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gedia cristiana che ha da dipingere, al piano della sua pace. I suoi personaggi hanno quel tanto di umanità che si poteva cogliere senza fatica guardando negli occhi, ogni tanto, le creature di Leonardo.

Nè la tranquillità riposante che essi devono travasare in chi li contempla, come in loro fu versato da chi li dipinse, vien turbata da imprevedute e inquietanti modificazioni dell’ordine consueto in cui la tradizione li pose. I gesti, il sorriso, la composizione stessa, — poiché non è il caso di parlare di anima, dato che non ne hanno una propria, — appartengono tutti a qualched’un altro, sono il sunto e l’armoniosa fusione di atteggiamenti conquistati nel corso di anni dalla tradizione sapiente — e in ognuno di loro, per quel non so che di patinato, stanco e troppo disinvolto che ce li fa guardare senza nessuna meraviglia e con rapidissimo adattamento, affiorano continuamente le conquiste anteriori addolcite dall’uso, come in certe persone si riconoscono le impronte e le mosse degli avi perpetuate.

Che cosa c’è dunque di suo, in quelle tavole che pur si giudicano a prima vista come dipinte da Lorenzo di Credi? Un carattere superficiale e visibile: un colore, l’azzurro. Per quell’azzurro, che rende umida e potabile l’aria delle campagne chiare dipinte oltre le bifore dei fondi, e che si condensa poi, come coagulato e fatto tessile nelle vesti della Madonna, quasi per riportar l’occhio continuamente dall’uno all’altro ed accostarli, si chè il cielo sem-