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336 lo astrologo


Cricca. No, ché il padrone stimarebbe che l’aviso fosse uscito da me, ed io ne portarei la penitenza che giá questa mattina me l’ha promessa. Non tanti consigli: avisate quei di casa che, volendo Guglielmo entrare in casa, lo scaccino quanto prima.

Lelio. Cosí si fará: io andarò a casa ad avisar tutti del fatto; tu partiti, ché non sii visto con noi ed entrino in sospetto.

Eugenio. Cosí si faccia.

Lelio. Signor Eugenio, mi raccomando.

Eugenio. Signor Lelio, servitor vostro.

SCENA VII.

Eugenio, Cricca, Artemisia.

Eugenio. Cricca, raccommandami ad Artemisia mia.

Cricca. Raccommandatevegli voi stesso. Non vi sète accorto che mentre avete ragionato col fratello, che v’ha vagheggiato dalla fenestra?

Eugenio. Veggio scoprire il mio sole: e come il sole sorgendo la mattina, vien il mondo a rischiararsi e farsi bello, che era dinanzi tenebroso e pien di orrore; cosí apparendo voi, mio chiarissimo sole, le tenebre e amaritudini del mio cuore tutte si fanno illustri, e mi riempie il cuore di dolcezza.

Artemisia. Siate il ben trovato, spirito dell’anima mia!

Eugenio. Siate la benvenuta, dolcissimo sostegno della mia vita! Mi par che siate di mala voglia.

Artemisia. E disperata ancora, poiché in tanto tempo non veggo favilla alcuna di luce con cui avvivi la speranza dell’esser vostra.

Eugenio. Signora, il disperarsi è un tradire se stesso; però non piangete se mi amate, ché con le vostre lacrime consumate la vita mia, le quali, se non le rasciugate tosto, mi faran tosto venir meno.

Artemisia. Deh! lasciatemi piangere e morir ancora, perché non è persona tanto disperata che non abbia qualche