Lydia/XVII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | XVI | XVIII | ► |
XVII.
S’era stabilito alla Villa un genere di vita assai regolare e metodico, come se dovesse durare per sempre. Nè la baronessa nè Keptsky non accennavano di partire per Vienna. Lydia, che aveva gettata là una frase allusiva al suo prossimo ritorno in città, non ne parlò più dietro una semplice, leggerissima insistenza di Théa.
Ognuna di queste persone, compiendo il giro quotidiano dell’esistenza comune, sembrava avere, come i pianeti, un giro di rotazione propria, un interesse particolare, enigmatico. A certe ore Théa scompariva, Keptsky andava a tirare di fioretto nella sala del bersaglio, la contessa Colombo si appisolava sui divani, Lydia fantasticava. Ritrovandosi all’ora di pranzo, si guardavano sottecchi, quasi credendo di trovare dei cambiamenti di fisonomia. Molte volte Lydia aveva osservato che Théa era pallida; molte volte Théa si era accorta che Lydia prendeva sempre più un’aria preoccupata, pensierosa. Studiandosi così a vicenda, dimenticavano di parlare.
C’era Keptsky però, sempre sveglio, galante, brioso, col suo spirito elastico e pieghevole, che si adattava a qualsiasi ambiente, padrone della situazione qualunque essa fosse, capace di giuocare una partita di whist colla contessa, facendole dei complimenti, senza diventar verde.
L’ammirazione di Lydia per questo giovane cresceva di giorno in giorno. Ella provava vicino a lui un sentimento tale d’entusiasmo e di piacere, che non riusciva a frenare. Del resto, come lo avrebbe potuto? Non era ella avvezza ad abbandonarsi sempre e tuttaquanta a ciò che l’attirava? E se non c’era più nulla al mondo che l’interessasse, fuorchè Keptsky, perchè non doveva interessarsi a Keptsky?
Avevano poi tanti motivi per intendersi: l’ingegno sottile, pronto; i gusti raffinati; l’amore dell’eleganza, il bisogno di piacere. Non mancava nemmeno il contrasto fisico, che è la più grande attrattiva fra i due sessi; egli alto, forte; lei delicata come una figurina di Sévre.
L’ammirazione toccò il colmo un giorno che Lydia lo sfidò al tiro della pistola, tenendosi forte di riuscire una volta su dieci, e che egli, canzonandola, gettò per aria uno scudo e lo colpì a volo.
Ma le partite belle le facevano di soppiatto, con tutta l’emozione di una congiura, mettendoci la droga del mistero. Alcune sere, quando la contessa aveva potuto afferrare il parroco, accontentandosi di un tarocco o di un tresette; quando la baronessa era chiamata altrove per dare o per sorvegliare un ordine, Keptsky si avvicinava a Lydia, misurando certi passi comicamente tragici che la mettevano subito di buon umore, e a voce bassa, solenne, le mormorava:
— Domani?
Per solito, la risposta di Lydia era uno scoppio di risa dentro le trine del suo fazzoletto. Al che egli aggiungeva:
— L’ora?
E lei, soffocando la voce:
— Quando canta l’allodola.
— Il motto d’ordine?
Oh! quello poi variava tutte le volte. La prima era stato: Perruque blonde et collet noir; la seconda: God sawe the queen; la terza: Se fossi sicuro. Questo l’aveva voluto lui, Keptsky.
L’indomani, appena spuntava l’alba, mentre tutti dormivano alla Villa, essi si trovavano pronti, e pronti erano due cavalli, un’altra passione che li avvicinava. Théa, alla quale i medici avevano proibito l’equitazione, abborriva questo esercizio, e Lydia, nell’innocente sotterfugio, non vedeva che un modo lecito di soddisfare il suo gusto senza urtare quello dell’amica.
Partivano dunque al galoppo, come due amanti in fuga; stavano fuori qualche ora, più che fosse possibile; tornavano, ancora inosservati, alla Villa addormentata, e per tutto il giorno, guardandosi negli occhi, essi avevano la gioia del loro segreto.
Erano giunti rapidamente all’intimità. Lydia gli raccontava tutto, tutta la sua vita passata, incominciando dall’infanzia; gli descriveva le sue governanti, facendolo ridere con tratti umoristici, con particolari grotteschi; e poi gli diceva la sua noia alle lezioni di piano, la sua smania per il ballo e per la corsa; il tripudio del primo viaggio, l’emozione della prima festa, e sua madre, e don Leopoldo, e Costanza, ed Eva, cose e persone che si affollavano dalla sua mente alle sue labbra, con una foga, una irresistibilità di confidenza, d’abbandono.
S’ella avesse potuto esaminare il sentimento che la trascinava verso Keptsky; se fosse stata capace di definirlo, avrebbe concluso che Keptsky era per lei il nido, il porto, la protezione, la felicità, l’oblio. Era arte, era religione, era amore, era tutto insieme quello che generalmente si trova poco per volta, che si sbocconcella nelle piccole soddisfazioni di tutti i giorni, perdendo in briciole la metà della sostanza.
Keptsky le si era presentato sul tramonto della sua giovinezza, come il finale grandioso di un’opera sciupata, il riassunto di tante forze sperperate, il tratto di genio di un autore incompreso.
Finalmente ella amava.
Mille rivelazioni le davano, ad ogni ora, una sorpresa nuova. Si sentiva buona, dolce, piena di compatimento. Incontrando nei campi i fanciulli dei contadini, si fermava ad accarezzarli tutta intenerita, presa da una simpatia che rimoveva le sue viscere di donna. I poveri la commovevano; un vecchio cieco che passava le giornate seduto sopra un muricciolo, pregando per i suoi figli morti, le strappò lagrime di vera pietà. Perfino il cielo, gli alberi, l’intera natura le apparivano con forme e colori nuovi, più umanamente vivi.
Non avendo ancora rivelato a sè stessa il suo amore, non chiedeva neppure se Keptsky l’amasse. In tale periodo di formazione, bastava alla sua felicità la presenza del Dio ignoto. I giorni volavano così rapidamente che le restava appena il tempo di godere, e questo godimento che non aveva ancora un nome, questo bocciolo che non era ancora fiore, come ogni forza trattenuta e chiusa, le dava rapimenti intensi. — Keptsky, diceva, è impossibile ch’io non vi abbia conosciuto in un altro mondo; dobbiamo essere stati amici o parenti; perchè non saprei spiegare diversamente il fatto strano ch’io vi sento in me.
Ragionavano spesso di questa sensazione, che egli attribuiva a forza magnetica. Per convalidare il suo asserto, le diceva che egli non aveva mai potuto pensare all’Italia senza provare una fitta al cuore, e che questo era certamente più che un presentimento, era un fluido lontano, ma potente, che agiva a sua insaputa.
— Siete spiritista?
— Sì. Gli spiriti governano il mondo; nulla noi facciamo per noi stessi. Non sempre un angelo ci guida, però credo che uno spirito ci domini sempre.
Parlando spesso francese, erano venuti a darsi del voi, naturalmente, quasi senza accorgersene; ma il contegno corretto di Keptsky, l’ardore ingenuo di Lydia, toglievano ogni idea volgare a questa famigliarità.
Quello poi che piaceva immensamente a Lydia era la parsimonia di Keptsky, la grande naturalezza de’ suoi complimenti, per cui sembravano niente più che l’espressione di un’opinione. Gentilissimo colle donne, non aveva la pretesa di far la corte, la solita corte smaccata e impudente che nella maggior parte dei casi è il solo contrapposto che gli uomini sanno trovare a una indifferenza grossolana. Sotto questo rapporto somigliava un po’ a Calmi; ma quanto, quanto più simpatico! Tutto in lui svelava una razza e una educazione infinitamente superiori. E poi aveva quella morbidezza di velluto, quel tepore di raggio, che allacciava senza stringere, e scaldava senza bruciare.
Oh! la mia classificazione come è giusta — pensava Lydia, cavalcando al suo fianco, sembrandole che l’aria stessa mossa da lui diventasse morbida e tiepida.
E voleva che a sua volta le raccontasse le memorie dell’infanzia; tanti anni passati in un castello della Podolia, senza vedere nessuno, colla compagnia triste di una vecchia governante sempre ubbriaca; e poi il collegio freddo, austero, la pedanteria dei maestri, le scappate degli scolari; e poi l’entrata nel mondo, irrompente, da puledro che ha rotto il freno, poi la brillante divisa degli usseri, la vita gaia di Vienna, e quello che non diceva — ma che Lydia indovinava — il meglio.
Come deve essere stato amato! — pensava ancora Lydia, guardandolo alla sfuggita. — Una così assoluta bellezza unita a tanta grazia!
Gli domandava qualche cosa, nient’altro che per poterlo guardare negli occhi, per vedere l’arco dolcissimo delle sue labbra sui denti bianchi. Una volta gli chiese se, oltre la vecchia governante troppo amica dell’acquavite, nessun’altra donna avesse sorriso alla sua infanzia.
Egli rispose di no; di esser giunto ai sedici anni senza conoscere una donna giovane. Ma — soggiunse — nella solitudine della Podolia, piccino ancora, ebbi l’intuizione della donna. Abbandonato come ero, e precoce, quando la mia governante russava sotto alla tavola, io che non avevo sonno mi arrampicavo nella libreria, prendendo tutto, leggendo tutto, avidamente, finché durava la sera; e sono lunghe le sere dell’inverno russo!
— Conosceste la donna nei libri?
— Sì. O meglio, le donne di cui si parlava in quelle pagine mi schiusero la via a immaginare un essere fantastico, sovrumano, al quale io prestavo tutte le bellezze, e che fu per dieci anni il più adorato dei fantasmi. Nelle Mille ed una notte, uno de’ miei libri favoriti, ciò che mi colpiva di più non erano i vasi fatali da cui sorgeva il Genio, le lampade meravigliose, le isole incantate; no, io sognavo le pallide sultane dai lunghi capelli intrecciati di perle. La bella Schemselnihar, così ardentemente amata, io la vedevo passeggiare nei suoi giardini aperti al solo califfo; quei giardini dove la ghiaia era di pietre preziose, le fontane d’acque odoranti, i padiglioni di raso; dove le schiave giravano mute e silenziose proteggendo quel grande amore di un re. E Badura, la principessa dai larghi occhi di gazzella? E l’appassionata Tormenta? Tutte, tutte io le amavo quelle donne, schiave, regine o fate.
Errando poi solo nelle foreste, speravo sempre che mi apparisse il dolce volto de’ miei sogni. Non a caso dico volto, sapete? perchè le mie donne consistevano in due occhi raggianti, una bocca amorosa e una lunghissima chioma. Non avevo nessuna idea del corpo femminile; le mie donne, vere chimere, terminavano con un paio d’ali.
Lydia avrebbe voluto saperne ancora di più, sapere se egli aveva preso in pace la caduta di quelle ali. Ma come chiederlo? Ella taceva allora, spronando il cavallo, con un bisogno di moto, un bisogno di respirare l’aria a pieni polmoni.
Keptsky la lasciava correre per un po’ di tempo. Quando si decideva a raggiungerla, nessuno dei due parlava; continuavano al trotto serrato, cogli occhi fissi sulla lunghezza della strada. A poco a poco rallentavano il passo, le redini cadevano, gli sguardi, fuggendo da un punto all’altro, riuscivano ad incontrarsi. In quel momento Lydia viveva, per intensità di giubilo, i trent’anni già passati della sua esistenza.
Ma perchè non poteva stare sempre con Keptsky? Ogni altra cosa sembrava così scolorita in confronto al piacere di vederlo e di ascoltarlo!
Una mattina volle provare a uscir sola, senza avvertirlo.
Rifece i medesimi sentieri che faceva con lui, passando sotto gli stessi alberi, spronando, rallentando la corsa; ma come tutto era differente! Che cosa fredda, monotona! Presa da una malinconia atroce spinse il cavallo a galoppo, finchè giunse a un gruppo di salici, dove il giorno prima egli si era impigliato colla faccia; ne strappò due o tre ramoscelli, vi immerse le guancie e la bocca, deliziosamente; indi riprese a galoppare come una disperata, gridando nell’aria: Riccardo, Riccardo.
Don Leopoldo non stava troppo bene; aveva i suoi reumi, aveva una coriza; desiderava abbracciare la nipotina.
— Tornerai — diceva Théa a Lydia, vedendola tanto spiacente nel dover abbandonare la Villa.
— No, no — singhiozzava Lydia — ho un presentimento di sventura.
— Forse, non troverai più mio cugino.
Ella stava per rompere in pianto, ma si fermò davanti allo sguardo di sfinge della baronessa.
Alla sera, con Keptsky, non potè nascondere il proprio dispiacere, che palliava con una finta inquietudine per la salute di suo zio.
— Non vi vedrò più, Keptsky.
— Perchè?
— Perchè sì. Una voce me lo dice.
— Non la voce del cuore. Essa parla a me, in questo momento, e mi dice tutto il contrario.
La guardava dolcemente, circondandola col raggio cupo dei suoi occhi. Non era nulla, eppure Lydia si sentì consolata.
Per tutta la sera egli le stette vicino, occupandosi di lei sola.
Una volta appena, avendogli Théa rivolta la parola in un dialetto tedesco ignoto a Lydia, egli si alzò e andò a parlare a bassa voce con sua cugina. Je vous espliquerai ça plus tard; le disse per ultimo, sorridendo, e venne a riprendere il suo posto accanto a Lydia.
— Dunque a rivederci?
— Sì, fermamente.
— Théa mi ha fatto credere che partirete presto...
— S’inganna. Nessun spirito mi chiama laggiù.
Si lasciarono così, mezzo sorridendo, con una lunga stretta di mano.