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I.
Roma s’avvicinava.
La luna di novembre, una grande luna di madreperla, limpida e melanconica, illuminava la campagna: il vento, fortissimo, attraversava con la sua violenza la violenza della corsa del direttissimo.
Regina sonnecchiava e sognava di trovarsi ancora a casa sua; il rombo del treno le pareva lo scroscio del molino sul Po. Ma ad un tratto sentì la mano di Antonio stringer la sua e si svegliò di soprassalto.
— Fra poco siamo arrivati, — disse il giovane sposo.
Regina si alzò, s’appoggiò al finestrino chiuso e guardò fuori.
Il cristallo rifletteva l’interno del vagone, il lume, la figura di lei coperta d’una lunga mantella chiara, il suo viso disfatto, rimpicciolito dalla stanchezza del viaggio.
Ella socchiuse i grandi occhi miopi, e in un barbaglio di luna, sullo sfondo grigio della mantella riflessa dal vetro, le parve scorgere il paesaggio in ondulazioni azzurrognole, fuggenti; un sentiero tacito alla luna, un albero con le foglie argentee battute dal vento, e in lontananza anche una fila d’acquedotti i cui archi sfuggivano, nella vaporosità lunare, simili a immense porte azzurre, chiuse. Questa degli acquedotti era forse un’illusione ottica; Regina, che pur fidandosi poco dei suoi occhi si ostinava a non voler adoperare gli occhiali, si sentì egualmente commossa per le visioni grandiose che credeva d’intravedere nel barbaglio del vetro scosso dal vento.
Roma! Un tripudio infantile l’assaliva al solo pensiero che Roma s’avvicinava; che Roma, la città meravigliosa, lungamente sognata, la capitale del mondo, il nido d’ogni delizia e d’ogni spendore, Roma stava per diventar sua!
La stanchezza del viaggio, lo sgomento dell’avvenire così diverso dal passato, il dolore delle dolci cose perdute, la paura della gente ignota che l’aspettava, le ripugnanze dei primi giorni di matrimonio, ogni tristezza, ogni repulsione, ogni delusione svaniva davanti alla realtà del sogno lungamente, ardentemente accarezzato.
Antonio s’alzò e s’avvicinò al cristallo che riflettè la sua bella figura di biondo, alta, svelta, dominatrice. Regina vide nel cristallo i lunghi occhi grigi carezzevoli che la guardavano; vide la bella bocca, rossa sotto i baffi ardenti, sorriderle e accennarle un bacio, e si sentì felice, felice, felice.
— Pensa, — disse Antonio, curvandosi su lei come per confidarle un segreto. — Pensa, Reginotta! Siamo a Roma!
Ella non rispose.
— Ci pensi? — egli insistè.
— Altro che ci penso!
— Ti batte il cuore?
Regina sorrise, un po’ sdegnosa, non volendo far notare tutto il suo piacere e il suo turbamento.
Antonio guardò l’orologio.
— Quindici minuti ancora. Se il vento non soffia con tanta violenza ti farei guardar fuori.
— Io guardo; abbassa il vetro.
— Il vento è troppo forte, ti dico.
— No, io voglio guardar lo stesso... — insistè lei, come una bimba viziata.
Antonio provò ad abbassare il vetro; ma realmente la violenza del vento era tale che Regina rinunziò a metter la testa fuori.
— Chiudi; chiudi!
Egli chiuse.
— Pensa, ma pensa che sei a Roma! — egli ripetè.
Poi le consigliò di mettersi il cappello e di prepararsi.
— Essi usciranno ora di casa per venire alla stazione, — disse, pensieroso. — Ravviati i capelli: e la cipria dove l’hai?
— Sono molto brutta? — chiese Regina, passandosi le mani sul volto.
Sedette, aprì la borsetta, si ravvivò i capelli, si pulì il viso e s’incipriò: poi rimise il matelot grigio che Antonio le porgeva, e allacciò la mantella, dal cui colletto di martora la sua piccola faccia emergeva come da un calice, pallida, stanca, tutta bocca e tutt’occhi, rassomigliante al grazioso faccino d’un gatto.
— Così stai bene, — disse Antonio, guardandola con adorazione.
Ella si alzò di nuovo e si aggrappò ancora allo sportello: un lungo muro fuggiva ora davanti al treno; si vedevano case, siepi, orti, canneti scossi dal vento, qualche fanale giallo in quel grande biancore di luna autunnale.
— San Paolo! Il Tevere! — disse Antonio, di nuovo alle spalle di Regina.
San Paolo! Il Tevere! Regina intravide appena il luccichio verdastro del fiume, e il cuore le battè forte, sebbene dopo il primo impeto di gioia olla avesse sentito, come sempre le accadeva, un’ombra di triste diffidenza velarle l’anima.
— Sì, — pensava. — Roma, la capitale, la città meravigliosa, senza nebbie, piena di sole e di fiori. Ma che cosa mi aspotta laggiù? Io vado, giovine, felice, adorata, a gettarmi fra le braccia di Roma come mi son gettata nelle braccia di Antonio. Ma che cosa saprà darmi Roma? Noi non siamo ricchi, e la grande città è come... la gente: ama poco e dà poco a coloro che non son ricchi... Ma noi non siamo neppure poveri, — concluse, riconfortandosi.
Il treno fischiava. Improvvisamente Regina trasalì. Davanti ai suoi occhi, nel chiarore della luna e dei fanali che ora si moltiplicavano, al di là di una siepe flagellata dal vento, una palazzina era apparsa e scomparsa quasi magicamente.
— Pare il nostro villino, — disse ella con tristezza, colta dal ricordo del caro nido paterno, adagiato sull’alto argine del Po.
Il treno fischiava, rallentando la corsa vertiginosa.
— Eccoci, — disse Antonio; e Regina sentì il suo ricordo dileguare come era dileguata l’apparizione. Da quel momento, nonostante la sua ferma risoluzione di non meravigliarsi, di non turbarsi e di studiare le sue impressioni, ella si confuse e vide ogni cosa attraverso un velo.
Antonio tirava, giù le valigie e le scatole; ella si turbò perchè la cappelliera racchiudente il suo bel cappello bianco da sposa si capovolse; si curvò per rimetterla su, arrossì di stizza, ritornò davanti al cristallo e si accomodò il matelot e la mantella.
Linee di case mostruose, giallognole sul cielo di velluto azzurro, passavano fuori rapidamente; il vento cessava; i fanali si moltiplicavano, gialli ora bianchi e violacei; e la loro luce cruda vinceva il chiarore melanconico della luna, poi la luce crebbe, crebbe, divenne splendore, dilagò in un luogo chiuso, dove il treno penetrava con fragore assordante.
Roma.
Centinaia di volti illuminati dallo splendore violaceo delle lampade elettriche, fissi, intenti, egoisti, passarono davanti allo sguardo turbato di Regina. Ella provò confusamente una bizzarra impressione; le parve che quella folla — fra la quale distinse una signora dai capelli rossi, un uomo che indossava un abito a quadretti, una ragazza pallida con un gran cappello nero, un signore calvo, un bastone alzato, un fazzoletto bianco svolazzante, — tutta quella folla anonima, antipatica, fosse una rappresentanza inviatale incontro, per accoglierla non troppo benevolmente, dalla grande città alla quale ella si dava.
Lo sportello fu aperto con violenza: tra i fischi e i palpiti enormi delle macchine manovranti, echeggiò un’onda di voci umane: nei marciapiedi neri la gente si rincorreva e si urtava.
— Romaaa!
— Facchinooo! Facchinooo!
Mentre Antonio guardava se nel ripiano dei bagagli rimaneva qualche oggetto, Regina si sporse fuori e guardò. Davanti agli sportelli del treno lunghissimo s’aggruppavano ancora molte persone ansiose, curiose, ridenti; ma già gran parte della folla s’incalzava e spariva giù, all’uscita della stazione.
— Non c’è nessuno, Antonio! — disse Regina, un po’ smarrita; ma subito vide cinque persone che risalivano il marciapiedi e capì che erano loro.
Saltò giù e guardò. Sì, dovevano esser loro; tre uomini, uno dei quali in soprabito chiaro, e due donne, una bassa e grossa, l’altra altissima, magra, col viso nascosto dall’ombra di un grande cappello nero. Quest’ultima teneva in mano un mazzo di fiori, e la sua strana figura, stretta da un paltò i cui bottoni di madreperla brillavano da lontano, capì subito Regina. Doveva essere sua cognata Arduina, direttrice di un giornale femminile, che le aveva scritto due o tre lettere stravaganti.
— Mamma! — gridò Antonio, buttandosi giù dal vagone.
Regina si trovò sul petto ansante della grossa signora; poi sentì la pressione dei bottoni che aveva veduto brillare da lontano, e infine si trovò col mazzo di fiori in un mano e con l’altra mano stretta da una mano maschile, morbida e grassa.
La voce un po’ scherzosa di Antonio diceva:
— Mio fratello Mario, segretario alla Corte dei Conti.
— Mio fratello Gaspare, segretario nel Ministero della Guerra.
— Mio fratello Massimo, vice-segretario nel Ministero della Guerra.
— E mi pare che basti, — disse quest’ultimo, inchinandosi graziosamente.
Tutti sorrisero; ma Antonio proseguì:
— E Arduina la pazza...
— Sempre tu, burlone! — strillò quest’ultima.
— E questa è Regina, mia moglie! Eccola qui! — Come stai, Gaspare?
— Benone, e tu? Hai appetito?
— Sei stanca, cara? — domandò con voce tremula la vecchia signora, avvicinando il suo al viso di Regina.
Sebbene odorasse i fiori, quest’ultima sentì per la seconda volta che la suocera aveva l’alito fetido, e trasalì, sopraffatta da una improvvisa angoscia. Tutta quella gente che l’accerchiava, la stringeva, l’esaminava con impeto di curiosità mal celata, in quel luogo ignoto, a tarda notte, sotto quella luce troppo viva che le offendeva gli occhi, tutta quella gente che parlava con accento per lei straniero, le riusciva antipatica.
Anche Antonio, che in quel momento la dimenticava per riunirsi a quella turba sconosciuta, le parve un altro, uno straniero, un uomo di razza diversa dalla sua.
Si sentì sola, sperduta: le sue idee si confusero; ebbe poi l’impressione di essere portata via, trascinata da un’onda di folla; vide una montagna di vetture enormi allineate sul lastrico lucente, che le parve di mattoni azzurri, e nell’aria umida sentì un odore di bosco.
Infatti credette di scorgere in lontananza un profilo di bosco, una linea di alberi, neri sul cielo vitreo; e i globi violacei delle lampade elettriche sospese fra quegli alberi neri, le diedero l’idea di meravigliose frutta incandescenti. Qualche cosa di magico imperava, a quell’ora della notte, nella vastità della piazza, dove la gente si sperdeva e spariva silenziosamente, come in un deserto umidiccio e luminoso.
— Andiamo a piedi; stiamo qui vicini, — disse Antonio, prendendo il braccio di Regina.
— Vedi, è grande la piazza della stazione?
— Come è grande! — ella rispose, sinceramente meravigliata. — Ma ha piovuto qui, non è vero? Come è bello!
Vicina ad Antonio, verso il quale la spingeva il grosso corpo ansante della suocera, ella si sentiva di nuovo felice. Sì, davvero, Roma era la città sognata, piena di giardini, di fontane, di edifizi immensi, splendida e grande di giorno e di notte.
Regina si sentì lieta come se avesse bevuto un liquore; cominciò a chiacchierare con animazione febbrile, ma non ricordò mai ciò che disse in quella prima ora del suo arrivo. Ricordò però che, nella sua gioia, le dava fastidio l’ansare e il sospirare della suocera, il riso scemo di Arduina, il discorso dei cognati, che venivano tranquillamente dietro e parlavano nientemeno che di topi.
Antonio aveva pregato la sua famiglia di non avvertire gli amici del loro arrivo; non voleva seccature: ma giunti in via Torino, davanti al grande palazzo dove i Venutelli abitavano due appartamenti, al quarto e quinto piano, la vecchia signora ansò, sospirò e disse:
— C’è Clara con la figlia: son venute a passar la sera da noi e non abbiamo potuto mandarle via. Hanno indovinato.
— Seccatura! — disse Antonio. — Le manderò via io, ora!
Il gas era ancora acceso: l’atrio signorile e il grande scalone di marmo continuarono in Regina l’impressione di grandezza e di bellezza che la piazza e le vie le avevano destato.
— Coraggio, — le disse Antonio. — È la scala d’Abramo, questa. — Voi, maschiacci, avanti!
I tre uomini e Arduina si slanciarono avanti; Regina volle anch’essa affrettare la salita, ma ben presto si stancò e cominciò ad ansare.
— La mia morte, le scale! — disse la suocera. — Ah, figlia mia, anche io non ho abitato sempre al quarto piano.
Regina non ascoltava più. Grida, risate, esclamazioni echeggiavano nell’alto della scala; poi precipitò giù un turbine, un fruscio, un’onda di profumo, un’apparizione di volanti, di trine, di catenelle, di capelli biondi, che travolse e per poco non rovesciò la sposa, lo sposo e la suocera.
— Claretta, bada di non romperti il collo, cara! — gridò Antonio.
La bellissima creatura stringeva Regina fra le braccia, coprendola di baci appassionati.
— Cara, benvenuta, benvenuta, cara, mille auguri di felicità: la mamma è su!
— Piacere! — disse Antonio. — Dà almeno un bacio anche a me!
Claretta, senz’altro, lo baciò sulla guancia; poi prese Regina per mano e la tirò su, su, gridando e ridendo, alta, frusciante, fragrante. Regina la seguiva, un po’ invidiosa e gelosa, un po’ incantata da tanta bellezza disinvolta. Claretta la portò su quasi fra le braccia, riempiendo la scala delle sue risate e dei suoi strilli; l’introdusse nell’appartamento, e dopo averla gettata sul soffice petto della grossa zia Clara la trascinò per tutte le stanze.
L’appartamento era illuminato a gas; i mobili lucevano e puzzavano di petrolio. Tutte le stanze erano strette, zeppe di mobili, soffocate da panneggi grossolani, da tappeti di juta, da lavori all’uncinetto, da grossi cuscini ricamati in lana, da ventagli e ombrellini di carta traforata: in certe camere non ci si poteva muovere. Regina fu presa alla gola da un senso di soffocamento. Il ricordo della bella palazzina paterna, dalle grandi stanze calde e semplici, l’assalì con tenerezza angosciosa: e per confortarsi sentì il bisogno di dire a Claretta:
— Noi staremo qui finchè non avremo trovato un bell’appartamento: è facile trovarlo, non è vero?
— Non tanto, ora, sai. Ci son gli stranieri, ora, che assaltano Roma come un nembo di cavallette. — rispose la cugina, che si fermava davanti a tutti gli specchi, voltandosi e rivoltandosi con ammirazione, e parlava alto per farsi udire dai «maschiacci» riuniti nella saletta da pranzo.
— Ecco, questa è la vostra camera; il vostro nido d’amore, uccellini di passaggio! — disse poi, entrando con Regina in una stanza d’angolo, dove furono raggiunte da Antonio, dalla madre, da Arduina, dalla serva e dalle valigie.
La camera era abbastanza vasta, ma schiacciata da un soffitto basso, grigio, adorno di volgari ghirigori turchini; pesanti panneggi nascondevano tre finestre, una delle quali ai piedi del gran letto massiccio sovraccarico di cuscini e di copripiedi. Quel soffitto grigio, incombente su quella camera volgare, borghese, — che le valigie e le scatole degli sposi finirono d’ingombrare in modo che non ci si poteva più muovere, — accrebbe il senso di soffocamento che opprimeva Regina. Ella guardava, muta e triste; le pareva di sognare un sogno penoso, d’essere in una strana prigione, ove qualche cosa la legava e la opprimeva mortalmente. Oh, tutta quella gente! Tutte quelle donne che l’accerchiavano, la stringevano, la soffocavano con la loro curiosità crudele! La sua sensibilità delicata, in quell’ora tarda, dopo l’urto del viaggio, si risentiva quasi morbosamente al contatto di quella gente ignota. Ella aveva in quel momento bisogno di riposo, pettinarsi, cambiarsi; invece non la lasciarono sola un momento. Claretta non intendeva di abbandonare lo specchio; Arduina, che era una scrittrice, pareva esaminasse le impressioni della nuova venuta; la suocera non cessava di fissarla con occhi lacrimosi.
Regina si tolse la mantellina e il cappello: il suo piccolo viso tutto bocca e tutto occhi apparve spaurito e pallido sotto l’onda nera dei capelli abbondanti intricati.
Antonio non badava più a lei: intento a mettere in ordine le valigie, chiedeva a sua madre notizie dei suoi conoscenti.
La vecchia signora ansava e sospirava, e rispondeva alle domande del figlio senza abbandonare con gli occhi la giovine nuora.
— Dove mi lavo? — chiese Regina. I suoi grandi occhi castanei, di solito assai vellutati e dolci, socchiusi di stanchezza, erano diventati quasi selvaggi.
— Qui, — disse Arduina, precipitandosi verso il lavabo. — Qui, cara. Ecco, c’è tutto. Il sapone, la cipria, il pettine. Che sapone preferisci?
Regina non rispose. Si lavò, prese la salvietta che la cognata le porgeva, s’accomodò i capelli chinandosi sul basso specchio del lavabo.
— Siediti, — disse Arduina, mettendole una sedia dietro. — Così non vedi.
— No, seduta ci vedo meno, — rispose Regina, sempre più irritata. — Son miope.
Questa notizia immerse le donne in un profondo stupore. Claretta si volse vivamente contro lo specchio; la signora Anna, che esaminava la fodera della mantella di Regina, sollevò gli occhi stupiti e quasi addolorati; Arduina guardò sbalordita i bellissimi occhi della cognata.
— Miope! Con occhi così belli!
— Così giovine! — esclamò la vecchia signora.
— Ebbene, che importa? — rispose Regina con voce aspra. — Noi siamo tutti miopi di famiglia.
— Hai l’occhialetto? — chiese Claretta.
— L’ho, ma non me ne servo: non mi piace.
— È molto chic, anzi, — disse Arduina. — Ecco, cara, slarga un po’ i capelli sulle tempia: son troppo tirati. Che capelli splendidi! Domani ti pettinerò io. Aspetta...
E sollevò le mani, ma la testolina della sposa, quella piccola testa che pareva così mite e insignificante, ebbe una scossa di fierezza sdegnosa.
— No. Sto bene così.
La voce non ammetteva repliche, e la scrittrice dovette capire che Regina era una creatura di comando, di una razza superiore, perchè le rivolse uno sguardo di tenerezza accorata e di ammirazione pietosa. Solo allora Regina, colpita da quello sguardo, si degnò far attenzione alla cognata, che Antonio le aveva descritto come una scema. E a sua volta, in quella lunga persona dal petto liscio, dal volto di legno giallognolo, sul quale i piccoli occhi lattei pieni di spavento, la piccola bocca dai denti neri, e tre riccioli d’un biondo grigio, segnavano una bruttezza unica, intuì una creatura di servitù e di tristezza. Ne provò una malvagia consolazione. In quel mondo odioso, che le si era improvvisamente aperto con la porta del piccolo appartamento, v’erano delle vittime, come Arduina, al cui confronto ella era un’imperatrice. Ma non ne provò pietà.
Tutto ciò in pochi istanti, mentre s’accomodava i capelli davanti alle tre donne che la guardavano.
Antonio s’accorse del malumore di Regina, e mandò via le donne, spingendo famigliarmente la cugina.
— Fate il piacere, andatevene: spero non vorrete assistere anche alla mia toeletta. Andatevene; facciamo presto. Noi abbiamo anche bisogno di riposo.
— Domani starete a letto tutto il giorno, tanto pioverà, — disse La madre.
— Speriamo di no.
— Speriamo di sì.
— Crepi l’astrologo, — augurò fra sè Regina.
Finalmente le donne uscirono; e d’un balzo Antonio fu presso Regina, l’abbracciò, curvò il suo viso sul viso triste di lei, e le disse con voce carezzevole:
— Coraggio. Non essere così triste. Ora mangiamo in fretta un boccone, e poi subito a letto. Domani, poi, scappiamo: usciamo soli, non avremo seccature. Su, allegra!
La prese per la vita e la trascinò cantarellando fino al salotto da pranzo:
Topolin non vuol ricotta, |
Ma Regina non si rallegrò più. Appena seduta su una delle incomode sedie di Vienna che circondavano la mensa troppo ingombra, ella sentì tutta la stanchezza del viaggio fiaccarle la schiena e appesantirle le palpebre. Di nuovo sentì l’impressione di un sogno penoso; e le parve di vedere attraverso un velo un quadro di figure volgari. Volgare il viso della suocera, grasso rosso paffuto, disegnato dalla linea oleosa dei capelli troppo neri per essere naturali; volgare quello del sor Mario, somigliantissimo al viso di sua madre, con gli stessi piccoli occhi azzurri e la bocca semi-aperta ad una respirazione lenta un po’ affannosa; e il volto di Gaspare, tutto roseo e sbarbato sotto la linea lucente della fronte calva; e quello di Massimo, un elegantone decadente, rassomigliante ad Antonio, ma pallido e coi lunghi capelli rossicci unti, gli occhi grigi dallo sguardo sfrontato. Volgare anche il viso artificiale di Claretta: una bellezza borghese. Non sapeva perchè, ma Regina ricordava in quell’ora la folla intraveduta nelle stazioni di passaggio e in quella di Roma: quei visi che ora la circondavano emergevano nel tumulto delle figure intravedute, ma folla anch’essi e niente altro che folla. Un mondo intero la separava da loro.
Nonostante l’ora tarda e la promessa di Antonio, la cena si protrasse a lungo, servita da una ragazzona bionda, in camicetta rosa, che non cessava di guardar la sposa con occhi meravigliati, e ogni momento inciampava e correva rischio di rompere qualche cosa.
Questa figura che andava e veniva pareva la più importante del quadro: tutti la osservavano, tutti conversavano con lei: la signora Anna trasaliva ogni volta che ella entrava.
Anche Antonio le rivolse la parola.
— Ebbene, come vanno i tuoi amori, Marina? Ti piace dunque? — le chiese poi, accennandole Regina. — Chi è più bella, lei o la signora Arduina?
Marina arrossì, rise, scappò, e non tornava più. Allora Gaspare s’alzò di tavola, gravemente, col tovagliolo sull’omero, e andò a cercarla in cucina. S’udì un improvviso vociare; Gaspare rientrò, rosso, con gli occhi irati.
— Mamma, l’arrosto brucia! — annunziò tragicamente. — Andate... andate un po’ a vedere!
La vecchia signora gemette, si alzò, uscì, rientrò, non stette più un momento ferma.
— Mamma, — supplicava Antonio, — restate a tavola!
— Mamma, — ripeteva Gaspare, ancora adirato, — andate a vedere!
— Figlia mia, — diceva la suocera, volgendosi a Regina, — queste donne di servizio!... Non bisogna parlarne, dicono, ma come si fa quando sono il disastro delle famiglie?... Ti dirò poi...
— Uno dei più gravi problemi sociali! — disse Massimo, ironico, senza guardar nessuno.
— Intanto senza le serve tu non puoi vivere, — gridò Gaspare.
— Intanto le serve ti fanno morire...
— Oh, le faccio morire io se non filano dritte, — disse Gaspare.
Tutti risero: ma nonostante le frequenti visite della vecchia signora in cucina, le portate si facevano attendere lungamente. La conversazione s’animava. Massimo parlava con la cugina, la signora Anna narrava alla signora Clara i fasti della serva.
— Come si va col vostro Gigione? — domandò Antonio a Gaspare.
E Gaspare cominciò a parlar male del suo Ministro, come parlava male delle serve.
— Hai ricevuto la mia ultima lettera? — chiese Arduina a Regina, profittando del chiasso che gli altri facevano.
— Quale?
— Ti domandavo... osavo domandarti qualche notizia sulla beneficenza privata, specialmente femminile, nel Mantovano...
— Lasciala in pace, fa il piacere! — disse Antonio alla cognata.
Regina pensava a casa sua; rivedeva la finestra della grande stanza da pranzo, dove in estate tremolava il bel quadro del bosco; rivedeva l’argine verde dietro il quale brillava il fiume. Tutto sparito! Il bel quadro vivo del bosco, e il quadro vero del Baratta, appeso sopra il camino, — un’alzaia sulle rive verdastre della Parma, col cielo lilla dietro i pioppi bianchi, — spariti, spariti per sempre! Di nuovo, su quell’incomoda sedia che le fiaccava le ossa, fra tutta quella gente che parlava di cose volgari, ella sentì lo stesso sgomento che prova il condannato al pensiero della convivenza forzata coi suoi compagni di pena.
Anche Antonio, che badava poco a lei, come travolto dalla corrente delle piccole notizie che i fratelli gli davano, le sembrava nuovamente uno sconosciuto.
Ogni volta che la serva entrava e fissava i piccoli occhi turchini sulla sposa, egli ripeteva:
— Ma chi dunque è più bella? o più brutta? La sposa o la signora Arduina?
La ragazza guardava l’una, guardava l’altra e rideva.
— Dillo dunque? La signora Arduina?
— Oh, no!
— Come, non è la più brutta?
Tutti ridevano. Perchè ridevano?
La felicità rendeva Antonio cattivo.
Pur sapendo come suo fratello Mario, uomo già d’età, che parlava poco ma arrossiva quando qualcuno esprimeva un’idea passata anche nella sua mente, detestava la manìa grafomane di sua moglie, Antonio chiese alla cognata se il suo giornale femminista L’avvenire della donna camminava coi piedi o con le mani.
— Dicono che abbia raggiunto una tiratura di tre copie! — disse Massimo.
— E poi pare che voglia anche attirarsi una querela perchè ha riprodotto, senza permesso, un sonetto da un giornale calabrese.
— Oh, Dio, quanto sei spiritoso! — gridò Arduina, facendo una smorfia: ma tutto il suo viso esprimeva un vago spavento.
Il sor Mario, con la faccia china sul piatto, mugolò e masticò forte come un bove irritato.
Allora fu tutta una esplosione di crudeltà infantile contro la povera creatura che anche a Regina faceva l’effetto d’una caricatura.
— Ciò che non ho mai capito è dove stia la redazione del giornale, — disse Claretta. — Ci si potrebbe andare, almeno in cerca del redattore capo.
— Ce ne son tanti per la strada! — rispose Arduina. — Le ragazze belle come te trovano dei redattori da per tutto.
— Con ciò non si capisce bene quello che tu voglia dire... — gridò Gaspare.
— Come si capisce che voi non capite niente...
— E tu, sì, capisci! — disse il marito, sollevando solennemente la forchetta.
— Sei femminista, tu, Regina?
— Io? Io no, — ella rispose, come uscendo da un sogno. Ma subito volle difendere Arduina, non per pietà verso la scrittrice, ma per dispetto verso i cognati. — Può darsi che Arduina mi converta.
— Antonio, il bastone! — gridò Gaspare.
E tutti risero ancora.
Poi la conversazione deviò: si parlò di una principessa russa, madame Makuline, stabilita da molti anni a Roma, e alla quale Antonio, che l’aveva conosciuta per mezzo di Arduina, sbrigava qualche affare d’amministrazione.
— So che deve fare un regalo a Regina, — disse la scrittrice ad Antonio. — Domani sera verrà a pranzo da me: ci verrete anche voi.
Questa notizia rialzò alquanto le sorti di Arduina, e sollevò un po’ Regina: la conversazione volò su contesse e marchese, e Claretta gridò, rivolta a Massimo:
— Oh, ora che mi ricordo! Ti han visto, sai, l’altro giorno...
— Mi vedono anche oggi!
— Ti han visto a correre dietro la carrozza di donna Maria Del Carro: pioveva e non avevi ombrello.
— Ecco perchè correvo! — egli disse, tutto felice e lusingato.
— No, correvi proprio proprio dietro la carrozza, caro!
— Ma perchè? — domandò ingenuamente Regina.
— Quanto sei carina! — disse la cugina. — Eh, correva per farsi vedere, perchè dicono che alla marchesa Del Carro piacciono i giovani belli... anche se sconosciuti...
— Grazie! — disse Massimo, facendo degli inchini. — Grazie e grazie!
Tutti allora si animarono, e tirarono fuori un numero infinito di dame di loro personale conoscenza, raccontandone vita e miracoli. Anche la signora Clara, per non parer da meno, descrisse l’abito che una contessa sua amica indossava l’altra sera, durante un ricevimento.
Regina ascoltava. Ebbene, ella non lo confessava a sè stessa, ma l’idea che i suoi nuovi parenti conoscessero della gente aristocratica le faceva piacere.
*
Finalmente venne il caffè, e la signora Anna si volse a Regina con l’intenzione di parlarle dolcemente.
— Tua madre, — cominciò, — starà in pensiero, me lo immagino: ella non può certo ancora abituarsi all’idea che una seconda madre...
— Mamma, — interruppe Gaspare, che tornava da una seconda ispezione in cucina, — venite un po’ a vedere. Ma venite, — insistè, agitando la cocca del tovagliuolo che teneva sull’omero, — c’è un lago in cucina. Ha lasciato il rubinetto aperto.
La vecchia signora dovette alzarsi, sospirando e ansando, e seguì il figlio in cucina. Subito dopo si udirono i singhiozzi di Marina.
— Ma è insopportabile quell’uomo! — disse Arduina. — Ma è forse una schiava quella povera ragazza? Dal punto di vista...
— Sociale... — proseguì Massimo.
— Ma scusami! Ha lasciato il rubinetto aperto! — osservò zia Clara.
— Se io sposo un marito che si ficca in cucina, dal punto di vista sociale gli dò tanti scapaccioni... — dichiarò Claretta, stringendosi la cintura davanti allo specchio.
— Anch’io, — rinforzò la scrittrice.
Il sor Mario, che si stuzzicava ferocemente i denti, mugolò.
La signora Anna rientrò, seguìta da Marina che aveva gli occhi rossi e le labbra tremanti.
— Via! — disse Massimo. — Non piangere, chè sei brutta. Se ti vede il pizzardone...
— Come? Fai l’amore con un pizzardone ora? — chiese Antonio scherzando.
— Sì; si chiama Stanislao.
— Ma quando sono andato via facevi l’amore col giornalaio.
— L’ho lasciato; più di due mesi non faccio l’amore con nessuno, — dichiarò Marina, già di nuovo sorridente.
— Brava! — disse Claretta. — È un metodo magnifico. E ne hai avuti molti?
— Quattro... no, cinque col primo. Si chiamava Peppino: era impiegato.
— Perdinci! Dove?
— Dove? A Campo Verano...
— Scavava le fosse?
— Sì, — rispose semplicemente la serva.
E tutti risero di nuovo; e di nuovo Regina si sentì soffocare. Erano sempre stupidi così, in quella casa? Anche Antonio, il suo Antonio sempre gaio, che con lei non s’era mai rivelato volgare, anch’egli ora le appariva sotto una luce diversa. Ma a un tratto, mentre la signora Clara ripeteva la descrizione del vestito della contessa, Regina vide suo marito fissarla in viso, con occhi improvvisamente tristi, e si accorse di avere le labbra contratte da un fremito. Subito Antonio si alzò, le si avvicinò, le accarezzò i capelli.
— Ora andiamo a letto; è ora. Sei stanca, vero? — le disse, piano, con voce quasi supplichevole.
Regina si alzò; Arduina e Claretta le corsero addosso, l’abbracciarono, la baciarono, l’accompagnarono fino alla camera, la baciarono ancora.
Rimasta sola con Antonio, ella provò un senso di sollievo: ma immediatamente l’uscio fu riaperto e la suocera entrò...
— Cosa vuole? — chiese Regina smarrita: e chiuse gli occhi, abbandonandosi su una delle mastodontiche poltrone che ingombravano la camera.
La signora Anna s’avanzò fino al letto, ansando e sospirando.
— Ah, — diceva, tragicamente, — non sanno far nulla! Perdona, figlia mia; hanno perduto la testa...
— Ma che è avvenuto? — chiese Antonio, già mezzo svestito.
— Non hanno aperto il letto! — esclamò la signora, prendendo i cuscini e stringendoli al suo grosso petto ansante.
Andò e venne: accomodò i copripiedi; guardò entro i tavolini da notte, esaminò la bottiglia dell’acqua.
Regina aspettava, per svestirsi, che la vecchia se n’andasse: buttata sulla poltrona, gli occhi chiusi, le mani abbandonate sul grembo, ella sentiva il passo incerto e il respiro ansante della suocera, e pensava con angoscia al domani.
— Domani ancora, e posdomani ancora, e poi sempre io avrò da fare con questa gente! È orrendo!
— E la camicia da notte? — chiese Antonio, in maglia e mutande.
Regina aprì gli occhi, si alzò e andò a guardare nella valigia. Ed ecco, subito, dietro di lei, il respiro grave e anelante della vecchia.
— Guarderò io, figlia mia. Va, va e spogliati. Cercherò anche la tua.
— Lasciate, cercherò io, — disse Regina, straziata.
— No, lascia fare a me; tu va e spogliati.
— No.
— Ed io intanto faccio un balletto! — esclamò Antonio, eseguendo degli sgambetti. Era ben fatto ed agile come un clown.
— Figliuola mia, cosa fai? Queste non sono camicie da notte; sono mutande: ecco qui, mi pare sia questa la camicia d’Antonio. E la tua? Ah, è di flanella? Non ti farà poi male? Fa molto freddo al tuo paese, non è vero? Anche qui fa freddo, quando soffia la tramontana. Tre giorni, soffia la tramontana... Guarda che bel ricamo: l’hai fatto tu? Senti...
Ella non vedeva e non sentiva più: una rabbia sorda la prese, mentre la vecchia signora frugava nella valigia esaminando curiosamente ogni oggetto. A un tratto Antonio, che saltava intorno alle poltrone, prese Regina e la travolse con sè.
— Ah, — ella disse, con un grido di protesta dolente, — sarebbe finalmente ora di lasciarmi in pace!
La vecchia signora non capì: rimise tutto in ordine entro la valigia, poi s’avvicinò a Regina e la abbracciò. E finalmente andò via, e finalmente Regina si trovò sola con Antonio, ma non ne provò più alcun conforto. Si spogliò e si mise a letto; e quel gran letto massiccio era duro e gelido e largo come il letto d’un fiume! Ella provò come l’impressione di un naufragio; intorno le galleggiavano le valigie aperte, le scatole, le tende, i mobili antipatici: in alto incombeva, soffocante, quel soffitto grigio, simile ad un cielo piovoso: confusi rumori vibranti nel silenzio della notte arrivavano di lontano, da un luogo sconosciuto e misterioso; il riso scemo di Arduina e la voce isterica di Claretta risuonavano ancora nelle stanze attigue. E su tutte le cose, e su tutte le voci vicine e lontane, un fischio melanconico, il lamento sibilante d’un treno notturno, pareva a Regina un grido altre volte udito, in un luogo lontano: un grido che chiamava, invitava, implorava... che cosa? Ella non sapeva, ella non ricordava... ma era certa d’aver qualche volta udito quel grido, che ora sibilava per lei sola, cercandola nella notte della grande città sconosciuta, e le ripeteva cose strane, dolci e strazianti...
— Ah, finalmente! Dove sei? — disse Antonio, abbracciandola. — Questo è un deserto sconfinato! Oh, che mani fredde! Tremi, hai freddo?
— No.
— E allora perchè tremi? — egli chiese, con voce mutata. — Non sei contenta, Regina?
Ella non rispose.
— Non sei contenta?
— Sono stanca, — diss’ella, con gli occhi chiusi. — Sento ancora il moto del treno. Senti tu il fischio?... Oh, — disse poi, come in sogno, — lo riconosco. Pare il fischio del vaporino del Po. Ah, partire...
— Sei appena arrivata e pensi già di partire? — egli osservò; e la sua voce era un po’ scherzosa, un po’ amara.
Ella non rispose: egli credette che dormisse già e stette immobile per paura di svegliarla.
Ma subito la sentì ridere, e si rallegrò tutto.
— Perchè ridi? — chiese, stringendole una mano che cominciava a scaldarsi.
— Quell’impiegato!... Era un becchino... — ella mormorò, e pareva sognasse ancora. — Se ci fosse stata mia sorella Toscana... come avrebbe riso!
— Ecco, — egli pensò, — ella è sempre là!
*
Molto tempo dopo Antonio confidò a Regina che quella notte egli non aveva potuto dormire.
Avrebbe voluto chiederle se sua madre e la nuova famiglia le piacevano; ma non osava parlare perchè confusamente intuiva che la risposta non sarebbe stata sincera.
Anch’egli udiva il fischio che raggiungeva Regina nel suo dormiveglia e la cullava di ricordi e di speranze.
— Partire! Ella sogna già di ripartire, — pensava egli con amarezza.
E sentiva un impeto di malcontento ripensando al contegno di lei, freddo triste, talora sdegnoso, durante quelle prime ore di comunione con la nuova famiglia; e sebbene egli intuisse la distanza insuperabile che divideva questa famiglia dalla creatura intelligente e fina, d’una razza superiore, che egli aveva osato sposare, pensava:
— Ma ella lo sapeva, però! Io le dissi tutto: io glielo dissi: noi siamo una famiglia d’impiegati, discendenti d’impiegati. Mia madre è una massaia; mia cognata una scema innocua. Ella diceva che non gliene importava niente; che mi amava e bastava. Che vuole dunque?
Ebbe una stolta voglia di respingerla, di allontanarla da sè, in quel gran letto freddo che pareva senza confini: ma ella era così fragile, così sottile, così fredda, abbandonata come una morta sul suo petto caldo e pulsante!
— Ho fatto male a portarla qui! Dovevo far preparare il nostro nido, e condurla là, subito. Ella è ora come un fiore divelto, che bisogna subito trapiantare in terreno adatto.
La guardò con profonda tenerezza, e stette immobile, per non turbare il sonno sceso sulla stanchezza e sulla nostalgia di lei.