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338 lo astrologo

sorella col mio riscatto e vuole che io sia il prezzo de’ suoi desidèri. Vuol servirsi di me per medicina del suo male, di me che sono inferma e ho bisogno di medicina per me stessa nella mia infermitá; ed io, misera! non so far altro che amaramente piangere, sospirare e consumarmi.

Eugenio. Datevi pace, ché forse Amore vi consolará.

Artemisia. Quel «forse» è una magra speranza. Di piú par che d’ora in ora mi veggia comparir Guglielmo mio padre, che non sia morto e che voglia ch’io mi sposi con Pandolfo: e questa notte me l’ho insognato tornar sano e salvo dal naufragio, di che ne ho preso tanto spavento che non sará bene di me per un anno. Però vi prego che vi affrettiate e mi cacciate di tanta angoscia.

Eugenio. Non bisogna, signora, aver téma de’ sogni, che nascono in noi da quelli effetti che sommamente temiamo e desideriamo. Se i sogni riuscissero, io sarei felice: quante volte mi son sognato con voi e non mi è riuscito? Piú tosto vorrei che riuscissero i miei che i vostri sogni.

Artemisia. Padron caro, dubito che non sopravenga mio padre. Dio sa con che cuor vi lascio! Vi bacio le mani; e perché io non posso baciarvi le mani, vi cerco un favore.

Eugenio. Eccomi prontissimo a servirvi.

Artemisia. Che mi doniate i vostri guanti; ché baciando quelli mi parrá di baciare le vostre mani, e vestendone le mie mani parrammi che tenga strette le vostre mani.

Eugenio. Eccoli; e date a me i vostri in ricompensa, acciò io senta quella medesima dolcezza de’ vostri, che voi dite sentir de’ miei.

Artemisia. Eccoli: e piaccia a’ cieli che come abbiamo scambiati i guanti, cosí abbiamo scambiati i cuori, che come il mio è fatto suo, cosí il suo sia fatto mio.

Cricca. Finiamola, signor Eugenio, andiamo via.

Eugenio. Ahi, che dura dipartita!