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ste — con calore drammatico, con evidenza emula della realtà. È, anticipata nel prologo, la tecnica dei racconti dei nunzî.

Osserviamo ancora che nei drammi, sí di Euripide, e sí degli altri drammaturghi, di solito, quanto si allontana dal coro il personaggio che deve compiere o su cui si deve compiere l’eccidio, passano brevi istanti, e poi subito si ode il grido della vittima. Qui, invece, dopo l'ingresso nella reggia di Oreste e Pilade, prima che risuoni il grido di Elena, corre un lungo spazio di tempo, del resto bene occupato dalla evoluzione di danza già caratterizzata.

Ed anche qui dobbiamo dolerci che i discorsi dei personaggi, e massime quelli della prima parte, insigni per verità ed efficacia drammatica, siano qua e là macchiati da atteggiamenti sofistici: anche qui dobbiamo osservare che certi contrasti fra l’eroico e il borghese, sia nei concetti, sia nel linguaggio, non sempre armonizzano e prendono rilievo l’uno dall’altro, bensí con la loro contraddizione scemano e distruggono l’efficacia: anche qui, quando, nel momento piú grave dell’azione, Elettra, udita la fatale sentenza che condanna a morte lei e il fratello, esprime la sua ambascia col canto, ci domandiamo perplessi quanto le note poterono accrescere la virtú delle parole. Sebbene dalle poche note che ci rimangono, d’un canto corale, vediamo che la virtú suasiva della musica d’Euripide non era piccola (vedi appendice musicale).

E dunque, riassumendo, troviamo, in questo Oreste, un principio drammatico passionale, con espressione pura, ardente, semplice, avvincente.

Un coro di solennità insueta, che dalla sua alta immaginosa densa liricità piove su tutto il dramma una luce nobile e fosca.