Atto terzo.

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Lucio Anneo Seneca - Medea (61)
Traduzione dal latino di Ludovico Dolce (1560)
Atto terzo.
Atto II Atto IV
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ATTO TERZO.

Nudrice, Medea.

Nudrice
Reina, che da me fosti nudrita,
Perché con tanta fretta
Esci del tristo albergo?
Deh frena l’ira, e ’nsieme
Ritien l’impeto fiero.
Ella a guisa di Menade, che tocca
Dal gran furor di Bacco
Sopra il giogo di Pindo, o qual di Niso
Furiosa si move;
Così di quà di là rivolge il passo;
E come forsenata
Ha gli occhi ardenti, et in aspetto fiero
Chiama gli Dei: et in tanto
Riga gli occhi di pianto; [p. 202r modifica]
Hora si mostra allegra,
E riceve ogni forma.
Sta sospesa, minaccia, e tutta ardente,
Hor si lamenta, hor geme.
Ove porrà tal peso? ù le minacce,
Ove si romperanno
Così gonfie, turbate, e rapid’onde?
Non po il furor caper, nè trova loco:
Nè propone di fare
Lieve o mezano male,
Ma vincerà (ch’io lo conosco) tutti
Gli effetti empi e crudeli
De l’ire antiche. Ella di fare ordisce
Cosa più d’altra fiera.
Io veggo ben l’aspetto
Del solito furore.
Faccia Giove, che questa
Mia temenza s’inganni.
Med.
Se tu cerchi meschina
Infino a quanto debba
Arrivar l’odio, che ti preme il petto,
Fallo uguale a l’amore,
Che portasti a Giasone.
Io debbo sofferire,
Che queste nozze sieno
Senza la mia vendetta?
Partirà questo giorno
Senza alcun grave e memorabil male?
Con tanti preghi da me cerco, e ’nsieme
Con tal difficultate a me concesso?
Mentre la terra fia
Centro de l’universo;
Mentre che sempre i cieli
Si volgeran con infallabil giri; [p. 202v modifica]
Mentre sian senza numero l’arene;
Mentre il giorno havrà il Sole,
E la notte le stelle;
Mentre anderà d’intorno
Il polo l’orsa, e mai
Non si bagnerà in mare,
Mentre i fiumi daranno
Tributo a l’onde sue,
Non cesserà giamai
Il mio furor ne le costoro pene,
E crescerà mai sempre.
Qual Scilla, qual Cariddi
Sorbendo il mar Ionio, e ’l Siciliano,
Qual’Etna, che i Giganti
Preme, sarà così fervente e calda
Di cotante minaccie,
Come son io? non già rapido fiume,
Non procelloso mare,
Quando agitato è più da venti fieri:
O fiamma, ch’aiutata sia da fiante
D’impetuoso vento,
Non potrebbe tardar l’impeto mio,
Nè le nostre ire: io turberò ogni cosa,
Et ogni cosa volgerò sossopra.
Egli temè Creonte,
E la guerra del Duce di Thesaglia:
Ma ’l vero Amor non teme alcuna cosa.
Ma forse, ch’egli vinto,
Da le ragioni mie,
Mi si renderà ancora.
Poteva ei ben venire
A trovar la mogliera,
E non negarle l’ultime parole;
Ma temuto ha quel fiero anco far questo. [p. 203r modifica]
E poteva anco il genero crudele
A tanto esilio darmi
Più largo spatio: che ragion volea:
Ma concesso ha un sol giorno a due figliuoli.
Non mi lamento già del tempo breve,
Ch’esso sarà a bastanza.
Questo giorno farà, farà tal cosa,
Che non tacerà il secolo futuro.
Io troverò gli Dei,
E tutto scuoterò.
Nud.
Padrona torna
In te la mente dritta,
Ch’è turbata da i mali:
E mitiga il tuo petto.
Med.
Non mi posso acquetar, se pria non veggio
Ch’una ruina meco il tutto volga.
Nud.
Tu puoi veder, se con dritt’occhio guardi,
Quanto da temer hai:
Nessun può dare assalto
A potenti sicuro.


Giasone, Medea


Giasone
O sempre duri fatti, et aspra sorte,
Malvagia, e quando incrudelisce, e quando
Benigna si dimostra.
Trovato ha tante volte a noi rimedi
Giove del mal peggiori.
S’io voleva la fede
Serbar a morti de la mia consorte,
Era bisogno por la vita a morte,
E morir non volendo: mi conviene
Mancar de la mia fede.
Nè mi vince paura, che non deve
Vincer cor generoso, ma pietate; [p. 203v modifica]
Perché con la mia morte
Seguirebbe ancor quella
De’ cari miei figliuoli.
Ti chiamo in testimon di mie parole
Santa Giustitia, che ti stai nel cielo,
Che i miei figliuoli han vinto
Me, che lor padre sono.
Credo, ch’anco Medea,
Benc’habbia fiero il cuore,
Et implacabil sia,
Vorrà più tosto haver rispetto a figli
Ch'a le sue nozze. Io sono
Risoluto di veder con i preghi
Alquanto intepidir l’animo irato.
Ecco, che tosto, ch’ella
M’ha veduto, s’è mossa,
E tutta furiosa
Dimostra l’odio in volto;
E tutto quel dolor, che tien ne l’alma.
Med.
Noi fuggimo Giasone; noi fuggimo:
Nè nuovo è il mutar luogo;
Ma nuova è ben la causa del fuggire.
Che già per tua cagion solea fuggire.
Io mi parto, io abandono
Le tue case: ma dove
Mi rimetti, ch’io vada?
Andrò misera forse
A veder Fasi e Colco?
E ’l paterno mio Regno?
E nel terren bagnato
Per le mie man del sangue del fratello
Dimmi a qual terra vuoi,
Ch’io rivolga il mio piede?
E qual mar mi dimostri? [p. 204r modifica]
Le bocche pur del Ponto?
Per lequali io ridussi
Tanti nobili adulteri, seguendo
Per l’Isole Simplegadi ciascuno.
Rivedrò forse ancora
La pargoletta Iolco,
O la Thessala Tempe?
Le vie, che a te già apersi, a me l’ho chiuse.
U mi rimetti? a l’esule tu imponi
Esilio, né lo dai.
Vadasi: che l’ha imposto
Il genero del Re. nulla ricuso:
Dammi quanti supplici, ch’a te giova.
L’ho meritato. La consorte tua
Aggiunga ogni tormento a la rivale,
Leghi queste mie mani, e mi condanni
A perpetua prigione:
Io patirò minori
Pene, di quel, ch’io merto.
Ingrato petto, volgi un poco teco
I Tori, che mandavan fiamma e foco:
E gli huomini nasciuti
De’ seminati denti,
I quai per mia cagion rivolser l’armi
Contra se stessi. Aggiungi
Le spoglie a questo del Monton di Friso,
E ’l vigile Dragon, che tu facesti
Addormentar, merce di mia pietate.
E ’l mio fratello occiso:
Et in un mal più mali,
Le figliuole da me sospinte a dare
La morte al padre, et a smembrar le membra,
Di cui più non dovea
Riveder questa luce. [p. 204v modifica]
Io misera seguendo
I Regni altrui abandonati ho i miei.
Ti prego per la speme,
C’hai de’ figliuoli tuoi;
Per questo albergo, ilqual sia fermo e certo,
Pe i vinti Mostri; e per le man mie stesse
A cui per te giamai non perdonai,
Per li passati tuoi spaventi e teme,
E pel cielo e per l’acque,
Che testimoni fur de le mie nozze,
C’haggi di me pietate;
E c’hora verso me, che n’ho bisogno,
Ti mostri tal, qual dimostraimi alhora,
Ch’eri a tanto pericol de la vita:
E di tante ricchezze,
Che di lontan rubando
Cercan gli Scithi insino
Da gl’Indi estremi, e quelle calde parti,
Le quai crescendo poi
In tanta quantità, le nostre case
Non son atte a capirle,
Onde d’oro adorniamo insino i boschi:
Io esule con meco
Altro non ne portai,
Che le membra meschine
Di mio fratello: e queste ancora fure
Sparte per tua cagione.
A te cesse la patria, a te il fratello,
La vergogna e ’l pudore.
Con questa dote per marito t’hebbi:
Ritorna il suo a chi fugge.
Gias.
Tu puoi saper, che volendo levarti
Di vita il Re Creonte,
A preghi miei s’è volto [p. 205r modifica]
A cangiar con l’esilio la tua morte.
Med.
Stimava, che l’esilio fosse pena:
Hor veggio, che m’è dono.
Gias.
Mentre c’hai tempo di poter partirti,
Partiti prestamente:
Perché l’ira dei Re mai sempre è grave.
Med.
Tu mi conforti a quello?
Con Creusa ten resti,
E me, che fui tua moglie,
A guisa di rivale, odi e discacci?
Gias.
Medea mi opponi amori?
Med.
E occisioni e inganni.
Gias.
E qual peccato mi si puote opporre?
Med.
Tutto il mal, c’ho fatt’io.
Gias.
Resta ancor questo sopra l’altre cose,
Che de l’opere tue
Crudeli e scelerate
Io sia reso colpevole e nocente.
Med.
Elle son tue, pur tue:
Che a cui la sceleraggine a prò torna,
Costui commessa l’have:
Ma sia pur chi si voglia,
Che me n’incolpi e biasmi,
Tu sol difender dei,
E chiamarmi innocente.
Sia presso te innocente
Chi per te fu nocente.
Gias.
Non è grata la vita
A chi prende vergogna
Di ricevuta haverla.
Med.
Et a chi si vergogna
Di haverla ricevuta,
Esser caro non dee di ritenerla.
Gias.
Anzi vinci lo sdegno [p. 205v modifica]
E l’ira fiera e grave,
Che ti molesta il petto;
E vivi per cagion de’ tuoi figliuoli.
Med.
Io non gli voglio, io gli rifiuto, e danno:
Dunque darà Creusa
Fratelli a miei figliuoli?
Sarà dunque costei
Potente per li figli
De miseri sbanditi?
Non venga a gl’infelici
Questo malvagio giorno,
Ch’una prole sì chiara
Sia macchiata da oscura e così brutta;
I nipoti di Febo
Co quelli di Sisifo.
Gias.
Perché misera tiri
Me parimente e te nel dato esilio?
Partiti tosto, parti.
Med.
Ben ha Creonte intesa, et esaudita
La mia dimanda giusta.
Gias.
Dimmi quello, ch’io posso
Far a tuo beneficio e giovamento.
Med.
Ogni mal, che tu puoi.
Gias.
Sappi, che d’ogni parte il Re ti serra.
Med.
C’è di questo un spavento assai maggiore:
E sol questo è Medea.
Lascia, che ’nsieme contendiamo: e poi
De la vittoria il prezzo sia Giasone.
Gias.
Io cedo stanco homai
A molti lunghi mali.
E tu paventa ancora
I casi tante volte
Da te imparati a prova.
Med.
Sempre minor di me fu la fortuna. [p. 206r modifica]
Gias.
Acasto preme, e più vicin nimico
E’ Creonte: però l’un l’altro fuggi.
Non vo, ch’armi le mani
Contra il suocero mio:
Né che t’imbratti ancora ne la morte
De’ congiunti et amici.
Med.
Meco fuggi innocente,
E dì poi, che costretto hatti Medea.
Gias.
E chi potrà giamai
Far resistenza, quando
Soprastino due guerre;
E che Acasto e Creonte
Uniscan le lor forze?
Med.
A questo aggiungi i Colchi,
Et Eta Re mio padre,
Et aggiungi anco a Greci
I fieri Scithi: io ti prometto certo,
Che gli sommergerò tutti nel mare.
Gias.
Io tuttavia pavento di coloro,
Che in alto seggio son levati e posti.
Med.
Vedi che non desideri temerli.
Gias.
Acciò che’l nostro favellar sospetto
Non porga; sarà buon che tu l’accorti.
Med.
Hor Giove d’ogni parte
Tuona dal cielo; e i fieri strali prendi
Per far vendetta di cotanti oltraggi,
E ’l mondo tutto scuoti,
Ferendo o me o costui,
Che qual d’ambi noi caggia,
Cadrà nocente: in noi le tue saette
Errar non ponno.
Gias.
Trova voci homai
Da saggia, e di parole humane e dolci.
Se cosa alcuna è appresso
Del mio suocer; laquale [p. 206v modifica]
Teco portando ti dia qualche aita,
Chiedila, che l’havrai.
Med.
Sai, che l’animo mio
Sprezzar può le ricchezze
Reali, e suole. Siami solamente
Compagni del mio esilio i miei figliuoli,
Nel sen de quali io possa
Sparger il pianto mio.
Da te s’aspetta altri figliuoli nuovi,
Si che poi starne senza.
Gias.
Confesso, ch’io vorrei
Gradir a li tuoi preghi:
Ma pietà non mi lascia:
Perché patir non posso
La lontananza loro;
Non, quando ancor sforzar me ne volesse
Il Re suocero mio.
Questi sono cagion de la mia vita
Questi son mio conforto
In tutti i miei travagli.
E più tosto potrei
Mancar di questo spirto,
De’ membri e de la luce.
Med.
Se questi ama i figliuoli
Bene ha, lo tengo, è luoco a la ferita,
Hor concesso mi sia,
Che prima, ch’io mi parta,
Dar io lor possa gli ultimi ricordi.
Mi sia lecito a dare
L’ultimo abbraciamento.
Ciò m’è grato: e ti chieggio
Con l’ultime parole,
Che se ’l dolor m’ha spinto
A dir quel, ch’io non debbo, [p. 207r modifica]
T’escan di mente le parole mie,
E ti ricordi il meglio,
Obliando del tutto
Quel, ch’a dir spinse l’ira.
Gias.
Già de l’animo mio
Tutto ho sgombrato fuori.
Io ti prego a volere
Regger gli affetti tuoi con miglior forma;
Et esser più benigna e più pietosa:
Suole il riposo spesso
Alleggiar le miserie et i tormenti.
Med.
Ei s’è partito. Adunque
Tu te n’andrai scordato
Dei benefici miei,
E di me stessa? Io son di mente uscita
A te Giason: ma stimo,
Che di Medea ti sovverrà mai sempre.
Hor su raccogli tosto
Tutte tue forze et arti:
E’ frutto de le tue sceleritati
Stimar, che nulla sia sceleritate;
Et in cosa sì honesta
Non si può dir che sia
Il male mal, ma bene.
Io so che son temuta;
Ma va per quella strada,
U non si temerà d’alcuna cosa.
Segui Medea, comincia, ordisci, et opra
Ciò che puoi, e che non puoi.
Tu fida mia Nudrice
Compagna de’ miei affanni,
E de’ vari accidenti,
Aiuta questa misera e dolente
Con i consigli tuoi. [p. 207v modifica]
Appresso me si trova
Una superba gonna,
Che fu celeste dono,
Et ornamento già del nostro Regno;
Donolla il Sole istesso
Ad Eta padre mio
Sol per pegno d’amore.
Ho anco un bel monil d’oro e di gemme,
Lo splendor de le quali
Distingue quel de l’oro:
Di questo a guisa di corona suole
Farsi cinto a le chiome.
Voglio, che i miei figliuoli
Portino questi doni
A la novella sposa:
Ma prima tinti sieno
De i mortifer veleni,
Che sa trovar la divin’arte mia.
Chiamisi a questo effetto
Hecate: e tu apparecchia
I sacrifici horrendi,
Che debbono apportar lagrime e morti.
Gli altari fatti sono:
S’odin suonar ne tetti
La mortifera fiamma.
Coro
Non è fiamma veruna,
C’habbia cotanta forza;
Nè vento o stral, che scenda
Da ciel: quanti una Donna,
Ch’abandonata sia dal suo consorte
Sente nel petto fiero odi e disdegni. [p. 208r modifica]
Non quando l’Austro apporta
Nebuloso le piogge
Del freddo verno: o, quando
L’Histro crescendo spezza
I ponti, e vago le campagne copre.
Nè, quando entra nel mare
Il Rhodano pien d’ira:
O, quando a meza Primavera suole
Dileguarsi la neve,
Et il suo largo humore
Ne fa languido l’Hemo.
Quando animo amoroso
E stimolato d’ira,
Cieco tosto diviene,
Né cura d’esser retto,
Anzi non pate freni,
Non teme morte; ma desia di gire
Incontra a ferri, e a le taglienti spade
Deh perdonate o Dei,
Noi vi chiediam perdono;
Fate securo vivi,
Chi già soggiogò il mare:
Ma par, che si disdegni
Il gran Re del profondo,
Che sieno stati vinti
I suoi Regni secondi.
Il giovane Fetonte
Havendo preso ardire
Di governar il carro
Del celeste suo padre,
I fuochi, ch’egli sparse
Intorno il mondo: in lui tornaro alfine.
Le strade note altrui
Mai non costaro care: [p. 208v modifica]
Va, dove andati sono
Quei, che furono avanti,
E non voler del mondo
Romper le sacre leggi.
Chi de l’audace nave
Entrò ne’ rami del sacrato bosco:
E Pelio dispogliò de le sue ombre.
Chi varcò l’onde, dove
Sono cotanti scogli,
E nel fine legò ne’ lidi strani
La fune per tornare
Predator de l’altrui
Argento et oro; questi poi meschino
Con duro fin la penitenza feo
D’haver violato il mare:
Ilqual punir lo volse.
Tisi, che ’l primo fue,
Che domò l’acque sue
Lasciò il governo del dubbioso legno
A non dotto Maestro
Morendo in strani lidi
Da la patria lontano,
Et hebbe miser sepoltura vile
Fra le barbare e ignote ombre infelici.
Colui, che d’una Musa
Fu gradito figliuolo,
Al cui mirabil suono
Si fermaro i torrenti,
Tacquero i venti, e abandonando il canto
I semplicetti augelli,
Andaro ad ascoltarlo,
Accompagnando lor la selva tutta,
Giacque diviso e sparso
Per li campi di Thracia, e la sua sacra [p. 209r modifica]
Testa gettata fu dentro ne l’Hebro,
E andò ne la palude
Stige da lui veduta un’altra volta,
E nel Tartaro cieco
Senza più ritornar ne l’aria chiara.
Stese il feroce Alcide
I figliuoli di Borea, e occise ancora
Il figlio di Nettuno,
Ilqual prender soleva
Innumerabil forme.
Et esso poi c’hebbe placato il mondo,
E dopo haver aperto
Il Regno de l’Inferno,
Vivo giacendo ne l’ardente Eta,
Porse le proprie membra
Consumato et afflitto
Dal don di doppio sangue
Fatto da la consorte.
Meleagro di vita
Empio tolse i fratelli de la madre;
Et ei morì nel consumar d’un tizzo:
E tutti meritarono la morte.
Qual peccato commise
O purgò quel fanciullo,
Che tenero fu ucciso
Dal grande Hercole ivitto.
Andate adunque, andate
Per il fallace mare
Con franco animo audace.
Benché Idmon conoscesse
Quel, che apportava il fato,
Fu sepolto da un serpe
Ne l’Africane arene,
Verace a tutti, et a se stesso falso [p. 209v modifica]
Cadde Mopso, e ne fu privo di Thebe,
Ei se predisse il vero,
Il marito di Thete
Andò sbandito errando.
Nauplio col falso foco
Nuocer dovendo a Greci
Cadde nel mar pagando
Le pene del peccato empio del padre:
Fu percosso dal fulmine, et insieme
Lasciò la vita in mare
L’un de gli Aiaci: e riscuotendo il fine
Del consorte Fereo
La moglie diede l’anima contenta
Al defunto marito.
E colui, ch’a Giasone
Impose, che portasse
La spoglia d’oro con la prima nave,
Pelia, cotto nel rame ardente al foco
Arse fra picciol’onde.
Già havete Dei a bastanza
Vendicato l’oltraggio fatto al mare:
Perdonate a colui,
A cui fu imposto questo.

Il fine del terzo Atto