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DELFT. 117

edifizio, cupo di fuori, nudo dentro; una prigione piuttosto che una casa di Dio. Le tombe sono in fondo, dietro il recinto delle panche.

Appena entrato, vidi lo splendido mausoleo di Guglielmo il Taciturno; ma il custode mi arrestò dinanzi alla tomba semplicissima di Ugo Grotius, il prodigium Europæ, come lo chiama l’epitaffio, il grande giureconsulto del secolo XVII; quel Grotius che scriveva versi latini a nove anni, che componeva odi greche a undici, che trattava tesi di filosofia a quattordici, che accompagnava tre anni dopo l’illustre Barneveldt nella sua ambasciata a Parigi, dove Enrico IV, presentandolo alla sua corte, diceva: « Ecco il miracolo dell’Olanda;» quel Grotius che a diciott’anni era illustre come poeta, come teologo, come commentatore, come astronomo e faceva una prosopopea della città d’Ostenda, che il Casaubon traduceva in versi greci e il Malherbe in versi francesi; quel Grotius che appena ventiquattrenne esercitava la carica d’avvocato generale d’Olanda e di Zelanda e scriveva un celebre trattato della Libertà dei mari; che a trenta era consigliere pensionario della città di Rotterdam; poi fautore del Barneveldt, perseguitato, condannato a prigionia perpetua e chiuso nel castello di Loevestein, dove scriveva il trattato del Diritto della pace e della guerra, che fu per lungo tempo il codice di tutti i pubblicisti d’Europa; poi salvato miracolosamente da sua moglie, che si fece portare nella sua prigione dentro un cofano creduto pieno di libri, e