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in preda, rompe l’armonia delle facoltà umane, e distrugge, con la ragione e l’intelligenza, il corpo che la rinchiude»1.

Magnifico argomento — vien fatto di pensare — , suscettibile di meraviglioso sviluppo, e degno che un gran poeta lo abbia concepito.

E nella prima parte del dramma, sembra veramente che alla concezione corrisponda la eccellenza della esecuzione. Svincolato da ogni presupposto mitico ed eroico, il poeta, tutto immerso nella divina realtà, procede con libertà ed efficacia stupende. I critici sono concordi nel rilevare la pura bellezza delle scene che aprono l’azione. Tenera e commovente la veglia d’Elettra sul fratello dormente. E tutti i discorsi, che seguono, d’Oreste, di Elettra, di Pilade, ed anche del vecchio Tindaro, sono improntati a verità, profondità, nobiltà di sentimenti, senza sofisticaggini, o quasi, espressi con eloquenza immune da ogni retorica. Anche qui ricordo il Patin, che dimostra per queste scene una sensibilità particolare, e ne tesse un’analisi tanto minuta quanto sagace e convincente. «Per il numero e la varietà delle sue bellezze — egli conclude — potrebbe fornire alla critica una materia pressoché inesauribile. La scena del risveglio d’Oreste, per l’indole del sentimento e del linguaggio, per la condotta del dialogo e la disposizione dei quadri, è come un riassunto del genio tragico dei Greci, e quasi basterebbe al suo studio».

Ma dopo questo meraviglioso principio, c’è una brusca

  1. Giustissimo. E giova rilevare non soltanto la chiaroveggenza d’Oreste, bensí anche la precisione, anche terminologica, ond’egli effettua la diagnosi del suo male. Questo male (νόσος) è appunto una σύνεσις (coscienza: lo dichiara nelle parole che subito seguono: δτι σύνοιδα δειν’ εὶργασμένος): questa σύνεσις genera una λύπη (doglia del rimorso) che lo distrugge (διαφθεὶρει), e delle μανὶαι. Neanche egli, dunque, crede obiettive le immagini di Furie che lo perseguitano.