Oreste (Euripide - Romagnoli)/Introduzione

Introduzione

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Euripide - Oreste (408 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1930)
Introduzione
Oreste (Euripide - Romagnoli) Personaggi
Questo testo fa parte della raccolta I poeti greci tradotti da Ettore Romagnoli
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Quando Menelao, reduce ad Argo, vede Oreste nel miserrimo stato a cui l’ha ridotto il delirio, gli chiede:

Che soffri tu? Qual morbo ti distrugge?

E Oreste risponde:

La coscïenza: io so che orror compiei.

In queste parole c’è tutta la concezione dell’Oreste, quale balenò in origine alla mente di Euripide, c’è tutta la sua nuova interpretazione del mito antichissimo. La posizione di questo dramma di fronte alle Eumènidi è rilevata dal Patin con parole tanto felici, che giova tradurle senz’altro:

«La guerra impegnata, pel delitto compiuto da un mortale, fra le potenze del cielo (Apollo) e dell’inferno (Furie), qui non ha piú altri attori se non le passioni, altra scena se non il cuore del colpevole. Le Furie non appaiono piú se non alla sua turbata immaginazione: in vece loro, abbiamo lo spettacolo piú reale della coscienza, che, in un dubbio penoso, assale a volta a volta, ed accusa sé stessa, e riconosce, disperata, esterrefatta, a che punto l’ha condotta un falso miraggio di pietà e di giustizia: che per le torture a cui si trova [p. 120 modifica]in preda, rompe l’armonia delle facoltà umane, e distrugge, con la ragione e l’intelligenza, il corpo che la rinchiude»1.

Magnifico argomento — vien fatto di pensare — , suscettibile di meraviglioso sviluppo, e degno che un gran poeta lo abbia concepito.

E nella prima parte del dramma, sembra veramente che alla concezione corrisponda la eccellenza della esecuzione. Svincolato da ogni presupposto mitico ed eroico, il poeta, tutto immerso nella divina realtà, procede con libertà ed efficacia stupende. I critici sono concordi nel rilevare la pura bellezza delle scene che aprono l’azione. Tenera e commovente la veglia d’Elettra sul fratello dormente. E tutti i discorsi, che seguono, d’Oreste, di Elettra, di Pilade, ed anche del vecchio Tindaro, sono improntati a verità, profondità, nobiltà di sentimenti, senza sofisticaggini, o quasi, espressi con eloquenza immune da ogni retorica. Anche qui ricordo il Patin, che dimostra per queste scene una sensibilità particolare, e ne tesse un’analisi tanto minuta quanto sagace e convincente. «Per il numero e la varietà delle sue bellezze — egli conclude — potrebbe fornire alla critica una materia pressoché inesauribile. La scena del risveglio d’Oreste, per l’indole del sentimento e del linguaggio, per la condotta del dialogo e la disposizione dei quadri, è come un riassunto del genio tragico dei Greci, e quasi basterebbe al suo studio».

Ma dopo questo meraviglioso principio, c’è una brusca [p. 121 modifica]deviazione. Il «rimorso d’Oreste» cessa d'essere soggetto del dramma, non determina, per propria virtú ineliminabile, alcuna situazione, non infiamma alcuna passione, non ispira alcun sentimento. Anche se la colpa d’Oreste fosse stata tutt’altra, nulla muterebbero le condizioni e il valore del dramma. Che è il seguente: un uomo cercato a morte dal popolo, ricorre invano all’aiuto d’un parente prossimo e beneficato, che sarebbe in grado di salvarlo. E poiché non giunge a convincerlo con gli argomenti, ricorre ad un’astuzia. E cosí, ecco il complotto, l’intrigo, la mechané, tanto aborrita da Aristofane; la quale, a un certo punto, seduce la immaginazione del poeta, e, insinuatasi nel dramma come mezzo, diventa ben presto fine a sé stessa, e soggetto principale, soppiantando interamente il dato mitico e la primitiva alta original concezione. Currente rota urceus exit. Alla prima parte, cosí vigorosamente e originalmente concepita, segue uno sviluppo non attinto alle viscere del soggetto, e perciò ascitizio, parassitario. Qui, come altrove, il poeta fa malo uso, sperpera leggermente la libertà conquistata con tanta fatica.

Se, ad ogni modo, veniamo ad esaminare questa mechané, vediamo che dal lato del contenuto non appare poi felicissima. L’invenzione che Elena fosse uccisa da Oreste ed Elettra, sembra troppo arbitraria. E, d’altra parte, bisogna osservare che, per quanto Pilade si sforzi di accrescere il biasimo, senza dubbio ben meritato, della donna fatale, pure, il fatto che ella è uccisa a tradimento, e da chi invoca la sua pietà, non può non gittare un’ombra sinistra sugli autori dello scempio.

E peggio è per Ermione. La povera fanciulla, che, pienamente innocente ed ignara, si gitta da sé nella rete dell’insidia, quando apprende che Elettra ed Oreste sono stati condannati a morte, esclama:

Deh, mai non sia, ché siete a me parenti! [p. 122 modifica]

Sicché, quando i congiurati, senza punto impietosire, la trascinano dentro per immolarla, non possiamo non approvare in cuor nostro il Christ, che li definisce «un terzetto di banditi». Era viva in Euripide, lo sappiamo, la mania di gittar ombra sulle sue figure, anche le piú simpatiche. Ma qui, veramente, si pensa che Oreste ed Elettra erano già troppo macchiati dal loro orrido scempio, perché un drammaturgo, che, d’altronde, evidentemente, non aveva in animo di presentarli sotto luce sinistra, andasse ad inventare una favola che certo non giovava a conciliar loro simpatie.

Se invece badiamo al lato formale, tecnico, questa mechané ci appare come una delle piú felici, forse la piú felice del teatro d’Euripide. E, innanzi tutto, bisogna rilevare che il poeta la prepara sin dalle prime scene, quando Elettra dà ad Elena il consiglio di mandare alla tomba di Clitemnestra la fanciulla Ermione. Il che, naturalmente, non annulla il carattere di superfetazione, già rilevato, di tutta la mechané. E poi, anche materialmente, potrebbe essere che Euripide la avesse concepita solo nel corso del lavoro, e per coonestarla avesse aggiunto l’episodio di Elettra e di Elena.

Una nota altamente caratteristica dell’Oreste, è dunque il trionfo della mechané. Un altro è la ricerca dell’effetto.

E si osserva, via via durante la lettura, quasi ad ogni scena. Ma fissiamoci un istante sul finale, dove, naturalmente, trionfa.

Appena, dopo la trama, Oreste e Pilade sono entrati nella reggia per uccidere Elena, il coro, simulando una perlustrazione, compie una serie di brillanti evoluzioni danzate.

Si levano dal di dentro gli urli di Elena presso a morte; e, quasi subito, giunge Ermione, e tutte le donne tacciono e [p. 123 modifica]si ricompongono. E a tanta agitazione e tumulto, segue una visione piena di calma e di grazia.

Per brevi istanti: ché dalla reggia sbucano i due congiurati, come due dragoni dall’antro, e brutalmente ghermiscono e trascinano dentro la povera fanciulla.

Nuova danza, piena di concitazione, di urli, di colpi:

Ahimè, amiche, ahimè, or fate strepito,
strepito ed urla si déstino
dinanzi alla magion, sí che l’eccidio
tremendo, negli Argivi orror non ecciti.

Finita la danza, ecco balzar giú dai triglifi della reggia — in sostanza, giú dal tetto — uno schiavo frigio. Il salto inatteso, il costume barbarico, e certo fastoso e strano, già eccitava la sorpresa e la meraviglia degli spettatori, che si accresceva poi, venandosi d’ilarità, nell’udire la narrazione, in linguaggio grottesco, in ritmi cempennanti, di quello strano sostituto del classico messo.

La scena che segue, fra lui ed Oreste, in tetrametri trocaici, è piena di movimento, o, come ora si direbbe, di dinamismo. Poi, ecco, il coro scioglie arditamente la sua rigida unità, e si risolve nei singoli elementi. Delle donne che lo costituiscono, ciascuna vuol dire la sua. Dai tempi dell’Agamennone, non s’era visto quasi piú.

Ed ecco, dalla reggia incominciano ad alzarsi nugoli di fumo. I congiurati hanno già appiccato l’incendio? — Affatto; e solo assai piú tardi Oreste ne impartisce ad Elettra l’ordine, che d’altronde non trova attuazione. Ma Euripide sapeva bene quale effetto producessero, sull’azzurro cielo dell’Attica, queste fumate; e non se ne lasciava sfuggir l’occasione, fosse pure stiracchiata.

Ed irrompe Menelao, bollente di furore, per vendicare la [p. 124 modifica]sposa. Ma appena s’è presentato, e sul fastigio della reggia appaiono Oreste e Pilade. Oreste tien ghermita la fanciulla, e le appunta la spada alla gola. Accanto a lui l'amico fedele, e servi che impugnano fiaccole fumiganti. Al piede della reggia, Menelao che prega, urla, infuria, e lo stuolo di donne che certo partecipa, con le voci e coi gesti, la terribile scena. Aristofane avrà avuto un bel dire: ma in quel momento il cuore doveva saltare in gola a tutti gli spettatori.

E giunge infine, a risolvere l’intrigatissimo nodo, l’intervento celeste. Giunge Apollo: sospeso anch’egli nell'ètere, e, certo, in un punto diverso da quello occupato dai personaggi. Sicché gli spettatori dovevano volger gli occhi a due diversi punti del cielo.

Ed anche qui, il Deus ex machina, piú che l’ufficio di risolver l’evento, ha quello di eccitar l’ammirazione degli spettatori, di presentare ai loro sguardi ancora un quadro. Perché Apollo non è solo, stringe fra le braccia la bellissima Elena.

Quell’Elena che tu spenger volevi
per odio contro Menelao — ma vana
fu la tua brama — è questa che vedete
dell’ètere nei seni.

Questi due fattori — intreccio e ricerca di effetti scenici — sono rilevati da quasi tutti i critici, piú o meno esplicitamente, come importanti ed essenziali nell’economia dell’Oreste. Un terzo mi pare invece che non sia messo nella debita luce: ed è lo speciale trattamento della parte corale.

Osserviamo la pàrodos. Le donne si avvicinano a passo leggero, esortandosi l’una con l’altra a camminare in punta di piedi. Ma tuttavia fanno rumore: onde Elettra le prega di allontanarsi, ed esse obbediscono alle sue parole (ιδόυ πείθομαι) cioè compiono, retrocedendo, una evoluzione. Poi, [p. 125 modifica]quando si sono ritirate ed hanno taciuto, le invita ad avvicinarsi pian piano, per poter udire, senza bisogno che alzino la voce, la causa che le ha spinte a venire. Sicché, alla evoluzione retrocedente ne segue una progrediente.

Ma poco dopo (v. 170) Elettra le respinge ancora: «Lungi da me, lungi dalla reggia non vuoi di nuovo rivolgere (είλίξεις) il piede, desistendo da ogni rumore?» — Ecco una nuova evoluzione retrocedente.

Ma, pur senza che ne sia rimasta traccia nel contesto, quasi súbito devono tornare ad avanzare, perché al verso 185 le troviamo ancora vicine al letto dell’infermo; ed Elettra le invita per la terza volta ad allontanarsi2.

Dal contesto si raccoglie dunque, senza possibile equivoco, che la pàrodos fu un vero e proprio sviluppo di un soggetto di danza. La commedia già ne porgeva esempio. La tragedia, ancora no, almeno cosí esplicito: la pàrodos dell’Edipo a Colono era di là da venire (fu rappresentato nel 401, cinque anni dopo la morte del poeta: l’Oreste è del 408).

Del medesimo tipo, ed anche piú interessante, è la danza che segue al momento in cui Oreste e Pilade entrano nella reggia per uccidere Elena. Dice la corifea:

Veglino altre di voi questa carraia,
la reggia a custodire, altre altra via.

Ecco, dunque, anche qui, un preciso tèma proposto alla danza. Si tratta di far la guardia perché nessuno si avvicini di sorpresa alla reggia. E anche qui, dal contesto si ricavano le singole evoluzioni.

Una parte delle danzatrici si volge ad Oriente, una ad Occidente. [p. 126 modifica]

Si fermano: guardano di qua e di là, tutto in giro, e poi si rivolgono ancora verso Elettra.

Movimento veloce di tutte verso un lato. Pare che qualcuno si avvicini. Ma è timore infondato.

Torna la calma. Il coro che s’era tutto aggruppato, torna di nuovo a scindersi in due semicori.


semicoro a


Di qui va bene: alla tua parte bada:
ché niun dei Dànai vien per la mia strada.

semicoro b


Nessun si vede: diciamo il medesimo.

È una vera e propria perlustrazione, che fa pensare un po’ a quella delle Tesmoforiazuse di Aristofane, rappresentate tre anni prima (411).

In entrambi i casi, dunque, il coro non presenta piú il carattere tradizionale, ieratico e solenne, che lo faceva superiore e, in qualche modo, lontano all’azione. E neppure il carattere musicalmente esornativo che, decadendo la tradizione, aveva assunto in altri drammi d’Euripide. Esso è lo svolgimento danzato d’un motivo strettamente inerente all'azione, e che appunto nella danza trova il suo completo sviluppo. E cosí, mentre contribuisce alla eleganza e alla vivacità della rappresentazione, ne diviene elemento essenziale, e non sovrapposto. Qui, come in tutti gli altri luoghi di questo dramma, dove interviene per recare qualche reale sussidio, ideale o pratico, al suo sviluppo.

Questo preciso contatto col dramma è mantenuto costantemente anche nei brani in funzione prettamente lirica. [p. 127 modifica]

Ma questi brani meritano poi speciale considerazione per la loro altissima tempra. Si legga, dopo la pàrodos, l’invocazione alle Eumenidi perché sollevino Oreste dalle sue pene; e, nel secondo stasimo, la rievocazione, piena di evidenza. di profondità e di pathos, del matricidio. E nel canto di Elettra, che, con sapore di novità, occupa integralmente il terzo stàsimo, la invocazione alla terra pelasga, con quella figurazione del mito di Tantalo, tutta infusa d’una possente vibrazione cosmica oscura, ma che rivaleggia per grandiosità con quella di Pindaro: si rileggano tutti questi brani; e parrà che in essi, nella parte corale, si sia rifugiato l’alto spirito tragico, spanto quasi per intéro dalle parti piú propriamente drammatiche. Sono essi come un gran cielo mitico, pieno ancora dei suoi Numi e dei suoi eroi, che s’inarca sopra l’azione, nella quale non si muovono piú se non figure comuni, e faccia piovere sovra esse un fatuo bagliore di tragicità dionisiaca. Contaminazione, se si vuole; ma piena di effetto e di strana suggestione.

E possiam dire che dai giorni di Eschilo non si era piú vista una concezione del coro cosí ricca, sebbene cosí profondamente differente dalla eschilea.

E dei personaggi in sé, dei «caratteri», non giova far troppo lungo discorso. Tutta gente da poco — diceva già l’antico commentatore3. Proprio cosí. E non già perché siano antieroici, ma perché, evidentemente, il poeta non ha avuto in animo di scolpirli, o, se ne ha avuto in principio l’idea, l’ha presto abbandonata. E tutti i personaggi di questo dramma sono fantocci, ai quali il poeta ha appiccicato qua e là, [p. 128 modifica]purpureus pannus, qualche osservazione personale, quasi sempre giusta ed acuta, talora troppo sottile e sofistica, su costumi contemppranei e su problemi varii, dalla fisiologia a a politica.

Il Patin ha osservato, con rilievi secondo me giusti, che il delirio d’Oreste, al contrario di tanti altri delirii di tragedia, convenzionali e di maniera, è descritto con precisione scientifica.

Un capolavoro è l’analisi che fa Menelao della psicologia popolare. Si potrebbe definire un manuale del perfetto demagogo. E il problema della psicologia popolare e della demagogia dové specialmente assillare lo spirito del poeta mentre egli scriveva l’Oreste. Oltre a queste osservazioni di Menelao, e oltre l’intera sua figura, che è appunto gittata nello stampo d’un demagogo, abbiamo anche acute osservazioni di Oreste, e, soprattutto, la pittura dell’assemblea in cui viene giudicato e condannato il matricida. Una scena tolta di peso alla vita politica contemporanea, e che non potrebbe essere piú evidente, piú colorita ed efficace. E in essa i due tipi, del contadino amante della tradizione, e del demagogo, sono scolpiti con finezza ed acutezza mirabili. Al secondo, tutti gli Ateniesi potevano facilmente attribuire un vero nome.

Particolari bellissimi, dai quali riescono affermate, anche una volta, la sagacia d’Euripide, e la sua capacità potenziale, che d’altronde aveva trovata attuazione in tanti altri drammi, di crear caratteri. Ma che nei riguardi dell’Oreste, concludono ben poco.

Fra queste linee è concluso, da questi fattori è, piú o meno, determinato l’Oreste. Giova tuttavia dare un’occhiata ai soliti euripidismi, alcuni dei quali assumono in questo dramma intensità e valore speciali. [p. 129 modifica]

Assai sensibile è qui quella caratteristica biforcazione della concezion borghese, che mette capo, da un lato nella comicità, da un altro in certa graziosa e precisa levità di pitture, che preannuncia l’alessandrinismo. Ricordiamo, per esempio, la descrizione dello schiavo frigio.

Com’è costume frigio frigio,

vicino ai riccioli
d’Elena, d’Elena,
presso alla guancia,
l’aura agitavo, l’aura,
con rotonda compagine
di penne, all’uso barbarico.
Essa il lino sul fuso
avvolgea con le dita,
ed il filato al suol cadea profuso,
intenta una purpurea
veste a filare, ordita
di frigie spoglie,
dono pel tumulo

che Clitemnestra accoglie.

Súbito si pensa ad una di quelle pitture ceramiche o di quelle statuette che ci rappresentano con tanta evidenza il mundus muliebris alessandrino. E nel medesimo spirito è concepita l’osservazione d’Elettra intorno alla civetteria d’Elena, che per il lutto della sorella ha recise le chiome, come l’uso imponeva, ma, per non guastare la propria bellezza, solamente agli apici.

E lo spirito comico si sbizzarrisce nell’episodio del Frigio piú che in qualsiasi scena d’altri drammi. Si presenta saltando giú dal tetto. E la sua foga, il suo smoderato spavento, e il suo stesso vestito barbarico, già eccitavano le risa degli spet[p. 130 modifica]tatori. Ma poi, tutta la sua monodia è un capolavoro di efficacia grottesca, una olla podrida di battute tragiche, ingenue, comiche, infiorate di sbagliatissime metafore. Per citare la piú marchiana, la bellezza d’Elena è detta «fulgore aligneo augelligènito della venustà della cucciola elenitrista di Leda». Fa pensare a quel commediografo d’Atene, seicentista in anticipo, il quale, a ciò che riferisce il suo collega Antifane, per dire pentola, diceva:

o dagl’impeti del tornio curvicorpo espresso invoglio
modellato nell’argilla cotta in alvo d’altra terra,
che parvenze cutitenere lattipregne in grembo serra
a bollir, di pur mo’ nate greggi.

Soggiungiamo che, per testimonianza degli antichi, questa monodia era un pezzo di bravura musicale. Di bravura grottesca, se dobbiamo giudicare dal ritmo saltabeccante, che, pur cosí scevro di note, riesce sovente a provocare la nostra ilarità.

Ed anche piú buffo ci appare il povero diavolo nella scena che segue, con Oreste.

oreste


Queste grida per chiamare Menelao levavi tu?

frigio


No: chiamavo al tuo soccorso, perché tu vali di piú.

oreste


Giusta morte, dunque, inflitta fu di Tíndaro alla prole?

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frigio


Piú che giusta, e avesse avute, da segarle, anche tre gole.


Si pensa al Ciclope. E poco dopo:


oreste


Temi tu che a mo’ di Górgone ti pietrifichi la spada?

frigio


Non conosco questo Górgone: ma ho timor che morto io cada.

Lo sciocco equivoco fa pensare alla vecchiaccia che nelle Tesmoforiazuse fa la guardia a Mnesiloco; la quale confonde Proteo, il mitico re d’Egitto, con Protea, generale ateniese. E qui ci vien fatto di osservare per la seconda volta che la commedia d’Aristofane precede l’Oreste di soli tre anni.

E anche nell’Oreste possiamo rilevare lo studio continuo d’Euripide d’innovare, anche in particolari di contenuto o di forma.

Qui, per esempio, abbiamo, come nella Ifigenia in Tauride, e come poi, gloriosamente, nelle Baccanti, due racconti di nunzî, uno verso la catastrofe, ed uno a metà del dramma. Ma qui, inoltre, il secondo è in forma tale (il racconto del Frigio) da costituire già di per sé un’assoluta novità.

Originale è anche la tecnica del prologo, che non riveste, come nella maggior parte dei casi, carattere obiettivo e frigido, bensí espone gli antefatti immediati — il delirio d’ [p. 132 modifica]Oreste — con calore drammatico, con evidenza emula della realtà. È, anticipata nel prologo, la tecnica dei racconti dei nunzî.

Osserviamo ancora che nei drammi, sí di Euripide, e sí degli altri drammaturghi, di solito, quanto si allontana dal coro il personaggio che deve compiere o su cui si deve compiere l’eccidio, passano brevi istanti, e poi subito si ode il grido della vittima. Qui, invece, dopo l'ingresso nella reggia di Oreste e Pilade, prima che risuoni il grido di Elena, corre un lungo spazio di tempo, del resto bene occupato dalla evoluzione di danza già caratterizzata.

Ed anche qui dobbiamo dolerci che i discorsi dei personaggi, e massime quelli della prima parte, insigni per verità ed efficacia drammatica, siano qua e là macchiati da atteggiamenti sofistici: anche qui dobbiamo osservare che certi contrasti fra l’eroico e il borghese, sia nei concetti, sia nel linguaggio, non sempre armonizzano e prendono rilievo l’uno dall’altro, bensí con la loro contraddizione scemano e distruggono l’efficacia: anche qui, quando, nel momento piú grave dell’azione, Elettra, udita la fatale sentenza che condanna a morte lei e il fratello, esprime la sua ambascia col canto, ci domandiamo perplessi quanto le note poterono accrescere la virtú delle parole. Sebbene dalle poche note che ci rimangono, d’un canto corale, vediamo che la virtú suasiva della musica d’Euripide non era piccola (vedi appendice musicale).

E dunque, riassumendo, troviamo, in questo Oreste, un principio drammatico passionale, con espressione pura, ardente, semplice, avvincente.

Un coro di solennità insueta, che dalla sua alta immaginosa densa liricità piove su tutto il dramma una luce nobile e fosca. [p. 133 modifica]

Una musica cupa, altamente espressiva, che tutta la colora d’una sua tragica vaporazione.

Poi, in questa atmosfera tragica e magica, che permane sino alla fine, il dramma s’inoltra mutando tempra, divenendo mèro intreccio, e i personaggi fantocci.

E, profusi a piene mani, i soliti atteggiamenti tanto criticati dai nemici d’Euripide, e massime dai poeti comici. E qui è il caso di osservare che Euripide non dava il menomo ascolto a queste critiche. Appena tre anni prima, Aristofane, nelle Tesmoforiazuse, le aveva tutte riassunte, e specialmente aveva canzonata la mechané del Telefo, già parodiata nei giovanili Acarnesi. Ed ecco, il tragediografo la riprende, quasi a sfida, nell’Oreste; e la monodia del Frigio è come uno spicilegio delle sue piú criticate stranezze.

A giudicar dunque sui dati obiettivi, non si può negare che l’Oreste sia uno dei drammi d’Euripide meno fusi ed integri, piú disuguali, compositi, tormentati. Nessuna meraviglia se circa la sua valutazione il giudizio dei critici sia tutt’altro che concorde.

Gli antichi, pure riconoscendone i difetti, ne erano, in genere, entusiasti4 Fra i moderni, molti sono draconiani. Dice il Christ, che, per ragioni altra volta addotte, ha un po’ l’autorità d’un codice (VIa ediz., 371): «L’Oreste mostra la decadenza dell’arte d’Euripide. Dello spirito dell’antica saga non è rimasto nulla, della forma, poco. Tutte le persone vi sono abbassate al livello comune: Menelao è un egoista insensibile e vile, Elettra una femmina intrigante, Elena una civetta vanesia, Pilade rassomiglia all’accattabrighe e ladro Oreste furioso della commedia. Elettra, Oreste e Pilade sono un trio di banditi».

Sta bene. È, con un po’ d’agro, quello che su per giú [p. 134 modifica]dicono tutti. Ma il Christ si dimentica poi di rilevare i pregi, che sono molti, e, vedemmo, eccelsi. E poi, anche i difetti, cosí isolati ed allineati, sembrano assai piú gravi e virulenti di quando si osservano alla luce speciale che si deriva dallo studio di tutta la singolare arte d’Euripide.

E sussiste ineliminabile il fatto che dall'antichità sino ai nostri giorni l’Oreste ha sempre suscitato enormemente l'interesse degli spettatori e dei lettori. Ed è un po’ delle opere d’arte come delle persone: quando richiamano tanto l'interesse, qualche buona qualità devono possederla, anche se in esse prevalgono, per quantità, il brutto ed il male.

E infatti, nell’Oreste si trovano accomunati, fianco a fianco, in modo e in misura addirittura eccezionali, i difetti ed i pregi del poeta, la cui figura, nel complesso, emerge qui completa come forse da nessun altro dramma.

E poi, quale che possa essere la nostra impressione soggettiva, risulta ben chiaro che Euripide fu innamorato di questo suo dramma. Il suo vivo interesse palpita e vibra palesemente in tutte le scene, tanto nelle ottime, quanto in quelle dichiarate pessime. Ne deriva quel continuo calore, quella fosforescenza che distingue le opere realmente ispirate da quelle elaborate col freddo artificio.

E lo so bene, il difetto principale del dramma non è lieve. Sul tallo vigoroso della primitiva concezione, psicologica e tragica, gitta il suo seme la «macchina», che da quello succhia tutte le linfe, per maturarne foglie fiori e frutti perfettamente eterogenei. Lo so bene, nel suo complesso l’Oreste ha il carattere delle piante parassitarie.

Ma poi l’orobanche apre, in cima ai suoi steli, meravigliosi grappoli di fiori neve e ametista. E tutti siamo costretti ad ammirarli, anche se sappiamo che i succhi che li nutriscono furono sottratti a stilla a stilla dai calami dell’esausta veccia. [p. 135 modifica]

ORESTE

Note

  1. Giustissimo. E giova rilevare non soltanto la chiaroveggenza d’Oreste, bensí anche la precisione, anche terminologica, ond’egli effettua la diagnosi del suo male. Questo male (νόσος) è appunto una σύνεσις (coscienza: lo dichiara nelle parole che subito seguono: δτι σύνοιδα δειν’ εὶργασμένος): questa σύνεσις genera una λύπη (doglia del rimorso) che lo distrugge (διαφθεὶρει), e delle μανὶαι. Neanche egli, dunque, crede obiettive le immagini di Furie che lo perseguitano.
  2. Ούχὶ... ὰπὸ λέχεος ῆσυχου ὔπνου χάριν παρέξεις; — Non c’è da equivocare: sono proprio vicino al letto.
  3. Nella Ipotesi. Πλὴv γὰρ Πυλάυδου πάντες φαῦλοι εισιν. Ma neppur Pilade mi sembra una grande eccezione.
  4. Vedi Patin, opera citata, pag. 243, nota I.