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Sicché, quando i congiurati, senza punto impietosire, la trascinano dentro per immolarla, non possiamo non approvare in cuor nostro il Christ, che li definisce «un terzetto di banditi». Era viva in Euripide, lo sappiamo, la mania di gittar ombra sulle sue figure, anche le piú simpatiche. Ma qui, veramente, si pensa che Oreste ed Elettra erano già troppo macchiati dal loro orrido scempio, perché un drammaturgo, che, d’altronde, evidentemente, non aveva in animo di presentarli sotto luce sinistra, andasse ad inventare una favola che certo non giovava a conciliar loro simpatie.

Se invece badiamo al lato formale, tecnico, questa mechané ci appare come una delle piú felici, forse la piú felice del teatro d’Euripide. E, innanzi tutto, bisogna rilevare che il poeta la prepara sin dalle prime scene, quando Elettra dà ad Elena il consiglio di mandare alla tomba di Clitemnestra la fanciulla Ermione. Il che, naturalmente, non annulla il carattere di superfetazione, già rilevato, di tutta la mechané. E poi, anche materialmente, potrebbe essere che Euripide la avesse concepita solo nel corso del lavoro, e per coonestarla avesse aggiunto l’episodio di Elettra e di Elena.

Una nota altamente caratteristica dell’Oreste, è dunque il trionfo della mechané. Un altro è la ricerca dell’effetto.

E si osserva, via via durante la lettura, quasi ad ogni scena. Ma fissiamoci un istante sul finale, dove, naturalmente, trionfa.

Appena, dopo la trama, Oreste e Pilade sono entrati nella reggia per uccidere Elena, il coro, simulando una perlustrazione, compie una serie di brillanti evoluzioni danzate.

Si levano dal di dentro gli urli di Elena presso a morte; e, quasi subito, giunge Ermione, e tutte le donne tacciono e