Misteri di polizia/XXIX. L'Antologia
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CAPITOLO XXIX.
L’Antologia dal gennaio del 1820, in cui comparve la sua prima puntata, sino al gennaio del 1833, in cui vide la luce, con ritardo, il suo doppio fascicolo del novembre e dicembre 1832, fu in Italia il portavoce, possiamo dire esclusivo e confessato di quella parte della Società italiana, che non potendo domandare apertamente le riforme civili e politiche, purnondimeno stimava di fare il bene del paese preparando gli animi degli italiani, mercè le lettere e le scienze ad utilità pratica e civile rivolte, a quegli avvenimenti cui la forza delle cose in un avvenire più o meno prossimo doveva infallantamente maturare. Laonde le lettere e la scienza, più che fine erano un mezzo per l’Antologia, la quale, peraltro, a causa della censura, non rifletteva che assai debolmente lo spirito innovatore e liberale che regnava nel famoso Gabinetto Letterario di G. P. Vieusseux, dove in gran parte il giornale si compilava, e che tutti i rapporti della Polizia del tempo, segnalano come un focolare d’idee rivoluzionarie. L’Antologia, quindi, se in apparenza era un’effemeride di letteratura e di scienze, in fondo era un giornale di preparazione che aspettava giorni migliori per trasformarsi in giornale di combattimento, senza che per questo, di tanto in tanto, grazie alla tolleranza della censura, non uscisse in avvisaglie o non facesse delle punte nel campo proibito della politica; — avvisaglie e punte le quali benchè in apparenza conservassero il loro carattere letterario, pure mettevano in orgasmo i fautori dell’ordine, ai quali non occorreva molto acume d’intelletto per intendere la portata di certi articoli, sopratutto in un tempo in cui la distinzione di classici e di romantici serviva a mascherare codini e liberali e l’istituzione di una scuola elementare o d’un asilo d’infanzia, l’inaugurazione d’una cassa di risparmio o d’una Società agraria, si considerava dagli uni come un’innovazione pericolosa e dagli altri come lui passo fatto sulla via del progresso. Epperò l’Antologia era romantica in arte, come romantico era stato il Conciliatore, che per un momento parve, nonostante le forbici della I. e R. Censura austriaca, una protesta contro la signoria straniera, mentre a Milano la Biblioteca Italiana fondata ed ispirata dal Governo di Vienna era classica.
Ma verso il 1830, spirando con maggior violenza lo spirito rivoluzionario in Europa, le tendenze liberali, o, come allora si diceva nei fogli e nei circoli retrivi, le tendenze sovversive dell’Antologia si accentuarono sempre di più. Alla vigilia della rivoluzione di Parigi, di Bruxelles e di Varsavia, la politica, per quanto fosse bandita dalla censura dalle pagine della Rivista fiorentina, faceva di quando a quando delle brevi apparizioni che mentre scuotevano dal suo sonno tradizionale la Polizia toscana, destavano negli animi speranze e desiderî che l’eco degli avvenimenti d’oltralpe ingrandiva a dismisura. Tenuto conto dei tempi e delle pastoie che inceppavano il libero svolgimento del pensiero, l’Antologia, tra il 1830 e il 1832, poteva già dirsi un giornale di combattimento, in cui le tendenze politiche erano appena appena dissimulate. La qualcosa, come è facile indovinare, porgeva motivo di legittime doglianze ai buoni, ai cosiddetti bene intenzionati, che nel giornale del loro cuore, la Voce della Verità, di Modena, non sapevano nascondere lo sdegno che nei loro animi foderati di sanfedismo destava la pubblicazione d’un periodico, che sotto gli occhi della stessa censura e in un paese ch’era un feudo dell’I. e R. casa di Austria, credeva alla sapienza giuridica di G. D. Romagnosi, inneggiava a quella economica di Pellegrino Rossi, mentre non sapeva trovare una sola parola per celebrare la sapienza politica del principe di Metternich o il Governo illuminato di Francesco IV d’Este.
Intanto, verso quel tempo, due nuovi compilatori avevano ringiovanito le file della redazione dell’Antologia — il Montani e il Tommasèo. Era il Montani un ex-prete poco o punto credente (discretamente compromesso agli occhi dei bacchettoni per un certo suo romanzo od intrigo galante svoltosi a Milano) in relazione assai intima con Giuseppe Mazzini, ma scrittore come affermava lo stesso Tommasèo, poco elegante, piuttosto duretto, però ardito. All’incontro, il Tommasèo aveva tutti i requisiti d’un redattore di rivista letteraria battagliera: stile elegante, incisivo, epigrammatico; spirito colto e raffinato, e sotto l’apparenza d’un filologo, d’un raccoglitore di sinonimi e di modi scelti del parlare toscano, un cuore di patriota, un uomo di sentimenti francamente repubblicani, ma sin d’allora cattolico.
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I rivolgimenti della Francia, del Belgio e della Polonia non lasciarono indifferenti gli spiriti in Italia. I moti di Bologna e dei Ducati, nonostante che fossero stati repentinamente repressi, gettarono gli animi in una agitazione, che le sètte che allora si stendevano sulla penisola come una rete di ferro, facevano qua e là prorompere in dimostrazioni e in complotti che la Polizia sventava e il carnefice incoronava talvolta della lugubre aureola del martirio, sopratutto a Modena, dove il duca s’atteggiava apertamente a pontefice massimo della reazione, covando in sè il sogno di un regno forte, coi confini da un lato alle Alpi e dall’altro al Po, governato col Codice della Santa Alleanza ed avente per primo ministro, quasi un Metternich ridotto ad uso degli italiani redenti della lue rivoluzionaria ed irreligiosa, il principe di Canosa il quale, in quei giorni, in difetto d’una cancelleria da reggere, fungeva da redattore capo di un giornale, la Voce della Verità. In Toscana, dove il Governo era stato sempre d’una mitezza che contrastava singolarmente colla ferocia che regnava nel resto della penisola, ed accoglieva dentro una certa misura i fuorusciti per causa di libertà, l’agitazione che tenne dietro alla rivoluzione di luglio, non ebbe significato antidinastico e per un momento s’ebbe l’idea di proclamare Leopoldo II, re costituzionale dell’Italia Centrale. Ma il complotto non trovò molti fautori, essendo osteggiato da Gino Capponi nella cui persona allora s’incarnava la Toscana avida di riforme, ma non sediziosa, mentre i dissidenti, i rivoluzionari, i sognatori della restaurazione della repubblica di Francesco Ferruccio avevano già il loro tribuno e il loro scrittore nel livornese F. D. Guerrazzi. Ma quell’agitarsi di partiti, quel tentativo di stringersi intorno a capi e d’uscire dall’inazione, svegliò lo stesso Governo, che spinto dall’Austria, aveva posto da qualche tempo alla testa del Buon Governo il Ciantelli, una specie di spaventa-liberali. Ma costui, che avrebbe fatto la sua fortuna a Modena o a Napoli, nella gentile Toscana scontentò i ministri e lo stesso Granduca, gente frolla, abituata alle mezze misure, ai cerottini, agli emollienti; e il Ciantelli, dopo una breve reazione, che peraltro non fu macchiata nè da condanne capitali, nè da misure eccezionalmente severe, in mezzo al contento dei liberali che non capivano nella pelle per la vittoria riportata colla sola arma della pubblica opinione, fu posto a riposo, dandogli a successore Giovanni Bologna, un toscano sino al midollo delle ossa, cioè, uomo d’animo moderato, il quale ritornando per poco alle interrotte tradizioni, purchè non si facessero proteste, nè si asserragliassero le vie, nè si gridasse troppo alto, tollerò che le idee liberali continuassero a manifestarsi per vie indirette e non pose il veto nè al Giovanni da Procida, del Niccolini, ch’era una sfida all’Austria, benchè l’indirizzo fosse alla Francia, nè al Guglielmo Tell del Rossini, che in mezzo alle ovazioni d’un pubblico liberale si rappresentava alla Pergola. Pel Bologna l’Austria doveva ritenersi pienamente soddisfatta dal momento che non permetteva al Niccolini di stampare separatamente dal resto delle sue tragedie, il Procida.
Così il Bologna assecondava don Neri Corsini, il quale da oltre sedici anni ministro dell’interno governava con estratti d’oppio, con distinzioni che parrebbero ingenue se allora non fossero state ritenute per la quintessenza d’un abilità di Governo che nel paese aveva fatto le sue prove. Il Governatore di Livorno informando il ministro che in quella città sì voleva formare una Società di matrone avente per iscopo di provvedere all’educazione religiosa, morale e letteraria delle fanciulle, notava che le fondatrici, per quasi una metà, erano acattoliche, e soggiungeva: „Potrebbe essere questa la veduta di fare come suol dirsi un contraltare al Vescovo e al padre Quilici, ambiziosi di stabilire un ritiro per le dissolute penitenti? Cosa che urta la città per più vedute particolari di cittadini. E ciò mi fa sospettare perchè il Vescovo non è nominato ed è affatto estraneo all’affare.„ Ma don Neri che voleva vivere in pace e col Vescovo, col padre Quilici, e colle dame livornesi, non escluse le acattoliche, rispose che permetteva la costituzione della Società, a patto che questa impartisse le sue cure alle sole fanciulle cattoliche. Poco importavagli che dame calviniste, luterane o anglicane si trovassero alla testa del sodalizio. A lui premeva che a Livorno non si gridasse per un po’ di lettura e d’abbaco da insegnare a due tre dozzine di fanciulle. Un certo Rostopulo, capocomico a spasso, supplicava il Governo che gli permettesse d’aprire a Livorno una Scuola di declamazione, alla quale avrebbero prestato il loro concorso in denaro i principali signori di quella città. Don Neri permise l’apertura della scuola, ma a condizione che le sottoscrizioni si raccogliessero privatamente, e privatamente s’inaugurasse la scuola, senza programmi nè avvisi, ma alla sordina, quasi che poche schede di sottoscrizione portate in giro per la città l’annunzio della recita dell’Oreste dell’Alfieri o della Locandiera del Goldoni, potessero turbare il sonno al Governo del Granduca.
Ma tempestando l’Austria che non trovava di suo gusto quella politica di decotto di papaveri e di lattughe, non di carceri e d’esili con un pizzico di forca, il vecchio Fossombroni, che allora era alla testa del Governo, senza farsi l’emulo dei sanfedisti di Modena, chè non aveva nè animo nè abitudini pel mestiere di birro, strinse i freni, e a Siena il Marzucchi, professore di quella Università, perchè di sentimenti liberali, fu destituito e privato della pensione; la qualcosa provocò una fiera protesta da parte della cittadinanza senese e il Marzucchi fu nominato dal Municipio Direttore della Biblioteca Comunale. Avendo preteso il Corsini che alla censura fossero preventivamente sottoposti i lavori da leggersi nell’Accademia di quella città, questa, pur di non ottemperare all’ordine del ministro, si sciolse. A Pisa fu soppresso l’Educatore del Povero fondato da studenti e furono chiuse le scuole di mutuo insegnamento, aperte in quelle campagne da privati cittadini in riputazione di liberali. Al Nistri, libraio, che a somiglianza del Vieusseux aveva ottenuto il permesso d’aprire in quella città un Gabinetto Letterario, fu revocata la licenza. Al Niccolini che pure aveva potuto far recitare il Procida, si proibì di far recitare e di stampare il Lodovico il Moro, e al prof. Tardini non si volle permettere che mandasse alle stampe gli elogi del Sestini, del Del Rosso e dell’Uccelli già da lui letti, senza che casa d’Austria passasse un brutto quarto d’ora, all’Accademia dei Georgofili. Infine, quasi che la gara negli studi letterari potesse guastare la digestione al principe di Metternich, il Governo soppresse il premio che da parecchi anni dispensava l’Accademia della Crusca.
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Era un vento di reazione che soffiava allegramente da Palazzo Vecchio, e dinanzi al quale l’Antologia, presto tardi, doveva piegare il capo. Nel Programma del 1829 il Vieusseux aveva scritto: „Sarà sempre nostra cura che le voci Umanità, Filosofia, Amor di Patria, Gloria, non siero vuote.„ In quello del 1830: „Far conoscere all’Italia i progressi, più o meno certi, più o meno generali di europea civiltà, far conoscere l’Italia agli stranieri e l’Italia a sè stessa; difendere le sue glorie, incoraggiare i suoi sforzi... additare ai pensieri degli italiani uno scopo non mai municipale; ecco ec., ec.„ Ma se le tendenze liberali e nazionali del giornale sfuggivano al Fossombroni e al Corsini, i quali, come abbiamo detto, a meno che non fossero svegliati da Vienna dormivano della grossa, non passavano inosservate alla vigile e sospettosa Polizia austriaca che interdisse l’entrata del fascicolo del settembre 1832 nel Regno Lombardo-Veneto. La scomunica era il preavviso della soppressione; e difatti la Cancelleria viennese, il 1° febbraio 1833, per mezzo del Ministro di S. M. I. e R. alla Corte Granducale, il conte Senfft-Pilsach, denunziava al Fossombroni l’Antologia come un giornale di tendenze pericolose e rivoluzionarie. Ma quali erano gli articoli o meglio le parole che l’Austria incriminava, mentre non avevano punto offeso i nervi della censura toscana? Il signor Ministro austriaco non mancò di mettere sotto gli occhi di S. E. Fossombroni le frasi incendiarie. Nientemeno, in un articolo, parlandosi del Romagnosi, si diceva che „col continuo rivolgere ed avvicendarsi di speranze e timori, di potenze italiane, conservò l’anima intemerata e con virtuosa rassegnazione sopportò le ingiustizie e la povertà.„ In un secondo articolo, discorrendosi dell’opere di Silvio Pellico, si diceva: „Ma un’immensa sciagura s’addensò su quel capo, ed un lungo silenzio successe a quel canto, (cioè, alla Francesca da Rimini) che risuonando sempre in ogni animo, risvegliava la pietà e il desiderio dell’infelice.„ Infine, in un terzo articolo, rendendosi conto della Storia d’Italia di Cesare Balbo, si parlava dei diversi dominatori della penisola, aggiungendosi un „taccio del Tedesco per la stessa sua lontananza colpevole, ora ignorante e sospettoso e goffo, ora vile e barbaro.„ Ma già i sospetti della Cancelleria di Vienna avevano reso più cauta la censura toscana. Don Mauro Bernardini, scolopio, censore quasi innocuo, di manica larga, incapace di scrutare uno sritto al di là del suo senso letterale, ora, contro il suo solito, diveniva diffidente, minuzioso, incontentabile, e il fascicolo dell’Antologia del novembre 1832, sottoposto ad esame particolareggiato, dapprima dal censore, poi dal Corsini in persona, non fu licenziato a tempo per essere distribuito nè in quel mese, nè nel dicembre successivo, di maniera che insieme a quello di quest’ultimo, fu pubblicato, con non lieve dispendio del Vieusseux, che ebbe a rinnovare fogli o ad apporre carticini, nel gennaio del 1833. E fu l’ultimo. Di tale ritardo il Vieusseux, che ignorava le ingiunzioni austriache, non sapeva darsi pace e più ancora del rigore inusitato della censura; cosicchè 10 febbraio se ne lamentava rispettosamente in una sua lettera al Corsini: „A dire il vero da alcuni anni a questa parte non ho avuto generalmente parlando che da lodarmi del contegno dell’I. e R. Censura e dell’onesta libertà che mi si lasciava; ma ora nell’occasione di dover pubblicare il doppio fascicolo di novembre e dicembre 1832 mi trovo vittima d’un rigore... Esso non ha potuto essere pubblicato che in questi ultimi giorni e con tali mutilazioni che ho dovuto spendere lire 300 per ripararvi. Siamo inoltrati nel mese di febbraio e non ho potuto ancora tirare che pochi foglietti del fascicolo di gennaio.... Io presento a V. E. le bozze a stampa d’una lettera che penso di premettere al primo fascicolo del 33.„
Nella lettera che il Vieusseux sottoponeva al giudizio del Corsini, c’era un passo intorno al progresso, informato a sentimenti schiettamente liberali. Vi si sentivano le teorie di recente professate in Francia dal Guizot sullo svolgimento dell’umano incivilimento. Si figuri il lettore il viso che ebbe a fare alla lettura d’una tale digressione sfacciatamente rivoluzionaria il povero don Neri, al quale i moniti del signor conte Senfft-Pilsach avevano fatto perdere appunto in quei giorni l’appetito e messo in corpo la melanconia; ma il Ministro che non amava governare colle arti del principe di Canosa, restituì la lettera al Vieusseux, colla sua approvazione, che ricusò solo al famoso passo sul progresso, che volle fosse soppresso, benchè buono, incoraggiando nello stesso tempo il direttore dell’Antologia a proseguire la pubblicazione del giornale, scartando però gli argomenti di politica e le allusioni all’Austria, mentre prometteva che sulle rose nostrali sarebbe stato più andante.
A don Neri, nella sua incuranza di Ministro degli interni punto rigoroso, pareva ora che potesse dormire tranquilli i suoi sonni. Aveva riveduto da sè, scrupolosamente, sottoponendo coll’immaginazione ogni frase, ogni parola al signor conte Senfft-Pilsach, l’ultimo fascicolo (quello doppio) dell’Antologia, aveva soppresso parole, periodi, sinanco pagine intiere. Onestamente non si sarebbe potuto pretendere di più dal Ministro imperiale.
Ma il povero don Neri aveva fatto i conti senza l’oste; e l’oste, in questa occasione, era la Voce della Verità di Modena, che gli giuocò un tiro birbone. Senta un po’ il lettore. Col corriere dell’Alta Italia arrivato a Firenze la mattina del 23 marzo 1833, si distribuì il N.° 254 di quel giornale-libello e S. E. Corsini ebbe in viso a divenir paonazzo, quando sotto il titolo: „Ciò che ho appreso leggendo l’ultimo Fascicolo dell’Antologia„ lesse un articolo con che il Vieusseux si coglieva in flagrante reato di alto tradimento e di fellonìa, nientemeno che contro le sacre persone degl’Imperatori d’Austria e di Russia! Corbezzoli! Nè quelle del fogliettucciaccio sanfedista erano asserzioni destituite di fondamento; l’accusa aveva proprio la sua base, e seria; il reato c’era, e sarebbe stato cieco chi si fosse ostinato a non vederlo; soltanto lui, don Neri, Ministro dell’interno, vecchio uomo di Stato, colle orecchie ancora piene del linguaggio imperioso del Ministro austriaco, non aveva visto nulla! C’era da perdere la testa. Meno male se non avesse visto nulla lo scolopio don Mauro; ma lui, don Neri! Gli pareva persino impossibile! Non risulta dai documenti esistenti nell’Archivio di Stato se in quel giorno il Fossombroni abbia ricevuto, insieme alle visite, le proteste dei Ministri d’Austria e di Russia pel nuovo e più grave reato commesso dall’Antologia; risulta però che il Fossombroni chiamò a sè, d’urgenza, il censore e il fascicolo incriminato, e così il capo del Governo potè da sè stesso apprendere come non ostante gli occhi d’Argo della Censura e della Polizia, un giornale corretto, mutilato, sottoposto ad esami minuti, potesse offendere ad un tempo e Sua Maestà Imperiale Ortodossa e Sua Maestà Imperiale Apostolica.
Ma qual’era il doppio crimine di cui s’era resa responsabile l’Antologia?
Ecco qua: nel Bollettino Bibliografico (la parte meno sospetta d’un giornale letterario d’allora) si leggeva un articolino sul Pietro di Russia, poema che aveva in quei giorni pubblicato P. A. Curti, e il giornalista, che si segnava colla iniziale L. scriveva, rivolto ai poeti del tempo: „Parlate di Pietro, di Federigo, di Bonaparte (per non uscire dalla storia moderna); narrate le giornate di Parigi, di Bruxelles e di Varsavia, e quale anima non è accesa, esaltata, compresa del più alto entusiasmo?„ Certamente l’articolista non aveva a caso riunito il nome di Pietro di Russia e le giornate di Varsavia, e forse dovette a tale insalata cappuccina se il significato, o meglio, la tendenza rivoluzionaria dell’articolo, sfuggì all’esame del Censore e del Ministro; ma dopo il commento che vi ricamò sopra la Gazzetta Modenese, ogni dubbio era impossibile; l’Antologia aveva proprio glorificato insieme alle giornate di Parigi e di Bruxelles, quelle di Varsavia!
E questo per la Russia.
Nello stesso Bollettino, il critico ordinario dell’Antologia che si segnava colle iniziali K. X. Y. rendendo conto d’una traduzione dal greco di Pausania, scriveva: „I Romani (scrive Pausania) sentirono pietà della Grecia.... Un pretore mandavasi tuttavia in Grecia a mio tempo... non lo chiamavano pretore della Grecia, ma dell’Acaja (il Regno Lombardo-Veneto).„
Qui il reato non si nascondeva che nella parentesi e ci volevano proprio gli occhi d’un poliziotto della scuola del principe di Canosa per iscoprirlo; ma il reato c’era. Evidentemente paragonandosi il dominio dei Romani in Grecia a quello degli Austriaci in Italia, si voleva discreditare quest’ultimo.
Il Fossombroni non poteva restare colle mani in mano ed agì subito per mezzo di don Neri.
Questi, l’indomani del giorno in cui fu distribuito a Firenze il n. 254 della Voce della Verità, ordinò al cav. Bologna, Presidente del Buon Governo, che chiamasse a sè il Vieusseux e lo invitasse a declinare nome e cognome degli autori dei due articoli incriminati. Il Bologna, dopo d’avere ottemperato agli ordini del ministro, ne rendeva conto a don Neri col seguente rapporto riservato:
„Ieri sera richiamai il Vieusseux per eseguire la commissione ricevuta da V. E. nella scorsa mattina.
„Alla prima fattagli domanda d’indicarmi i nomi e cognomi degli autori degli articoli contenuti nell’ultimo fascicolo dell’Antologia pubblicato li 31 gennaio ultimo e più precisamente di quelli aventi in fondo le lettere K. X. Y. e L. mi replicò, senza punto esitare che ciò era impossibile, perchè il direttore d’un giornale non poteva mancare alla buona fede verso i suoi collaboratori, e mentre era giusto che esso direttore restasse esposto dirimpetto al Governo a tutta la responsabilità relativa, non poteva nè doveva, senza macchiarsi d’un tradimento, portare in verun caso questa responsabilità sopra coloro che mettono la loro fiducia su di lui. Disse che era di questi articoli come di confessione e che il sigillo non poteva essere da lui violato, nè lo sarà giammai, qualunque cosa disgustosa potesse accadergli, non esclusa la soppressione del giornale, a cui con tutta rassegnazione e buona volontà si sarebbe sottomesso.
„In una esortazione non disgiunta dalla minaccia che il Governo avrebbe adattato delle misure per renderlo più docile ed obbediente agli ordini che per mio mezzo gli venivano ingiunti, non risparmiai nessun mezzo per indurlo a manifestare i succitati nomi; tutto fu inutile, ripetendo sempre che il Governo doveva riguardare a tutti gli effetti come suoi gli articoli del suo giornale, che sopra di lui soltanto doveva e poteva prendere quella soddisfazione che nella sua giustizia e saviezza credesse onesta, e che da lui non si poteva esigere di più ed avrebbe sempre detto e sostenuto che quelle lettere iniziali erano puramente immaginarie è che gli articoli erano suoi.
„In questo stato di cose credei che fosse inutile il trattenerlo, persuaso ch’esso avrebbe perdurato a persistere fino in fondo nel suo proposito, e credei di licenziarlo dichiarandogli autorevolmente che la cosa non sarebbe finita qui, e che esso avrebbe dovuto render conto del suo inqualificabilissimo rifiuto. E se mi fosse permesso d’esprimere rispettosamente il mio parere, direi che Vieusseux dovesse essere inviato davanti il Commissario del quartiere di Santa Croce per ricevervi formali ingiunzioni non lasciando di dichiarargli la sospensione della facoltà di continuare la pubblicazione del giornale, finchè non avesse corrisposto a ciò che il Governo esige da esso.„
La condotta del Vieusseux non poteva essere più corretta, più nobile. Colle sue risposte ferme, improntate alla più sincera franchezza, egli dava una lezione d’onestà all’illustrissimo signor cavaliere Bologna, il quale, poveretto, non capiva, malgrado le sue dichiarazioni spippolate con tòno autoritario, come in quel colloquio chi ci rimetteva e dignità e riputazione di galantuomo fosse proprio lui che in nome del Governo pretendeva che il Vieusseux, tradendo i suoi redattori, si facesse spia!
Di quel colloquio ecco come lo stesso Vieusseux rese conto in certi foglietti, dove giorno per giorno narrò i fatti che accompagnarono e seguirono la soppressione del suo giornale:
„Alle ore 6 1/2 pom. il Presidente del Buon Governo mi ha fatto pregare di passare da lui. Ecco il colloquio.
P. Signor Vieusseux, ho da farle una comunicazione da parte del Governo.
V. Io sono qui per ascoltarla.
P. Il Governo vorrebbe conoscere i nomi di quelle persone che scrivono nell’Antologia, che sono anonime, oppure non pongono che semplici lettere o segni di convenzione sotto i loro articoli.
V. Mancherei all’onore e alla delicatezza nel palesarle i nomi di persone le quali amano di rimanere anonime e confidano nella mia discretezza e lealtà.
P. Ma si tratta d’un desiderio dell’I. e R. Governo.
V. Quando si tratta dell’onore non si cede a nessuna considerazione.
P. Ma rifletta che lei nega al Governo, e ci pensi meglio.
V. Quando si tratta dell’onore, il primo movimento è sempre il migliore.
P. Ma non si tratta che d’una comunicazione confidenziale.
(Sempre avevo parlato con calma; qui il sangue principiò a montarmi al capo).
V. Io sono dolentissimo della necessità di negare qualche cosa al Governo; se si trattasse di divertire S. A. I. e R. con un racconto d’un semplice pettegolezzo letterario, e che S. A. fosse curiosa di sapere il nome d’un tal poeta d’un tale pedante posto in ridicolo da una polemica letteraria, io non crederei di commettere un delitto dicendolo all’orecchio di S. A. Ma dopo d’aver veduto l’infame libello vomitato in Toscana da quella canaglia della combriccola di Modena (il famoso num.° 254 della Voce della Verità); quando non posso ignorare che intenzione di quella gente è rendere me ed i miei amici sospetti al Governo, non sarei io l’uomo più vile del mondo palesando i nomi di galantuomini che si fidarono di me?
Io non so se il Governo mi ami quanto vorrei esser da tutti amato, ma ho la coscienza ch’egli mi deve stimare. Io non voglio perdere la sua stima, facendomi delatore.
P. Badi, il Governo potrebbe adoperare per ottenere il suo intento dei modi che a lei saranno poco piacevoli.
V. Non sono nel caso di partirmi dalle mie prime determinazioni.„
Don Neri, che in tutto questo buscherìo non capiva come il vero e solo colpevole fosse soltanto lui che aveva dato il suo visto agli articoli incriminati, in mancanza di meglio, adottò il consiglio datogli dal Bologna, e ordinò che il Vieusseux, in via economica, comparisse dinanzi il signor Commissario del quartiere di Santa Croce, sperando forse in un atto di resipiscenza del coraggioso editore; ma questi non era uomo da recitare il mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa, e comparso dinanzi al commissario Tassinari, tenne duro.
Ecco intanto le contestazioni fatte al direttore dell’Antologia non che le risposte fatte da quest’ultimo e tolte da quei tali foglietti:
C. Sappia che lei si è reso colpevole d’ingiurie nefande riguardo a S. M. l’imperatore delle Russie per le allusioni fatte alle cose di Polonia in un articolo firmato L. sopra il poema del Curti.
V. Protesto altamente contro simile falsa, sinistra ed ingiusta interpretazione; bensì è stata colta l’occasione naturalissima che mi si presentava, di manifestare un sentimento generoso di compassione per la nazione polacca.
C. Lei è colpevole d’ingiurie verso S. M. l’Imperatore d’Austria per avere in un articolo firmato K. X. Y. sopra la traduzione di Pausania stabilito un confronto fra la Grecia e l’Italia e dato ad intendere che gli austriaci trattano l’Italia come i Romani trattavano la Grecia.
V. Protesto contro siffatta interpretazione.
C. Ha ingiuriato inoltre le varie potenze dell’Italia, facendo supporre che esse sieno sotto la dipendenza dell’Austria.
V. Protesto.
C. Chi si nasconde sotto le lettere L. e K. X. Y?
V. Non ho il diritto di dirlo.
C. Non teme lei le conseguenze del suo rifiuto?
V. No; 1° perchè non ho mai stampato cosa che non avesse pur riportato il permesso dell’I. e R. Censura; 2° perchè in Toscana non si ammette altra responsabilità se non quella del tipografo, che non ha altro dovere se non di vedere se i manoscritti sono approvati; 3° perchè il fascicolo di dicembre dell’Antologia è stato approvato non solo dal censore P. Bernardini ma anche da S. E. Corsini ministro dell’interno, che mi obbligò a tante castrazioni, mutilazioni e numerosi carticini. Come vede, in tutti i casi i colpevoli sarebbero tre: l’editore, il P. Bernardini e S. E. Corsini.„
Conosciutosi a Palazzo Vecchio il rifiuto del Vieusseux, il ministro, presi gli ordini del Granduca, scriveva sotto il giorno 26 marzo al Presidente del Buon Governo:
„Essendo stato reso conto a S. A. I. e R. che il giornale che si pubblica in Firenze sotto il titolo di Antologia ha deviato manifestamente dall’oggetto che aveva annunziato in principio, cioè di trattare le materie di scienze, letteratura ed arti, e che sistematicamente trascorre in discussioni politiche ed anche parlando di materie scientifiche e letterarie vi associa allusioni riprovevoli ad istituzioni o avvenimenti politici, è venuto l’I. e R. A. S. nella determinazione di ordinare la soppressione del detto giornale, fino da questo giorno.„
L’ukase corsiniano fu comunicato al Vieusseux dal Commissario di Santa Croce colla seguente nota:
„L’illustrissimo Commissario del Quartiere di Santa Croce fa notificare in seguito ad ordine superiore al sig. G. P. Vieusseux direttore proprietario del giornale che si pubblica a Firenze, sotto il titolo d’Antologia, che S. A. I. e R. ha fino da questo giorno ordinato la soppressione del giornale medesimo.„
⁂
Autori dei due articoli bibliografici che avevano provocato la soppressione dell’Antologia, erano Niccolò Tommasèo (K. X. Y.) e Luigi Leoni (L.) A quest’ultimo, che occupava un modestissimo ufficio governativo, non parve vero che avesse posto al sicuro quel tozzo di pane col quale sostentava anche la famiglia, dietro la responsabilità del Vieusseux; ma al Tommasèo, animo libero e sdegnoso, quel salvare sè stesso alle spalle degli altri non talentava; e fu allora ch’egli, ispirandosi alla sola nobiltà del suo carattere volle che tutta la colpa, compresa quella del Leoni, cadesse sul proprio capo. E al Granduca diresse la seguente generosissima istanza che forma una splendida pagina del libro d’oro del giornalismo italiano1.
„Altezza Imperiale e Reale!
„Le amichevoli preghiere del signor Vieusseux direttore dell’Antologia, gli istanti consigli di altri amici che affermavano la mia dichiarazione inutile, e forse dannosa al giornale; il pensare che a tutti i lettori di quello essendo ben noto di chi fossero gli articoli segnati K. X. Y, ripeterlo da me sarebbe potuto sembrare boriosa provocazione; la speranza che trattandosi di scritti approvati da un rispettabile censore e da uno zelante ministro, le cose avrebbero sortito altra fine; la speranza ancora più ferma che procedendosi per vie ordinarie e legali io avrei avuto il tempo di sodisfare alle mie convenienze senza nuocere altrui, queste ed altre ragioni mi tennero dal dir cosa, che l’amor mio mi comandava professassi altamente. Ora il bisogno di rigettare da me ogni sospetto di fiacca timidità, il bisogno di far noto che la persistenza a negare del sig. Vieusseux non era atto indocile ma generoso, la speranza la quale pure mi resta nella giustizia di V. A. R. che conoscendo l’incolpato, sopra di lui solo Ella vorrà portare il giudizio inflitto sull’intiera Antologia, m’impongono di protestare che non solamente gli articoli segnati K. X. Y. sono miei, ma che io soglio per capriccio segnare d’altre sigle i miei scritti, onde se nell’articolo sul poema del Curti è cosa imputabile, io di buon grado ne chiamo sul mio capo la pena, e per guarentigia dell’avvenire prometto e giuro, se è necessario, di non più scrivere in un giornale di cui desidero continuata la vita, perchè la sua vita è sussistenza di più che quaranta persone, perchè il suo giudizio era invocato e rispettato dai dotti d’Italia, perchè le sue parole erano amorevolmente ripetute dai giornali di Lombardia, di Francia, d’Inghilterra e d’Austria, perchè non arrossirono di scrivere in esso i più chiari uomini della Nazione, e non pochi dei più quetamente pensanti, Cesare Lucchesini, e fino nell’ultima malattia G. B. Zannoni, e il Cibrario e il cav. Manno, ministri del re di Sardegna, perchè la sua „lode era ambita dagli stessi governi. Il quale onore, quanto in meno ridonda in me, il più insufficiente dei suoi collaboratori, tanto più volentieri debbo in me solo accogliere le conseguenze che ad esso dalle mie parole provennero.
„N. Tommasèo.„
Intanto il Vieusseux sporse un’Istanza al Governo perchè almeno fosse indennizzato della spesa incontrata nella stampa dei Fascicoli del gennaio e febbraio 1833. Ma al Corsini, che non rifiutava in massima l’indennità, non parve che fosse opportuno di dar corso alla domanda nei termini nei quali era stata redatta, come risulta dal colloquio che il Vieusseux ebbe col Ministro e dal primo riportato fra i suoi appunti nel modo seguente:
„Min.° Non posso ricevere questa domanda in questa forma. Faccia in poche righe una supplica a S. A. e sarà mia cura di presentarla.
Io. Ridurrò la mia domanda; mi permetto però di farle osservare che non mi pare che la mia lettera contenga nulla di contrario al vero.
Min.° La lettera contiene proposizioni ch’io dovrei combattere e... e... particolarmente in ciò che dice d’aver perduto una proprietà. Che proprietà! Che proprietà! Creare un giornale non è una proprietà! E il Governo come dà il permesso, può anche ritirarlo, e fa quel che vuole e quel che crede bene. Non è come se si trattasse di un pezzo di campo, preso per fare una strada, e che bisognerebbe pagare.
Io. Chiedo perdono a V. E. Ma un giornale frutto di dodici anni di fatiche e di sagrificî d’ogni genere, dopo tanti anni d’esistenza, costituisce una vera proprietà. Non è territoriale, ma è proprietà letteraria; ed ammesso il diritto di proprietà, esso è sacro nell’uno quanto nell’altro caso. Del resto farò quanto mi dice V. E.„
Il Governo Toscano ordinò di rilevare al prezzo d’associazione in lire 3335 i Fascicoli di gennaio e febbraio 1833, stampati, ma non pubblicati, e lo stesso giorno in cui il Presidente del Buon Governo firmava l’ordine di pagamento, il Gran Duca rigettava l’istanza del Vieusseux diretta a pubblicare a Firenze un Indicatore Bibliografico.
⁂
La soppressione dell’Antologia provocò in Toscana commenti e mormorii. Il partito reazionario, che in quell’atto vide una propria vittoria, ne fu contento. Il 28 marzo, l’Ispettore di Polizia di Firenze, riferiva al Presidente del Buon Governo che la misura recentemente adottata dal Governo aveva sparso il malumore e la rabbia fra i liberali, che avevano proposto di fare una dimostrazione sotto palazzo Pitti, ma che ne erano stati distolti da alcune savie persone del partito. Con altro rapporto riferiva che era stato staccato dai muri della città un cartello che terminava così: „ Questo giornale (l’Antologia) che da dodici anni sostiene il lustro della letteratura italiana è una proprietà della Nazione. Il Duca di Modena volle toglierla. Il Granduca di Toscana ha avuto la viltà di obbedire al Luogotenente dell’Austria.„ Altri rapporti dicevano che il cartello stampato e distribuito era stato anche trovato nella cassetta delle suppliche pel Principe. Infine, a Firenze, a Pistoia, a Pisa, in altri luoghi della Toscana, circolò la seguente poesia, più tardi erroneamente attribuita al Giusti.
NUOVO TEATRO
all’i. e r. palazzo dei pitti.
Avviso.
Si annunzia ai Fiorentini |
E di Modena il Duca è l’Assistente. |
E siccome allora in Toscana tutto finiva con un’epigramma, così anche la soppressione del giornale del Vieusseux ebbe il suo. Eccolo quale lo troviamo fra le carte segrete dell’Archivio della Presidenza del Buon Governo.
Alla mente sovrana |
Note
- ↑ La istanza colla firma autografa del Tommasèo, trovasi ora fra le carte del Vieusseux, presso la Biblioteca Nazionale di Firenze: la quale circostanza fa supporre come la dotta istanza consegnata dal Tommasèo al Vieusseux, non sia mai stata da questo inoltrata al sovrano. Vedi il nostro articolo: La Soppressione dell’Antologia nel Fanfulla della Domenica del 19 settembre 1889.