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— Ti batte il cuore?

Regina sorrise, un po’ sdegnosa, non volendo far notare tutto il suo piacere e il suo turbamento.

Antonio guardò l’orologio.

— Quindici minuti ancora. Se il vento non soffia con tanta violenza ti farei guardar fuori.

— Io guardo; abbassa il vetro.

— Il vento è troppo forte, ti dico.

— No, io voglio guardar lo stesso... — insistè lei, come una bimba viziata.

Antonio provò ad abbassare il vetro; ma realmente la violenza del vento era tale che Regina rinunziò a metter la testa fuori.

— Chiudi; chiudi!

Egli chiuse.

— Pensa, ma pensa che sei a Roma! — egli ripetè.

Poi le consigliò di mettersi il cappello e di prepararsi.

Essi usciranno ora di casa per venire alla stazione, — disse, pensieroso. — Ravviati i capelli: e la cipria dove l’hai?

— Sono molto brutta? — chiese Regina, passandosi le mani sul volto.

Sedette, aprì la borsetta, si ravvio i capelli, si pulì il viso e s’incipriò: poi rimise il matelot grigio che Antonio le porgeva, e allacciò la mantella, dal cui colletto di martora la sua piccola faccia emergeva come da un calice, pallida, stanca, tutta bocca e tutt’occhi, rassomigliante al grazioso faccino d’un gatto.

— Così stai bene, — disse Antonio, guardandola con adorazione.

Ella si alzò di nuovo e si aggrappò ancora