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dre, medico, stabilitosi a Buenos Aires con la speranza di formarsi una buona clientela era morto giovane, d’un’infezione malarica, lasciando il figlio orfano e solo. Il ragazzetto aveva fatto di tutto; l’operaio, il fattorino, il tipografo, il correttore di bozze, poscia lo stenografo e il cronista.

La sua natura un po’ indolente lo portava a sognare con nostalgia l’Europa: da dieci anni viveva a Roma, e la sua giornata passava, altrettanto monotona quanto quella di Lia, tra il Caffè Aragno e la sala dei corrispondenti. Alla notte scriveva articoli di politica europea per i giornali di Buenos Aires; soffriva d’insonnia, e più che i destini delle nazioni e le loro alleanze o le loro guerre, lo preoccupava l’avvenire di Salvador.

Un giorno, poichè egli si lamentava dell’inettitudine della mulatta a educare il bambino, Lia gli domandò perchè non lo metteva in collegio o non lo affidava ad una istitutrice.

Il vedovo odiava i collegi; pensava però ad una istitutrice.

— Mi deciderò a cercarla se non riuscirò a farmi amare da una donna che vuol bene a Salvador e che potrebbe fargli da madre.

Ella lo guardò, timida e dolce, ma anche diffidente, e domandò esitando: — Chi sarebbe?

— Lei lo sa, signorina!

Lia chinò gli occhi, e prima di rispondere parve raccogliersi, interrogando un’ultima volta il