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vranti, echeggiò un’onda di voci umane: nei marciapiedi neri la gente si rincorreva e si urtava.
— Romaaa!
— Facchinooo! Facchinooo!
Mentre Antonio guardava se nel ripiano dei bagagli rimaneva qualche oggetto, Regina si sporse fuori e guardò. Davanti agli sportelli del treno lunghissimo s’aggruppavano ancora molte persone ansiose, curiose, ridenti; ma già gran parte della folla s’incalzava e spariva giù, all’uscita della stazione.
— Non c’è nessuno, Antonio! — disse Regina, un po’ smarrita; ma subito vide cinque persone che risalivano il marciapiedi e capì che erano loro.
Saltò giù e guardò. Sì, dovevano esser loro; tre uomini, uno dei quali in soprabito chiaro, e due donne, una bassa e grossa, l’altra altissima, magra, col viso nascosto dall’ombra di un grande cappello nero. Quest’ultima teneva in mano un mazzo di fiori, e la sua strana figura, stretta da un paltò i cui bottoni di madreperla brillavano da lontano, capì subito Regina. Doveva essere sua cognata Arduina, direttrice di un giornale femminile, che le aveva scritto due o tre lettere stravaganti.
— Mamma! — gridò Antonio, buttandosi giù dal vagone.
Regina si trovò sul petto ansante della grossa signora; poi sentì la pressione dei bottoni che aveva veduto brillare da lontano, e infine si trovò col mazzo di fiori in un mano e con l’altra mano stretta da una mano maschile, morbida e grassa.