli altri con Fusberta in mano.
     Forte era Calabron, re de Aragona,
     Quanto fosse nel campo altro pagano,
     Ad ogni prova de la sua persona.
     Costui, veggendo il senator romano
     Che vien spronando con la lancia a resta,
     Verso di lui se mosse a gran tempesta.

58 Chi li avesse cernuti ad uno ad uno,
     Duo più superbi non avea quel campo,
     Come era quel Larbino e Calabruno,
     Che contra al conte vien con tanto vampo;
     Benché gli serìa meglio esser digiuno
     Di cotal prova e di cotale inciampo,
     Ché il conte lo passò da banda a banda,
     E morto for de arcione a terra il manda.

59 Poi dà tra gli altri e trasse Durindana,
     Perché allo incontro avea rotta la lanza.
     Come apre il mare intrando una fiumana,
     Così quel paladin, che è il fior di Franza,
     Nel mezo a quella gente ch’è pagana,
     Dimostra molto ardire e gran possanza,
     Tagliando e dissipando ad ogni mano;
     L’arme spezzate insino al cel ne vano.

60 Ecco nel campo ha visto un gran pedone:
     Questo era Maricoldo di Galizia,
     Che fa de’ nostri tal destruzïone
     Che a riguardare egli era una tristizia.
     Il conte lo mirava di storzone,
     Ché de sì fatti avea morti a dovizia,
     Fra sé dicendo: "Sì grandon ti veggio,
     Ch’io te voglio ascurtar un piede e meggio."

61 E parlando così come io ve conto,
     Con lui se azuffa e fu corto quel gioco,
     Ché dove avea segnato, lo ebbe agionto;
     Nïente vi lasciò del collo, o poco,
     Ed ascurtollo un piede e mezo aponto.
     Poi dà tra gli altri; come fusse un foco
     Posto di zugno in un campo de biada,
     Così destrugge e taglia con la spada.

62 Re Stordilano abatte e Baricondo,
     E’ soi destrier e lor getta in un fasso.
     Colpito ha in fronte il primo, e quel secondo
     Avea ferito nel gallone al basso;
     La gente saracina va in profondo.
     Ecco scontrato al campo ha Maradasso,
     Maradasso da Argina, lo Andaluccio,
     Che ha per insegna e per cimero un struccio.

63 Sì come io dico, è re de Andologia
     Quel Maradasso che il struccio portava.
     Per tutto il campo Orlando lo seguia,
     Ma per nïente lui non lo aspettava;
     Onde cacciosse tra l’altra genia.
     Chi contarebbe e colpi che menava?
     Questo ha per largo e quel per lungo aperto:
     Dal capo al piè di sangue era coperto.

64 Né già Ranaldo fa minor roina
     Ove si trova con Fusberta in mano,
     Ché intrato è tra la gente saracina,
     E tutta in pezzi la distende al piano;
     Menar Fusberta mai non se raffina.
     Ora ecco ha visto il forte Marigano,
     Qual, come io dissi, è conte de Girona;
     Sopra di lui Ranaldo se abandona.

65 Ed ebbel gionto in testa con Fusberta,
     E fraccassò il cimiero e il bacinetto;
     La fronte e la gran barba gli ebbe aperta,
     E callò il brando insino a mezo il petto.
     Fugge allo inferno la anima diserta,
     Rimase in terra il corpo maledetto.
     Quivi lo lascia il paladin gagliardo
     E dietro in caccia è posto ad Alanardo:

66 Conte Alanardo, quel barcelonese.
     Ranaldo non gli pone differenza;
     O sia de l’uno o de l’altro paese,
     Tutti gli mena al pare a una semenza.
     Questo stordito per terra distese;
     Poi Dorifebo, che era di Valenza,
     Abatte al campo sì de un colpo crudo:
     Rotto avia l’elmo e fraccassato il scudo.

67 Come alla verde selva del ginepre
     Se ’l foco dentro vi è posto talora
     Per cacciar fora caprioli e lepre,
     La fiama intorno e in mezo se avalora;
     Tal da Ranaldo convien che si sepre
     Quella canaglia, e non prende dimora,
     Ché gli spaventa e caccia in ogni loco,
     Come la lepre e il capriolo il foco.

68 Lui lo Argaliffa abatte e Folicone,
     E il re Morgante for di sella caccia:
     Il primo avea ferito nel gallone,
     El secondo nel petto, e ’l terzo in faccia.
     Chi contaria la gran destruzïone?
     A questo taglia il collo, a quel le braccia;
     Non se vidde giamai tanta tempesta:
     Sin da le piante è sangue in su la testa.

69 Dico, segnor, che il bon Ranaldo ardito
     Tutto era sangue dal capo alle piante:
     Non dico già che lui fosse ferito,
     Ma per le gente che ha occise cotante.
     Ora di lui vi lascio a tal partito,
     Però che io vo’ tornare a Balugante,
     Qual, dissipato a gran confusïone,
     Gionse davante al re Marsilïone.

70 Rotto avea il capo e aperta una masella,
     Fessa una spalla, e il scudo avea perduto,
     E dimenando se crollava in sella,
     Come morendo al fin fosse venuto.
     E benché apena con dolor favella,
     Pur quanto più potea, cridava: - Aiuto!
     Aiuto! aiuto! ché il re Carlo Mano
     Tutta tua gente ha dissipata al piano. -

71 Quando ciò vidde il re Marsilïone,
     Ambe le man se batte in su la fronte,
     E forte biastemando il suo Macone
     Facea le ficche al celo a pugne gionte;
     Poi comanda a ciascun che sia in arcione.
     Feraguto fu il primo e Rodamonte,
     Re Malzarise apresso e Folvirante;
     Questo non è spagnol, ma di Levante,

72 Benché al presente sia re di Navara,
     Ché il re Marsilio a lui l’avea donata;
     Ma questo giorno li costarà cara.
     Or viene a furia giù la gran brigata,
     Che a riguardar parìa mille migliara.
     Non dico che sian tanti tutta fiata;
     Ma chi all’incontro e suoi nemici vede,
     Più del dovere assai gli estima e crede.

73 Come io ve dico, giù callano al piano:
     Par che profondi il mondo da quel lato;
     Tutti meschiati e senza ordine vano,
     Sì come vôl Marsilio disperato.
     Bavarte era davanti e Languirano
     (Ciascuno era de un regno incoronato),
     E Doriconte apresso e Baliverno
     E il vecchio Urgin, che è schiavo de l’inferno.

74 Par che la terra e il mare e il cel ruine;
     Ciascun di essere il primo a denti freme.
     Ma quelle dame misere e tapine
     Li guardan drieto, e chi piange e chi geme;
     E tutte le donzelle e le regine
     Battean le palme lacrimando insieme,
     Dicendo ai cavallier: - Per nostro amore
     Oggi mostràti se aveti valore!

75 Voi ben vedeti che alle vostre mani
     Macone ha posta nostra libertate;
     Via nel bon ponto, o cavallier soprani,
     Contra a’ nemici! e sì ve diportate,
     Che non giongiamo in forza di que’ cani,
     Sendo in eterno poi vituperate.
     Nostra persona e l’anima col core
     Vi acquistareti e insieme il vostro onore. -

76 Non fu nel campo re né cavalliero,
     Qual non se commovesse a cotal dire;
     Ma sopra a gli altri Rodamonte il fiero
     Di starsi in loco non potea soffrire;
     Ma già partirse gli facea mestiero,
     Perché Marsilio gli mandava a dire
     Ad esso e a Feraguto alora alora
     Che sian con seco senza altra dimora.

77 Onde callarno quei duo saracini,
     Che erano al mondo fior di gagliardia.
     Oh quanti cristïan faran tapini!
     Donaci aiuto, o Santa Matre pia!
     Non menaran la cosa in quei confini
     Che se è menata e mena tuttavia;
     Ranaldo e Orlando, che or paion di foco,
     Avran suo carco e soprasoma un poco.

78 Callarno quei baron, che aveano il vanto,
     Come io vi dico, di forza e di ardire;
     Parve che il mondo ardesse de quel canto
     E che la terra se volesse aprire.
     Questo cantare è stato lungo tanto,
     Che ormai ve increscerebbe il troppo dire,
     Onde io prenderò possa e voi diletto;
     Ne l’altro canto ad ascoltar vi espetto.