Meditazioni sull'Italia/Seconda parte/Gennaio
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GENNAIO
Delle regole e dei sottintesi
La mancanza di regole è inebbriante e pericolosa perchè tormenta l’uomo collo spettacolo continuo di una scelta che non ha fatto.
Delle Regole e dei Sottintesi
1 Gennaio
Il malessere dei letterati italiani è dunque il frutto di un atteggiamento che spegne in loro la volontà di ammirare. Vivere uno contro l’altro non è facile, nè umano, e le nostre élites stanno naufragando nella loro solitudine morale. Dico naufragando perchè questo orgoglio appunto è la fonte di un disfacimento in cui non si inaridisce soltanto negli uomini la volontà di ammirare, ma si priva la letteratura italiana di un altro lievito: i sottintesi.
Una civiltà non può dare un sentimento di benessere agli intellettuali che con due presure: l’ammirazione e i sottintesi. Un mondo in fiore si distingue da un mondo in travaglio non perchè abbia dei principii più grandi e saggi, ma perchè ha dei sottintesi più universali, e cioè dei fondamenti che tutti rispettano senza saperlo e quindi senza discutere. Nei tempi di decadenza questi principi non sono, come si crede, più malati — spesso anzi sembrano stranamente salutari — ma sono sempre pubblici e discussi, si contraddicono, mutano spesso. Invece, nelle grandi epoche, questi sottintesi governano il ritmo di una civiltà matura come divinità segrete.
8 Gennaio
Dico sottintesi e non principi. Perchè come due persone che vivono insieme e per ragionare con profitto devono mettersi d’accordo su certi principi fondamentali e poi non citarli più quando discutono, nè tanto meno rimetterli in dubbio, così una civiltà, per svilupparsi e fiorire, deve nutrire un’infinità di principi comuni a quasi tutti, e sottintesi, in modo da evitare le sterili discussioni di principio. Le discussioni di principio non portano a nulla. Quando due persone non s’intendono, poniamo, sul buono e sul bello, non potranno arrivare a nessuna critica concorde, non potranno stabilire nessun punto fisso nel mare delle azioni umane e delle opere d’arte. Ma capita, quando questi concetti fondamentali si annebbiano, si indeboliscono, sono discussi — che la gente se ne approfitta, e sfrutta l’incertezza in cui il sottinteso li lascia, per imporre come universale qualunque legge gli torni di conto.
In questo caso è opportuno ridiscutere i principi fondamentali. Sono le epoche più ingrate; in cui nello sforzo di ritrovare un accordo su cui poi costruire, si esauriscono tutte le nostre energie intellettuali.
10 Gennaio
Nel secolo xix c’era in Italia sottinteso un
concetto molto rigoroso di romanzo. Non si discuteva affatto di come doveva essere un romanzo. Ora i critici nostri, approfittando del vago in cui il concetto di romanzo è caduto, costruiscono a piacere.
Un altro esempio: il romanzo francese. Quelli che han tradotto in francese Dostojewski in questi ultimi 25 anni, non avevano probabilmente un’idea teorica del romanzo francese, ma ne avevano in pratica un’idea così vigorosa e così francese che davano ai «Fratelli Karamazov» l’aspetto d’un romanzo di Flaubert. E a torto il pubblico avrebbe deplorato queste mutilazioni: i romanzi ci guadagnavano ed erano un segno della vitalità dei sottintesi.
12 Gennaio
Ogni tanto si trova un uomo che prende su di sè la funzione magnifica e difficile di svelare i sottintesi. In Francia, nei nostri tempi, quest’uomo è Benda.
Un libro molto importante di Julien Benda «Belphégor» permette di stabilire quali furono i sottintesi che regnarono fino a dieci anni or sono. « Ci sembra — dice Benda — che l’estetica della società francese attuale, più precisamente la sua volontà estetica può esprimersi con una frase: la società francese esige oggi dalle opere d’arte delle emozioni e delle sensazioni, essa esclude dal suo campo ogni piacere intellettuale. Benda, esagerandolo forse, ha svelato uno dei grandi sottintesi di questi ultimi venticinque anni la volontà che l’arte sia unione mistica con l’essenza delle cose; il culto della percezione immediata, dell’istinto; il desiderio che le cose siano presentate nel loro movimento, nella loro penetrazione reciproca, in quella loro decentralizzazione della coscienza che Benda chiama « sensibilità musicale ». Questa indifferenza all’arte che non si occupa dell’anima umana e a quella che non gliela presenta « extra-lege »; quest’odio di qualunque « determinismo », questa « ricerca dell’emozione improvvisa », questa « sete di novità », questa « volontà che la critica, la storia, la scienza, la filosofia siano commoventi; questo panlirismo, questo « antiintellettualismo » infine, non son forse stati le fondamenta ignote e profonde, i sottintesi d’un quarto di secolo? Che siano stati buoni o cattivi, questa è un’altra faccenda: non è meno vero che essi hanno imposto alla produzione dell’epoca nostra, una rigorosa linea di sviluppo. E Barrès, Loti nella letteratura, Maeterlinck nel teatro, Debussy nella musica, Carrière nella pittura e magari anche Henry Bergson, sono forse un’emanazione di questi sottintesi. E’ difficile di distinguere sempre, in che modo Barrès, Loti, Maeterlinck, Carrière, Debussy, e sopratutto Bergson hanno contribuito a dare un aspetto preciso a questi sottintesi di cui erano una meravigliosa emanazione. Ma credo ugualmente che non si può negare, considerando le arti della fine del secolo XIX°, e dell’inizio del XX° la funzione di questi sottintesi. Ora stanno per cambiare. Il successo di Julien Benda ne è la riprova. E se non esistesse nel pubblico un’orientamento nuovo, come si potrebbe spiegare la eco straordinaria che certe idee di Valéry e di Gide hanno avuto e l’influenza profonda di un filosofo come Alain? I sottintesi sono delle leggi sovrane, ma un soffio può distruggerle o trasformarle. Sepolti in quella zona misteriosa della vita intellettuale in cui arriva raramente la luce, i sottintesi possono corrompersi o modificarsi senza che il pubblico se ne accorga. Ma buoni o cattivi devono esistere perchè si possa creare. Come? Dando agli artisti e al pubblico dei limiti senza esprimerti in regole.
La mancanza di regole è inebbriante e pericolosa; la regola è dura e spiacevole, e l’uomo che ha fatto naufragio nell’illimitato e s’è contuso contro la regola, ha nello stesso tempo paura della libertà e delle catene. Passa così da un estremo all’altro, stancandosi volta a volta d’essere un padrone inquieto e un pacifico servo, mendicando dei limiti e fuggendo le grandi leggi che glieli possono offrire.
Mio padre ha spesso rappresentato nei suoi libri i pericoli dell’illimitato, il dramma di un pensiero libero da costrizioni, l’inquietudine sterile di un mondo che ha bisogno, nel campo delle arti plastiche per esempio, di capire nello stesso tempo l’arte dei negri e quella dei romani. Io credo che la mancanza di regole è inebbriante e pericolosa perchè tormenta l’uomo con lo spettacolo continuo di una scelta che non ha fatto.
14 Gennaio
Vorrei precisare, se è possibile, questa idea. Perchè gli uomini, sopratutto gli uomini moderni hanno tanto orrore dei limiti che sono la loro salvezza? Perchè questi limiti possono distruggere tutta la forza della creazione se prendono la forma di regole troppo severe. Come potremmo noi esprimere efficacemente le nostre idee se dovessimo continuamente preoccuparci delle regole grammaticali?
La regola può riuscire nel tempo stesso riposante e mortale. Un’opera d’arte non esiste in sè; è l’espressione di sensazioni che col mutar del tempo, della luce, della posizione o dell’umor nostro muta come sostanza. Un’opera d’arte è la cristallizzazione attorno a un nocciolo creato da un artista di mille sentimenti, di mille riflessi, di mille risonanze, di mille interessi, di infiniti giochi di luce. Una regola, un principio sono incisivi, netti, indifferenti; stanno dinnanzi agli uomini come dei monumenti; gli scrittori o gli artisti li possono evitare, considerare o discutere, ma bisogna sempre che se ne ricordino. Ora poiché se in un’opera d’arte si sente il ricordo di una regola, la commozione si inaridisce, l’artista dopo qualche tempo di tirocinio maledice nella regola la colpa del suo fallimento e se ne svincola. E’ necessaria una grande forza per esprimere qualunque concetto in cinque atti e in versi senza attutirne la freschezza. Gli antichi hanno avuto questa forza perchè queste regole sembravano a loro così ineluttabili che neppur concepivano di potersene esimere. Il loro candore in questo senso fu la sorgente precipua della loro forza.
15 Gennaio
Altro esempio. Gli scultori del quattrocento si erano posti alcuni problemi limitati, avevano cercato di esprimere alcuni concetti limitati; ma non avevano mai pensato alla possibilità di superare quelle barriere che essi stessi avevano saggiamente costrutte. Perchè arte classica è quella che ha coscienza dei proprii limiti. Venne Michelangelo che non fu soddisfatto delle soluzioni; e affannandosi nel ricercare qualcosa di sempre più profondamente interiore tentò di esprimer l’inesprimibile. Egli fu un genio, ma una volta aperta la strada, la schiera degli imitatori divalló giù per la china.
E da Michelangelo comincia l’arte decadente. Poiché arte decadente è quella che non ha coscienza dei propri limiti.
Senza dubbio l’arte decadente genera meravigliosi capolavori, ma essa genera il disordine, l’irrequietezza e alla fine l’inefficienza e l’impotenza.
16 Gennaio
Studiando l’altalena della civiltà vediamo che l’uomo non è felice nè quando è futurista nè quando è neoclassico; perchè quando mancano i limiti e la resistenza della materia, si indebolisce, e quando si fa servo di leggi teoriche, dissecca la propria ispirazione.
Quel periodo tormentoso e tormentato del passaggio dal classicismo all’arte decadente, in cui si sente risuonare alle volte come il pianto dell’impotenza e la risata bizzarra del trionfo, mi fa pensare al sole che tramonta e insanguina gli orizzonti coi suoi colori più caldi.
18 Gennaio
Per quanto però io sia convinto che è fortuna vivere in un mondo « limitato » non vedo che si possa arrivare a questa « fortuna » volontariamente, solo perchè si sa che è tale. Da quando l’uomo si è accorto che si può creare al di fuori delle regole, non ha più avuto la forza di seguirle ed è diventato infelice e impotente.
Siamo dei dannati, e per quanto la tragedia espressa da mio padre sia veramente tremenda, se ne può intravedere una ancora maggiore, quella in cui viviamo, nella quale l’uomo ha orrore nel tempo stesso delle regole e dell’illimitato e passa da un estremo all’altro d’un fiato, cercando la felicità nel rovescio della sua sofferenza; ma nè la mancanza di limiti nè il rigore di essi hanno mai fatto una civiltà che dev’essere prima di tutto un’atmosfera di universale benessere. L’uomo è oggi infelice perchè ha sempre da scegliere fra due beni che si escludono.
19 Gennaio
C’è nella creazione artistica una parte di mistero che sfugge al controllo di qualsiasi pubblico — e spesso a quello stesso dell’artista. Nessuno saprà mai spiegare perchè certe letture servano come di improvvise illuminazioni, e aiutino a creare delle opere che appartengono non solo a un genere, ma a un mondo diverso; come certe associazioni di idee, o certi spettacoli naturali, o certe piccole scoperte possano determinare nella vita profonda di un artista il crollo di tutto un sistema spirituale e la risurrezione di un nuovo ordine. Il mondo interiore di un artista è come un ghiacciaio che nel grande silenzio muta da un minuto all’altro il suo gigantesco equilibrio di massi bianchi, per un soffio che nessun uomo potrà conoscere mai.
Ebbene, queste leggi viste dal di fuori, per quanto sembrino preconcette e lo siano, alle volte rappresentano la sola chiave di questo universo misterioso; con una formula si entra non tanto nel pensiero illuminato dell’artista, quanto in quel sottosuolo opaco in cui maturavano le sue opere e si stabiliva l’ordine spirituale da cui sarebbero generate.
Lo stile ha un grande peso in questa materia, perchè serve a evocare, come attraverso a un incantesimo, quei concetti che per essere espressi devono essere soltanto suggeriti. Quelle illuminazioni appunto che fanno splendere a un tratto gli intrighi sotterranei, in cui ogni opera d’arte ha le sue radici, si ottengono soltanto con lo scintillare dello stile.
20 Gennaio
Una civiltà ha come fine supremo di conciliare dei bisogni contradditori; deve cioè soddisfare nell’uomo la nostalgia dei limiti e il suo orrore della regola, e arrivare a una grandezza regolata da leggi che non si conoscono. Ora sono regole anche i sottintesi, regole tanto più potenti e feconde, quanto più sono larghe, invisibili, e benigne. Esse hanno poi questo immenso vantaggio; non c’è bisogno di ricordarsene, e non si possono discutere; guidano misteriosamente gli uomini liberandoli dalla durezza delle regole, tracciano dei limiti che ignorano tutti e non viola nessuno.
23 Gennaio
Esempio: la lingua parlata e scritta. Nessuno può immaginare quando sente parlare un contadino toscano analfabeta, che egli non parli secondo « una regola ». Tanto è vero che egli ride e motteggia quelli che parlano « fuori regola ». Ma lo si meraviglierebbe se gli si chiedesse « la regola » che lo guida. Egli parla a regola di regole che non conosce, che sono « sottintese » a lui, come a coloro che gli hanno insegnato a così ben parlare.
24 Gennaio
Sperduti in quell’oceano deserto che è la nostra civiltà letteraria, gli scrittori e gli artisti italiani non hanno nè l’appoggio del limite, nè il pungolo della regola. Barcollanti e inquieti, si stremano a farsela. Ma quanti architetti riuscirebbero a costruire una cattedrale, se dovessero nello stesso tempo fare i calcoli e portare le pietre?
25 Gennaio
Un esempio mirabile dell’aiuto delle regole, dei sottintesi per creare ce lo dà Lorenzo di Credi.
Lorenzo di Credi fu pittore diligente. Non si curò di lavorare ad opere grandi perchè penava a condurle e vi durava fatica incredibile; anche per delle ragioni di mestiere, e cioè perchè i suoi colori erano troppo finemente macinati; e poiché ricercava inquietamente di aggiungere fra un colore e l’altro le gradazioni men brusche, a forza di nuances faceva sulla tavolozza tante mestiche di colori per arrivare dalla tinta chiara alla scura, che come dice Vasari « n’aveva alcuna volta sulla tavoletta venticinque o trenta; e per ciascuna teneva il suo pennello appartato. » Questa diligenza non piaceva troppo nemmeno al Vasari, poiché scrisse « che essa non è forse più lodevole punto che sia una estrema negligenza». ».
Il primo carattere di Lorenzo è dunque questa diligenza nel pingere — così che fin dai tempi di Vasari gli elogi che si tributano al vecchio pittore finiscon sempre per condensarsi in « pulizia di finitezza » — qualità lodevoli, ma ancor troppo generiche perchè bastino a farlo grande.
Venuto dalla scuola del Credi a quella del Verrocchio, dove trovò la compagnia di Leonardo da Vinci e del Perugino, imitó, con qualche malinconico addolcimento peruginesco, Leonardo.
Le sue tavole sono quiete e miti. I soggetti, che non escono dalla pista delle Annunziazioni, delle Madonne in trono, delle Adorazioni, ordinate dai committenti, sono interpretati pacatamente. E non è a dire che pur sottomettendosi ai soggetti dati, un pittore non potesse esprimere, con l’olio purgato dalla noce e stillato sulle tavolette, il proprio animo compiutamente; basta vedere l’Adorazione di Leonardo da Vinci, perchè — nel tragico fluttuare di uomini ridotti alla carcassa vestita d’ombre, e nell’arruffato delirante galoppare di cavalli misteriosi e improvvisamente invasati, vicino a scale lanciate inutilmente in aria con un senso di smarrimento di inquietudine — si indovini un cuore gonfio di sentimenti enormi e ancora imprecisi, che si svuota in queste figurazioni logicamente prive di senso, cercando tra le infinite forme della natura quelle che hanno una risonanza in lui, come un poeta si ripete ad alta voce certi aggettivi, per vedere se alcuno, nel buio fondo dei sentimenti, provochi una dolcissima voce di consentimento.
Lorenzo di Credi, anima tranquilla, riduce la tragedia cristiana che ha da dipingere, al piano della sua pace. I suoi personaggi hanno quel tanto di umanità che si poteva cogliere senza fatica guardando negli occhi, ogni tanto, le creature di Leonardo.
Nè la tranquillità riposante che essi devono travasare in chi li contempla, come in loro fu versato da chi li dipinse, vien turbata da imprevedute e inquietanti modificazioni dell’ordine consueto in cui la tradizione li pose. I gesti, il sorriso, la composizione stessa, — poiché non è il caso di parlare di anima, dato che non ne hanno una propria, — appartengono tutti a qualched’un altro, sono il sunto e l’armoniosa fusione di atteggiamenti conquistati nel corso di anni dalla tradizione sapiente — e in ognuno di loro, per quel non so che di patinato, stanco e troppo disinvolto che ce li fa guardare senza nessuna meraviglia e con rapidissimo adattamento, affiorano continuamente le conquiste anteriori addolcite dall’uso, come in certe persone si riconoscono le impronte e le mosse degli avi perpetuate.
Che cosa c’è dunque di suo, in quelle tavole che pur si giudicano a prima vista come dipinte da Lorenzo di Credi? Un carattere superficiale e visibile: un colore, l’azzurro. Per quell’azzurro, che rende umida e potabile l’aria delle campagne chiare dipinte oltre le bifore dei fondi, e che si condensa poi, come coagulato e fatto tessile nelle vesti della Madonna, quasi per riportar l’occhio continuamente dall’uno all’altro ed accostarli, si chè il cielo sembri la veste della Madonna sciolta, e la Madonna sembri vestita di cielo rappreso, noi riconosciamo ed apprezziamo Lorenzo di Credi.
26 Gennaio
Questo è dunque un pittore modesto e coscienzioso, che addensa tutta la sua originalità in un colore e la sua bravura nel ricercare venticinque gradazioni di tinte, adoprando per ognuna d’esse un pennello.
Non è forse manifesto che pittori come Mancini, Casorati, o Spadini, irrequieti ricercatori di forme nuove originali, e ognuno per conto suo, nello stile, venuti fuori dai sodi come arbusti selvatici per forza loro, sono più intelligenti che Lorenzo di Credi?
Eppure i loro quadri, esposti accanto a una tavola di Lorenzo, sarebbero da meno.
Ora Lorenzo di Credi ha ben poco merito nell’opera sua, perchè mi par probabile che vivendo oggi sarebbe stato futurista, e neoclassico, come allora fu leonardesco. Il merito ce l’hanno i bottegai, i mercanti, e i signori di quel tempo, i quali senza pensarci obbligarono tutti i pittori a dipingere in una certa maniera, che conosciamo ora come stile del quattrocento, e che fu come dare ai poeti lo schema del sonetto e della canzone obbligandoli a esprimersi attraverso quelle rime necessariamente.
Lorenzo di Credi, pittore privo di iniziative, trovò uno stile nell’aria, un pubblico che glie lo impose fin da piccolo con tanta autorità, che al pittore non frullo nemmeno per il capo la possibilità di mutarlo, una scuola in cui questo stile era insegnato anche come mestiere. Si sottomise allo stile, imparò il mestiere, e ci aggiunse di suo una nota di colore. Così fu che dipinse bene. Ma di Lorenzo non c’è che l’azzurro.
27 Gennaio
La bellezza dell’opera di Lorenzo di Credi viene dal fatto che egli non ebbe a scegliere. Quel senso di pena che proviamo davanti alle opere moderne ci nasce in cuore a veder la fatica della conquista, le incertezze del punto di partenza e un divagare continuo, che ci fanno temere della disinvoltura e della solidità di quello stile. Specie quando l’autore ha l’aria di esserne preoccupato, se lo studia, lo carica e lo assottiglia, con dei flussi e riflussi che sembrano riflettere le critiche, le quali, per rivelare agli artisti stessi il loro stile, li mettono nell’impiccio. Per quanto l’artista si sia impadronito del suo stile a fondo, ci sono li gli altri pittori colle loro maniere diverse a rammentare come non vi sia nessuna necessità logica che imponga all’uno di dipingere nella sua maniera, poiché un altro ha risolto il problema della pittura con una maniera diversa.
Cosicché in fondo Casorati non può essere assolutamente Casorati, perchè Spadini lo patina un pò di Spadini imbevendo di impressioni la retina di un pubblico che andrà a vedere delle architetture di forme differenti, persuadendolo che, visto che si poteva dipingere come dipinge Spadini, Casorati a dipingere come dipinge, l’ha fatto apposta.
28 Gennaio
Esposta in una sala della Biennale Romana o Veneziana, una tavolta di Lorenzo di Credi avrebbe attirato colla sua dolce e crepuscolare bellezza la simpatia e il plauso di tutto il pubblico, il quale, dandole certamente la palma sulle varie opere delle due esposizioni, avrebbe stabilito dentro di sè che Lorenzo di Credi, poiché aveva dipinto il quadro più bello, era anche il più intelligente fra i pittori che si vedessero in quelle sale.
Che le tavole del vecchio dipintore del quattrocento raggiungerebbero in quelle sedi l’eccellenza, è fuori dubbio. Ma è veramente merito suo? O il suo disegno, per quanto l’opera sua fosse migliore non era poi inferiore a quello, per esempio, di Spadini o di Casorati?
La differenza fra Lorenzo di Credi, Spadini e Casorati è che quello visse in tempi in cui c’erano formule — sottintesi — che egli seguì con diligenza, e questi vissero in tempi in cui non ci sono formule, in cui ciascuno deve cercarsele, e esser giudicato da un pubblico incerto e disorientato.
30 Gennaio
La Francia, paese logico, è riuscita a imporsi — quando metteva sulla tavola un principio artistico nuovo o rinnovato che fosse — il dovere di continuarlo fino ad esaurirsi, colmando tutte le risorse che offriva di una certa indiscutibile tenacia. Questo sforzo ci dà un senso di pieno, che appare tra noi durante certi momenti e rinnovella veramente la tradizione dei greci.
L’accentramento geografico dopo la Rinascenza, aiutò a mantenere quella linea continua di svolgimento tra stile e stile, mutandosi con una deformazione graduale insensibile quando stava ormai per diventare maniera e lasciare il campo a una nuova arte.
Cosicché quando una scuola moriva, pareva che proprio avesse dovuto morire in quella porzione di secolo e che necessariamente dovesse trovare tal successore.
Il contrapporsi di tendenze è infatti in Francia alterno e regolare.
I critici moderni usano separare il gruppo di pittori che si raccoglie nel famoso « Atelier aux Batignolles » di Fanton de La Tour sotto il titolo comune di « Impressionisti ». Ma certo si ritrova in tutti questi pittori un’atmosfera comune; è quella del risorto settecento. Restaurazione che diventa a poco a poco un pò troppo fiera, e culminando col mélange optique di Monet ci ha valso il nuovo classicismo cubista di Cézanne e di Gauguin.
La forma e la luce, questi due principî intorno ai quali si sono cristalizzati altri elementi, alternandosi costantemente, hanno permesso a ogni epoca nuova, di avere i suoi « fauves » con teorie fresche e pur vecchie di secoli.
Ma il dramma si è visto nel secolo XIX° quando l’unità è stata scissa. Allora per mancanza di autorità inappellabili si videro gli uomini violentare la storia, sbrancarsi e doversi tormentare ciascuno dal canto suo, per trovare un’idea tipo del bello nemica di quella altrui, intollerante e insoddisfatta.
E cosa veramente da deplorare, come già scrisse Gide, che si sia imparato a capire tutte le arti ed amarle insieme e ad assimilarle insieme per non saper più vedere la propria. Anche noi siamo vittime di questa troppo larga comprensione.