regie nozze t’allegra, e siimi guida,
e se ti par che poco io sia sollecita,
spingimi a forza. Ché se Febo esiste,
il re d’Acaia, il celebre Agamènnone,
sposa m’avrà piú d’Elena funesta,
ché morte a lui darò, saccheggerò
la sua casa, a mia volta, a far vendetta
dei fratelli e del padre. Altre sozzure
dire non vo’. Non canterò la scure
che taglierà la mia gola e l’altrui,
e i matricidi agoni a cui principio
le mie nozze daranno, e la rovina
della casa d’Atreo. Ma vo’ provare
che la nostra città piú fortunata
è degli Achivi. Invasa io son del Nume;
ma tuttavia, desisterò, per farlo,
dal furor mio. Per una donna sola
e per un solo amor, quelli per Elena
rïaver, mille e mille alme perdettero.
E il duce lor, che proclamato è saggio,
quanto piú caro avea, perdé, per quanto
era piú infesto: della casa il gaudio,
la figlia sua, diede al fratello, a causa
della sua sposa, che rapita fu
di suo buon grado, e non a forza. E quando
dello Scamandro su le rive giunsero,
morirono, non già perché minaccia
fosse ai confini della terra o agli altri
recinti della patria. E quei che caddero,
non li videro i figli, e dalla mano
della sposa non fûr nei pepli funebri
composti, e in terra straniera giacciono.
E nella patria loro, altro avveniva: