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L’indomani Justo mandò la mulatta a domandare se il cavalier Asquer poteva riceverlo; la donna andò, cupa in viso, e rispose con aria tragica che il cavalier Asquer, sebbene si sentisse poco bene, avrebbe ricevuto il signor Villanueva alle tre pomeridiane.

Lia, in camera sua, aspettava inquieta, oppressa da un tristo presentimento: lo zio non aveva aperto bocca; ma ov’egli passava, trascinando il suo piede e il suo bastone, si spandeva come un’aria di temporale: ella pensò di scrivere a Justo pregandolo di rimandare a un altro giorno la sua visita, ma non ne ebbe il coraggio, e neppure osò muoversi quando egli suonò. Costantana corse ad aprire e fece passare Justo in salotto: subito dopo il picchiettio del bastono dello zio risuonò nel corridoio. Lia sentì un’angoscia profonda; con uno sforzo di volontà riuscì a calmarsi, e in punta di piedi andò nella sala da pranzo, che comunicava col salottino. Costantina stava già ad origliare; ma appena vide la padrona lo corse incontro, l’afferrò per le braccia e le mormorò sul viso:

— Signorina! È venuto per chieder la sua mano!

— Va, va! — supplicò Lia, appoggiandosi all’uscio, con la testa bassa e le braccia abbandonate lungo i fianchi quasi stesse per svenire.