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torepiù leggiero e più trascurato si sente come incatenato e costretto a pensare.

È bello rappresentarsi la lotta enorme di cui riposa in quella tomba il vincitore.

Da una parte è Filippo II, dall’altra Guglielmo d’Orange. Filippo II, chiuso nella solitudine sinistra dell’Escuriale, è nel mezzo d’un impero che abbraccia la Spagna, il settentrione e il mezzogiorno d’Italia, il Belgio e l’Olanda; in Africa, Oran, Tunisi, gli arcipelaghi del Capoverde e delle Canarie; in Asia le isole Filippine; in America, le Antille, il Messico, il Perù; è marito della regina d’Inghilterra; è nipote dell’imperatore d’Alemagna, che gli obbedisce quasi come un vassallo; è signore, si può dire, d’Europa, poichè non gli son vicini che popoli infiacchiti dalle discordie politiche e religiose; ha sotto la mano i soldati più agguerriti d’Europa, i più grandi capitani del secolo, l’oro americano, l’industria fiamminga, la scienza italiana, un esercito di delatori sparpagliati in tutte le corti, uomini eletti di tutti i paesi, fanaticamente devoti a lui, strumenti inconsapevoli o convinti dei suoi voleri; è il più astuto, il più misterioso principe del suo tempo; ha per sè tutto quello con cui s’incatena, si corrompe, si spaventa e si strascina il mondo: le armi, la ricchezza, la gloria, il genio, la religione. Ebbene, davanti a quest’uomo formidabile, intorno al quale tutto piega, Guglielmo d’Orange si solleva.

Quest’uomo senza regno e senza esercito è più potente di lui. Come lui, è stato discepolo di Carlo V,