Lo astrologo/Atto II
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ATTO II.
SCENA I.
Vignarolo, Armellina serva.
Vignarolo. (Sia maladetto Amore e quella puttana che l’ha cacato! Prima non conosceva altro pensiero che star alla villa; e doppo che mi sono innamorato bestialmente, mi par che in villa sia sempre inverno, e la primavera fuggirsi alla cittá per starsi con la mia Armellina. Son risoluto narrarle l’amor mio e richiederla, che alle donne bisogna dir qualche parola, poi lasciar fare al diavolo che sempre lavora. Ma eccola su l’uscio: vorrei parlarle, ma mi vien l’animo meno: vo’ far buon core e salutarla). Vi saluto centomila migliaia di volte, Vostra Signoria illustrissima, Vostra Altezza, Vostra Maestá.
Armellina. Oh, quanti titoli! vignarolo.
Vignarolo. Non sète voi la mia signora, la mia regina e la mia imperadora?
Armellina. Che cosa mi porti, vignarolo?
Vignarolo. Rispondi al saluto prima, poi mi chiedi che porto.
Armellina. Rispondi tu prima a me: se dici che son la tua imperadora, ti posso comandare.
Vignarolo. Porto il presente, mezzo al patrone e mezzo a te; e se ti piace tutto, piglialo tutto.
Armellina. Mi raccomando.
Vignarolo. Fermati un poco, ché son venuto a posta dalla villa per vederti...
Armellina. E mò non m’hai veduta?
Vignarolo. ...e parlarti ancora.
Armellina. E mò non m’hai parlato?
Vignarolo. Lasciami parlare.
Armellina. E mò che fai?
Vignarolo. Ragiono pur, ma vorrei... .
Armellina. Che vorresti?
Vignarolo. Sí sí, sai che vorrei? che mi volessi bene.
Armellina. Io per me non ti vo’ male.
Vignarolo. So ben che non mi vuoi male: pur non mi vuoi bene.
Armellina. Che vorresti dunque che facessi?
Vignarolo. Tôrmi per marito.
Armellina. Son poverella, non ho dote da darti.
Vignarolo. Mi basta la grandezza de’ tuoi costumi e della tua natura.
Armellina. Non vo’ che alcuno mi pigli: vuo’ stare come sto.
Vignarolo. Se vuoi stare come stai, diventarai salvatica.
Armellina. Come?
Vignarolo. La vite come sta sola cade in terra e s’insalvatichisce: la donna è la vite, l’uomo è il palo; se non ha il palo dove s’appoggia, sta male.
Armellina. Impalato possi esser tu da’ turchi!
Vignarolo. Ah, traditora, perché mi maledici?
Armellina. Burlo cosí con te.
Vignarolo. Ed io me lo prendo da dovero. Io non amo al mondo altri che te. Tutto il giorno piango e mi tormento, e per chi, ah? per te, lupa, cagna che ti mangi il mio cuore; e tanto potrei star senza amarti quanto far volar un asino. Se tu vuoi essere mia moglie, dal primo giorno ti fo donna e madonna di tutte le mie robbe, te le porrò in mano che le maneggi a tuo modo. Beata te, se tu farai a mio modo!
Armellina. Io vo’ che tu facci a mio modo.
Vignarolo. Facciasi, se non al mio, al tuo modo: tutto torna in uno, purché non resti di fuora. Ma io vorrei una grazia da’ cieli.
Armellina. Ed io un’altra.
Vignarolo. Che vorresti?
Armellina. E tu che vorresti?
Vignarolo. Il direi, ma temo che ti corrucci.
Armellina. Non mi corruccio: dillo.
Vignarolo. Dammi la fede.
Armellina. Eccola.
Vignarolo. Oh che mano pienotta e grassetta!
Armellina. Dimmi, che vorresti?
Vignarolo. Vorrei esser quel piston che pista nel tuo mortaio.
Armellina. Ed io vorrei che, quando ho fatta la salsa, mi leccassi il mortaio. Ma vo’ partirmi.
Vignarolo. S’è partita, la vitellaccia.
SCENA II.
Pandolfo, Vignarolo.
Pandolfo. (Quel furfante di Cricca ha preso tanta paura di quelle coltellate, che non vuole lasciar trasformarsi in Guglielmo in conto veruno: ho pensato al vignarolo, ma non ho per chi mandarlo a chiamare).
Vignarolo. Padrone, buon giorno!
Pandolfo. O vignarolo, che mai giungesti a miglior tempo!
Vignarolo. «Come cavallo magro ad erba fresca».
Pandolfo. Ho tanto bisogno di te che non ne ho avuto altrettanto in vita mia; e se tu vuoi servirmi, tu sarai la mia ed io la tua ventura.
Vignarolo. Eccomi per servirvi.
Pandolfo. È giunto qui un astrologo che transforma gli uomini in altre persone. Se tu vuoi lasciarti transformare in un mio amico, ti lascio tre annate dell’affitto che mi rendi della tua villa.
Vignarolo. E se mi transformo in un’altra persona, che mi servirá quell’utile? lo farai a quello, non a me.
Pandolfo. Tu non sarai transformato se non per ventiquattro ore, e poi ritornerai come prima.
Vignarolo. E chi m’assicura che torni come prima? ché transformandomi si perde la persona mia, non sarei piú in calendario e non restarebbe segnale al mondo che vi fosse stato. No no.
Pandolfo. Non è peggio al mondo che avere a fare con animalacci come tu sei: «se li preghi s’insuperbiscono, se li bastoneggi s’indurano»; non si sa come trattar con loro, razza grossolana! Farò seco come si fa con i cani: che, per fargli piacevoli e che faccino a modo de’ padroni, non se li dá da mangiare e si pigliano con la fame.
Vignarolo. Almeno, se morirò di fame, morirò quel che sono; ma se mi trasformo, venerò in fumo, in vento.
Pandolfo. Chi non cerca migliorare vive sempre misero e meschino, e non val per sé né per altri. Sai che differenza è fra un savio e uno ignorante?
Vignarolo. No.
Pandolfo. Che il savio mangia bene, beve meglio, ben vestito e sempre a spasso; l’ignorante, sempre scalzo, nudo e morto di fame e di sete, e sempre stenta e fatica: perché il savio conosce l’occasione di far robba, si mette a pericolo una volta per non stentar sempre; l’ignorante non si cura dell’utile né si provede. «Tu hai poco senno e manco ventura»: se tu saprai conoscerla, felice te! Chi recusa la sua ventura è sventurato.
Vignarolo. Padrone, né mi muovono le tue lusinghe né mi spaventano le tue minacce: il diventare un altro è una specie di morire, e col morire non ci sto bene. Io farei capitomboli per amor vostro.
Pandolfo. Deh, che ti venga il mal francese!
Vignarolo. Non ho paura che mi venga.
Pandolfo. Perché?
Vignarolo. Mi è venuto gran tempo fa e ne sto in possessione.
Pandolfo. Se lo hai, che ti mangi e spolpi insin alle ossa, sciagurato che sei! ché se il pan che mangi conoscesse da chi è mangiato, piangeria quando è sotto i tuoi denti. Ti ho detto che tu non ti moverai da quel che sei, che si trasformerá il volto solo per ventiquattro ore: poi lascierai quel volto preso e tornerai nel tuo di prima. Fa’ conto che andarai in maschera per un giorno, proprio come se dormissi e in sogno ti paresse esser Guglielmo, e risvegliandoti la mattina ti trovi quel vignarolo ch’eri prima. Ma che diavolo te ne può avvenire per questo?
Vignarolo. Io togliendo quella somiglianza e ingannando la casa di Guglielmo, son io che l’inganno o no?
Pandolfo. Non tu ma quella somiglianza.
Vignarolo. E quella somiglianza ed io non siamo tutti una cosa?
Pandolfo. No, ché tu mai sarai Guglielmo né Guglielmo te; ma restará ingannato chi si crede che tu sia Guglielmo.
Vignarolo. Io pensava che bisognasse disfarmi e risolvere la carne e l’ossa, e poi impastarmi di nuovo e buttarmi a cola dentro le forme di Guglielmo per transformarmi in lui.
Pandolfo. Non tante cose, no.
Vignarolo. Chi sa, forse mi ci accorderò. Ma come sarò transformato in Guglielmo, che ho da fare?
Pandolfo. Entrarai in casa sua; e le genti stimaranno che tu sii il padrone, ti ubidiranno: disporrai di Artemisia sua figliuola, che mi sia moglie.
Vignarolo. Or questo non è un mezzo ruffianesimo? perderò l’onore.
Pandolfo. Abbi danari, ché l’onore poco importa.
Vignarolo. Un cuor mi dice che lo facci; un altro, no. (Vignarolo, consiglia un poco te stesso. — Ascolta e fa’ come ti dico io. Come sarò transformato, entrarò in casa sua, mi goderò Armellina. Ma se son Guglielmo, Guglielmo goderá quella dolcezza, non il vignarolo: avrò fatto la caccia per altri. No no, non lo vo’ fare in conto veruno, morrò piú tosto! Non tanta còlera, vignarolo, piano piano! son solo e fo questione con me medesimo: consigliati meglio. Transformandomi in Guglielmo, avrò quanto desio in questo mondo; se passará questa occasione, non tornerá piú mai. Di vignarolo diventarò gentiluomo con moglie e danari, e dalla villa passarò alla cittá: cancaro alla zappa, alla vanga, all’aratro, a’ buoi, anche a’ porci e all’asino ancora! Sicché risolviti, vignarolo, ad una bella occasione: quando sarò dentro, prometterò Armellina al vignarolo, farò stipulare i capitoli, li prometterò cento, ducento o trecento ducati; e quando ritornarò io, andarò con li capitoli in mano a ritrovar Armellina). Lo farò, sí sí, son risoluto.
Pandolfo. Sei risoluto?
Vignarolo. Risolutissimo; ma avvertite che vuo’ che mi promettiate far un altro piacere anco a me quando sarò in casa di Guglielmo.
Pandolfo. Ed a chi ho da mostrarmi cortese e amorevole se non a te che con ogni obbedienza dimostri servirmi, massime se per tuo mezzo conseguirò la mia Artemisia? Certo che non ti pagherò d’ingratitudine né di discortesia.
Vignarolo. Quando sarò dentro e che per opra mia recupererai la tua moglie, io prometterò Armellina sua serva al vignarolo; però quando sarò ritornato vignarolo a voi, mi facciate osservare la promessa con dir che or son in villa.
Pandolfo. Eccomi e con la persona e con la robba per servirti e porre navi e cavalli per osservarti la promessa, e sarò tuo campione.
Vignarolo. Su su, me ne son pentito: la cosa non può riuscire, resta per me.
Pandolfo. Che dici? che cervello è il tuo?
Vignarolo. Orsú, voglio servirvi.
Pandolfo. E ti vuo’ dar del mio ducento ducati piú di dote.
Vignarolo. Su, mano a’ fatti, andiamo all’astrologo, ché voglio transformarmi.
Pandolfo. E vuo’ che stii sempre tre mesi in letto e mangiar sempre maccheroni.
Vignarolo. Se non basta transformarmi, disformami, reformami e conformami ancora.
Pandolfo. Io so che i baci che ti dará Armellina si udiranno un miglio.
Vignarolo. Deh, andiamo presto, di grazia, ché io mi struggo, mi consumo e mi muoro!
Pandolfo. Fermati! dove vai? non è quella la strada per ire all’astrologo.
Vignarolo. Io strabilisco, non so dove mi vada.
Pandolfo. Eccolo. Monsignore, noi siamo tutti in pronto.
SCENA III.
Albumazzar, Pandolfo, Vignarolo, Gramigna.
Albumazzar. Ed arrivati in buon punto di astrologia: ché se il Sole vi fosse padre, madre Venere, la Luna sorella, Saturno vostro avo, Marte zio, Giove fratello e Mercurio vostro consobrino, non si sarebbono collocati in luoghi piú eletti del cielo di favorirvi e spargere sopra voi i loro felici influssi, che nell’ascendere, che nel mezzo del cielo, tutti in angoli, in congiongimenti e felicissimi aspetti di trini e di sestili; e in fortuna, sepolti in luoghi deboli e radenti.
Pandolfo. Sappiamo bene il valore vostro: che sforzate i cieli a fare a vostro modo. Ecco colui che vuole transformarsi.
Albumazzar. Di buona indole.
Vignarolo. Padron mio, nulla mi duole.
Albumazzar. Di questo date grazia al Fattore del cielo, delle stelle, influssi planetari celestiali, che t’ha fatto uomo, che per forza del suo intelletto va penetrando i suoi secreti naturali.
Pandolfo. Vi prego che quanto prima si può si dia principio all’opra.
Albumazzar. Primieramente bisogna trovar una camera terrena che sia rivolta al levante, che è la piú benigna parte del cielo; che non abbia fenestre al ponente; ...
Gramigna. (Quel «levante» è il miglior luogo, ché da quel levante levaremo le robbe della casa; quel «ponente» è suo contrario, ché non ci porrá altro del suo che parole).
Albumazzar. ... e che sia in tutto conversa al settentrione: che, secondo la opinione di Zoroastro, figlio di Oromasio persiano, Iarca bracmane, Tespione gimnosofista, Abbari iperboreo, Ermete Trismegisto, Budda babilonico, e tutt’i caldei e cabalisti, i cattivi influssi del cielo vengono da settentrione, che è la parte di dietro del cielo. ...
Gramigna. (E massime quando quel vento non può star ristretto e vien fuori per la strada di dietro, che si chiude fra due monti rotondi della sfera della luna, con influssi umidi).
Pandolfo. O grandissima sapienza, o mirabilissima astrologia!
Gramigna. (Con quei nomi bizzarri l’ha pieno di spavento e di stupore!).
Albumazzar. ... E se pure la fenestra settentrionale s’apre in qualche vicolo deserto, non sarebbe tanto cattiva.
Gramigna. (Va designando le finestre donde possiamo aver la robba, ma ogni fenestra sará settentrionale per lui).
Pandolfo. Vi porterò in mia casa, e voi vi eleggerete quella stanza che vi piace.
Albumazzar. Or, declinando dalla goezia alla teurgia, farmacia, neciomanzia, negromanzia, arte notoria e altre vane e superstiziose scienze, ci attaccaremo all’arte prestigiatoria che illude e perstringe gli occhi, che fan vedere una cosa per l’altra. ...
Gramigna. (Giá spaccia la sua mercanzia, chiacchiere e menzogne e carote in furia).
Albumazzar. ... E perché la Luna è quel pianeta in cielo che si transforma in piú forme — che dalla neomenia in sette giorni sin alla dicotoma, e dalla dicotoma in sette altri giorni al panselino, e in sette altri dal plenilunio alla dicotoma, e in altretanto al panselino, — ci serviremo di quella nella nostra operazione; ...
Pandolfo. Oh cose altissime!
Gramigna. (Giá tuttavia entrano le carote).
Albumazzar. ... perché con quel suo mostrarsi in varie forme, mostra agli uomini d’intelletto che ella sola può fare questa maravigliosissima metamorfosi. ...
Pandolfo. Oh che altissime cagioni!
Albumazzar. ...Onde bisogna ornare prima quella camera di drappi bianchi finissimi lunari, e se fossero di tela d’argento, assai meglio; ...
Gramigna. (Quei panni ti faranno trionfar per molti giorni).
Albumazzar. ... la terra coperta di lini bianchi e sottili; ...
Gramigna. (Per camiscie, fazzoletti, calzette e pedali).
Albumazzar. ... un altar nel mezzo della camera, con vasi d’argento, bacili, bocali, candellieri e turribuli; e se vi fossero alcuni vasi d’oro non saria male, per la fratellanza che ave il Sol con la Luna e per piú onorarla: ...
Gramigna. (Vuol che ci bastino per molti mesi ancora).
Albumazzar. ... ché con tal bianchezza e puritá si allettano li influssi lunari, perché questo apparecchio si fa per la Luna. ...
Gramigna. (Anzi per noi, ché ci alletteranno e provocheranno piú che il Sole e la Luna).
Albumazzar. ... Bisognano ancor per lo sacrificio e per certe altre ceremonie animali bianchi lunari, come una vitella di latte ma tutta bianca, ma se pur avesse qualche macchia piccola, non importa: ...
Gramigna. (E ancorché fosse tutta nera, pur ce la mangiaremo, non dubitate).
Albumazzar. ... cosí alcuni capponi, piccioni e vini bianchi per spruzzar sul foco, come chiarelli, grechi, vernacce, e quanto piú vecchio e brillante tanto migliore, e con quanta maggior abbondanza tanto l’opra sará piú agevole a riuscire: che in queste cose «chi piú spende manco spende», e «se non si fa oggi non si fa in cento anni», perché è la massima congiunzione di pianeti.
Gramigna. (Oh che sia benedetto un tal astrologo! ché senza buoni vini il banchetto non poteva riuscire bene; e carichi di robbe e di cibi ci partiremo da Napoli allegramente).
Pandolfo. Come farò che non ho tanti drappi in casa né tanti argenti?
Albumazzar. Potrete tôrgli in prestito, ché serviranno solo per quattro ore e si potranno restituire a’ padroni subito subito. E se vi fossero alcune provature bianche e fresche e altri frutti bianchi, pur sarebbono a proposito.
Gramigna. (E ci vuol l’acconciabocca ancora).
Pandolfo. Tutto si ará.
Albumazzar. Ma avertite che, doppo fatta l’opra, vo’ la catena d’oro promessame per elemosina delle mie fatiche.
Pandolfo. Le cose son troppo care.
Albumazzar. Tanto le dolcezze d’amore saranno piú care, perché costono; né amore e avarizia stanno bene insieme.
Pandolfo. Orsú! prometto, doppo che avete trasformato il servo, donarvi quanto vi ho promesso.
Gramigna. (Diavolo, sazialo tu! dubito che il troppo chiedere non li faccia perdere il tutto).
Albumazzar. Or andiamo a fare l’elezione delle camere, poi datemi licenza che vada a prepararmi.
Pandolfo. Andiam presto, ché «il presto è il padron de’ negozi». — Vignarolo, non partirte di qua né dir parola ad uomo di quanto hai inteso, ancorché ci andasse la vita.
Vignarolo. E se mi uccidessi non mi partirei di qua, né se mi cavassi la lingua parlarei.
SCENA IV.
Cricca, Vignarolo.
Cricca. Vignarolo, che vai facendo?
Vignarolo. Castelli in aria.
Cricca. Di che cosa?
Vignarolo. Il padrone mi ha commandato che non lo dica ad uomo.
Cricca. Dillo a me che sono una bestia.
Vignarolo. No no: sai che da me son secreto; quanto or ci debbo essere che me l’ha commandato il padrone?
Cricca. Io non lo voglio sapere se bene mi pregassi.
Vignarolo. Se non lo dico, potrebbe essere che mi facesse una postema nel corpo e mi crepasse.
Cricca. Ma pure... .
Vignarolo. L’astrologo mi vuole transformare in Guglielmo: entrarò in casa sua, darò Artemisia per moglie al padrone e l’Armellina al vignarolo.
Cricca. Hai detto bene che fai castelli in aria che si risolveranno in fumo. Ma eglino dove sono?
Vignarolo. Son entrati in casa per eleggere la stanza per la transformazione.
Cricca. (Oimè, la cosa va calda! l’astrologo fará certo l’effetto: il vecchio avrá Artemisia a dispetto di suo fáglio e di Lelio suo fratello! Non è da perdere tempo: troverogli e avisarogli del fatto, e ripararemo questo accidente. Ma cercarò se posso prima disuader questo asino). Ma dimmi: come ti metti a tanto pericolo? ché nel disfar della persona ci va il pericolo della vita.
Vignarolo. Non ci è pericolo, no.
Cricca. Come no? se ti tagli un dito si sente cosí gran dolore, che sará quando si disfará il tutto? Il padrone, con grandissime promesse che mi ha fatte, non ci ha potuto coglier me: ci ha colto te che sei una bestia.
Vignarolo. Me ne vien molto commodo.
Cricca. Da questo commodo ne viene molto incommodo: il desiderio ti fa precipitare, e per dilettare i tuoi appetiti incapparai in qualche mala ventura.
Vignarolo. Me l’ha consigliato il padrone ed io lo vo’ fare.
Cricca. I cattivi consegli fanno cattiva riuscita: per lo piú cadono sopra coloro che l’ordiscono.
Vignarolo. Lego l’asino dove vuole il padrone.
Cricca. Dubito che questo «asino» e questo «ligare» non siano un capestro che ti leghi e ti strangoli il collo; perché oltre il pericolo di disfare, come si scopre la forfantaria, Lelio suo figlio con la corte te ne fará patir la penitenza.
Vignarolo. La patirá quel Guglielmo che paio, non quel Vignarolo che sono.
Cricca. (Stiman costui un asino, ma asino son io che lo stimava un asino. Ma eccoli che vengono fuori. Non vo’ che ne veggano insieme: andarò e avisarò Lelio ed Eugenio del tutto).SCENA V.
Albumazar, Pandolfo, Vignarolo.
Albumazar. La casa è molto a proposito. Io andrò a tôr le mie armi, astrolabi, meteoroscopi, e per via di azimut e almicantarat prepararò le cose necessarie. Voi andate a tôr li argenti e paramenti in prestito e l’altre cose che vi ho detto, e lasciate ordinato in casa che si sgombri la camera e poi s’orni.
Pandolfo. Sará fatto in un subito quanto avete ordinato.
Albumazar. Vo e volarò qui fra poco.
Pandolfo. Andate felice! — Vignarolo, di’ a Sulpizia che cali giú li addobbamenti di damasco con quelle trine d’oro e tutti gli argenti miei, e che sgombri la camera e l’adorni tutta; e torna volando.
Vignarolo. Cosí farò.
Pandolfo. O felice me, o benedetto astrologo! eccomi giunto a quanto mai ho desiderato: posseder Artemisia per isposa. Cancaro! se ci dovesse andar la vita. E non mi par che mai giunga quell’ora; oh, quanto tarda il vignarolo! — Finiamola, a che dimori tanto?
Vignarolo. Eccomi!
Pandolfo. Vien meco a portar vasi di argento che mi farò prestar dagli amici, li animali e quei liquori.
Vignarolo. Vengo.
SCENA VI.
Eugenio, Lelio giovani, Cricca servo.
Eugenio. Queste son pur le gran maraviglie che ne racconti, ed io non basto a crederle.
Lelio. Chi è costui che opra cosí gran maraviglie?
Cricca. Uno astrologo nuovamente stampato, che con le sue astrologherie astrologa tutti gli uomini.
Lelio. Che ha che fare l’astrologia col transformare un uomo nell’altro?
Cricca. Che so io? non potrei tanto dirvene che non restasse piú a dirvene.
Lelio. Che ne sai?
Cricca. L’ho visto con questi occhi.
Lelio. Gli occhi vedono alle volte cose che non furono mai.
Eugenio. E ci vuoi far credere che l’hai visto?
Cricca. Se non l’ho visto con gli occhi miei, che non vegga piú mai!
Eugenio. Ci vuole far vedere la luna nel pozzo.
Lelio. Saremo, Eugenio caro, tanto da poco in cose che i nostri padri in cosí disconvenienti desidèri sappino piú di noi? e che vogliamo lasciarci tôr le spose senza volerci aiutare? Destiamoci noi stessi: pur chi s’annega, mena le braccia e le gambe per non lasciarsi morire; però in questa tempesta d’amore meniamo le mani con i piedi per non lasciarci peggio che morire e per non averci a doler poi della nostra negligenza e non aver fatto quanto umanamente può farsi.
Eugenio. Non credo sia maggior miseria di quella ove noi siamo, poiché padre e figliuolo, tutti, mirano a un segno; né posso imaginarmí come per tante ripulse che li avete dato, pur non si arresta di chiederlavi.
Lelio. Ogni ora, ogni momento da diversi amici e parenti mi fa parlare, sempre con nuove proposte o nuove offerte; né io posso darli tante sconcie ripulse quanto egli con piú vantaggiosi partiti si offerisce. Io non ho voluto con piú aspre parole ingiuriarlo e modi disconvenevoli per non disconciar il fatto nostro.
Eugenio. Ed è possibile che non abbiamo un amico, un parente che lo facci accorto di questo suo amorazzo, che un uomo di ottantacinque anni voglia per moglie una giovanetta di sedeci in diecisette anni?
Lelio. Non è per mancamento di amici o di parenti; ma niun vuole intricarsi o trapporsi fra padri e figliuoli.
Eugenio. Non sarebbe buon Cricca, di cui tanto si fida e ascolta i consigli suoi?
Lelio. Bisognarebbe farli un salvacondotto per le spalle: ché egli sta tanto impazzito in questa pazzia sua che, come entra a dissuaderlo, egli entra in rabbia e gioca di bastonate, onde bisogna secondare li suoi desideri e promettere di aiutarlo; ma egli si avisa subito del tutto.
Eugenio. Ma sono tanto assassinato dalla sorte che vorrei incrudelirmi contro me stesso; e se fosse altri che mio padre, con le mie mani me lo torrei dinanzi.
Lelio. Vogliam perciò disperarci? bisogna ovviar con qualche rimedio.
Eugenio. Cricca, speriamo in te: insegnaci ché siamo tuoi discepoli.
Cricca. Non bisogna sperar se non nella fortuna, la qual suol trovar modo di sollevar l’uomo ne’ maggiori suoi travagli quando manco si pensa, e abbassa chi sta piú al sicuro.
Eugenio. Cricca, sopporti che la miglior perla cada in bocca al piú tristo porco?
Lelio. O fatiche, o passi sparsi, e sparsi poi tanto amaramente!
Eugenio. Che dici? che pensi? parla un poco.
Cricca. Qui non bisogna pensar molto né parlar assai: la cosa istessa ci apporta rimedio; e se son contrario al padron, mi perdoni, ché mi par cosa fuor di servitú lasciar di servir i giovani che hanno a vivere piú longo tempo, per servir vecchi che hanno a morire fra poco.
Eugenio. Cavami da cosí gran pericolo.
Cricca. Sarebbe veramente gran pericolo se non fussimo avisati; ma sapendo il tutto, cessa il pericolo.
Eugenio. E come?
Cricca. Quando si vedrá venir Guglielmo in casa con parole umili e piene di compassione, con dir che sia scampato dal naufragio e venuto a casa, via, cacciarlo, e non volendosi partire, che giuochi a bastone!
Lelio. Non saria meglio prenderlo e tenerlo in buona custodia; e come è tornato nella sua forma, porlo in mano della giustizia e farlo castigare?
Cricca. No, ché il padrone stimarebbe che l’aviso fosse uscito da me, ed io ne portarei la penitenza che giá questa mattina me l’ha promessa. Non tanti consigli: avisate quei di casa che, volendo Guglielmo entrare in casa, lo scaccino quanto prima.
Lelio. Cosí si fará: io andarò a casa ad avisar tutti del fatto; tu partiti, ché non sii visto con noi ed entrino in sospetto.
Eugenio. Cosí si faccia.
Lelio. Signor Eugenio, mi raccomando.
Eugenio. Signor Lelio, servitor vostro.
SCENA VII.
Eugenio, Cricca, Artemisia.
Eugenio. Cricca, raccommandami ad Artemisia mia.
Cricca. Raccommandatevegli voi stesso. Non vi sète accorto che mentre avete ragionato col fratello, che v’ha vagheggiato dalla fenestra?
Eugenio. Veggio scoprire il mio sole: e come il sole sorgendo la mattina, vien il mondo a rischiararsi e farsi bello, che era dinanzi tenebroso e pien di orrore; cosí apparendo voi, mio chiarissimo sole, le tenebre e amaritudini del mio cuore tutte si fanno illustri, e mi riempie il cuore di dolcezza.
Artemisia. Siate il ben trovato, spirito dell’anima mia!
Eugenio. Siate la benvenuta, dolcissimo sostegno della mia vita! Mi par che siate di mala voglia.
Artemisia. E disperata ancora, poiché in tanto tempo non veggo favilla alcuna di luce con cui avvivi la speranza dell’esser vostra.
Eugenio. Signora, il disperarsi è un tradire se stesso; però non piangete se mi amate, ché con le vostre lacrime consumate la vita mia, le quali, se non le rasciugate tosto, mi faran tosto venir meno.
Artemisia. Deh! lasciatemi piangere e morir ancora, perché non è persona tanto disperata che non abbia qualche speranza di sperare, eccetto io che non ho che sperare se non nella morte come solo rimedio de’ miei mali.
Eugenio. Ah, signora, avendovi conosciuta sempre d’alto cuore, di gran fortezza e di eccelsa mente, come vi lasciate cosí vincere dal dolore?
Artemisia. Anzi, se mi amate, dovete piangere meco, ché quando duo amanti piangono le communi disaventure è uno sfogamento delle lor passioni.
Eugenio. Ma perché tanto affliggervi?
Artemisia. Primieramente temo che non m’amate.
Eugenio. Ahi, fiera stella, e come può cadere in voi cosí brutto pensiero se sapete certo che vi amo da dovere e il nostro amore è reciproco? E se potessi aprire il petto vedereste un tempio nel cui altare arde sempre il mio cuore in sacrificio dinanzi l’idolo della vostra bellezza, la qual è tale che fa stupire non solo il mondo ma l’istessa natura che vi ha creato, ornata poi di tanti mezi d’onori e di costumi, li quali gareggiano con la bellezza e giá si hanno acquistato li titoli di magnificenza. I vostri meriti sono tali che meritarebbono altro uomo che non sono io; ma perché conosco solo i vostri meriti, per il grande amore che li porto, mi par che possa meritarli.
Artemisia. Se cosí è, perché scorgo in voi tanta tepidezza in sollecitar le mie nozze? Voi sète d’accordo con Lelio mio fratello. Non vedete che l’indugio vi potrebbe apportar qualche disturbo?
Eugenio. Non considerate, signora, che ho un padre concorrente nell’amor mio? e se ben mi veggio in tante difficoltá e rispetti di mio padre, pur Amor non permette che cangi voglia. Il padre cerca privarmi di quello che mi si deve per amore; io ne prego e riprego vostro fratello, e dubito per la troppa importunitá di esserli molesto: avemo sofferto tanto, soffriamo un altro poco. Non è cosa da valoroso voler la corona e il trionfo prima che abbia combattuto: soffriamo, ché Amor ci coronerá del nostro soffrire.
Artemisia. Mio padre non vuol darmivi per sposa se egli non conseguisce da voi Sulpizia: vuol comprar l’amor di vostra sorella col mio riscatto e vuole che io sia il prezzo de’ suoi desidèri. Vuol servirsi di me per medicina del suo male, di me che sono inferma e ho bisogno di medicina per me stessa nella mia infermitá; ed io, misera! non so far altro che amaramente piangere, sospirare e consumarmi.
Eugenio. Datevi pace, ché forse Amore vi consolará.
Artemisia. Quel «forse» è una magra speranza. Di piú par che d’ora in ora mi veggia comparir Guglielmo mio padre, che non sia morto e che voglia ch’io mi sposi con Pandolfo: e questa notte me l’ho insognato tornar sano e salvo dal naufragio, di che ne ho preso tanto spavento che non sará bene di me per un anno. Però vi prego che vi affrettiate e mi cacciate di tanta angoscia.
Eugenio. Non bisogna, signora, aver téma de’ sogni, che nascono in noi da quelli effetti che sommamente temiamo e desideriamo. Se i sogni riuscissero, io sarei felice: quante volte mi son sognato con voi e non mi è riuscito? Piú tosto vorrei che riuscissero i miei che i vostri sogni.
Artemisia. Padron caro, dubito che non sopravenga mio padre. Dio sa con che cuor vi lascio! Vi bacio le mani; e perché io non posso baciarvi le mani, vi cerco un favore.
Eugenio. Eccomi prontissimo a servirvi.
Artemisia. Che mi doniate i vostri guanti; ché baciando quelli mi parrá di baciare le vostre mani, e vestendone le mie mani parrammi che tenga strette le vostre mani.
Eugenio. Eccoli; e date a me i vostri in ricompensa, acciò io senta quella medesima dolcezza de’ vostri, che voi dite sentir de’ miei.
Artemisia. Eccoli: e piaccia a’ cieli che come abbiamo scambiati i guanti, cosí abbiamo scambiati i cuori, che come il mio è fatto suo, cosí il suo sia fatto mio.
Cricca. Finiamola, signor Eugenio, andiamo via.
Eugenio. Ahi, che dura dipartita!SCENA VIII.
Artemisia, Sulpizia giovane.
Artemisia. Signora Sulpizia, vi bacio le mani.
Sulpizia. O signora Artemisia, perdonatemi, ché non v’avea visto.
Artemisia. Avete forse l’animo ingombrato di qualche travaglio, poiché non vedete le persone che vi stan dinanzi?
Sulpizia. Veramente è come dite; e stimo che li medesimi travagli, che travagliano voi, travagliano ancor me: che ambedue ne affligga un medesimo male.
Artemisia. Misera me, che dispiacere feci a mio padre mai, che meriti che mi dia quel vecchio cadavero e putrefatto di vostro padre per marito? questo è il premio della ubidienza che li ho portata tanti anni? Però non devrebbono maravigliarsi le genti quando odono che noi poverelle facciamo qualche scappata, perché ne sono cagione i nostri padri.
Sulpizia. Certo che questi vecchi quanto vanno piú innanzi di etá tanto manco vedono di cervello: il troppo vivere gli fa rimbambire e non san quel che facciano. Misera e infelice la condizione di noi povere donne; e con ragione si fa dirlo in quella casa dove nasce una femina! Anzi dovrebbono le nostre madri, quando nascemo, affogarci, nascendo al mondo per un ritratto di tutte le umane sciagure. Da che nasciamo stiamo sempre ristrette fra quattro mura come in continue prigioni, sotto le severe leggi e rigide minacce de’ padri, madri, fratelli e parenti, e massime quando stiamo innamorate; ché dove gli uomini, conversando con le persone, trasviano quei vivaci pensieri che gli fan star sempre vigilanti negli amori, a noi è forza sepelirgli nel cuore, né meno sfogarli con un minimo sospiro, che non so come non scoppiamo di doglia.
Artemisia. Ed il peggio è che volendo maritarci ci voglian dar marito a lor gusto, o per loro particolari interessi darci per marito uno, col quale abbiamo a vivere fino alla morte, contro la nostra volontá, con dir che avendoci vestite di queste membra è forza che siamo ubidienti. E triste noi se una sola parola li rispondiamo in contrario! siamo le presontuose, sfacciate e col capo pieno di grilli! E cosí, non essendo il marito a nostra volontá, bisogna che stiamo sempre in discordi voleri e in una perpetua guerra; e però non dovrebbono dolersi, se ne togliemo uno a lor piacere, ce ne togliamo uno a nostro gusto.
Sulpizia. Che legge è questa d’aver fondato l’onore nelle azioni di noi povere donnicciuole? dove gli uomini, per essere piú savi e di maggior forza per fare resistenza a’ loro appetiti, si sfogano le loro amorose passioni, si procacciano sempre nuovi trastulli con diverse donne, commettendo adultèri e stupri a lor modo; e se di noi meschine s’avveggono di qualche cenno o ambasciata, subito: — Scanna, uccidi, ammazza; spade, pugnali, coltelli! — Che legge maladetta è questa!
Artemisia. Eh, sorella, queste leggi se le han fatte gli uomini a lor modo; se toccasse a noi, ce le faressimo al nostro. Ma assai siamo noi infelici per ora: senza che andiamo rammemorando le nostre sciagure, ragioniamo di altro. Ditemi di grazia, se parlate mai di me col vostro fratello.
Sulpizia. Sempre di voi.
Artemisia. Che dice su questo fatto?
Sulpizia. Bestemmia la sua sorte crudele, i pazzi umori di suo padre, e si consuma in lamenti, in dolori. Ma Lelio, quando li parlate di me, che risponde?
Artemisia. Lagrime e sospiri; e credo ben che se Amor non lo aiuta in questo estremo punto, che saranno brevi i giorni suoi.
Sulpizia. Di grazia, raccomandatemi a lui.
Artemisia. Ed il medesmo vi prego che facciate di me al vostro.