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atto secondo | 339 |
SCENA VIII.
Artemisia, Sulpizia giovane.
Artemisia. Signora Sulpizia, vi bacio le mani.
Sulpizia. O signora Artemisia, perdonatemi, ché non v’avea visto.
Artemisia. Avete forse l’animo ingombrato di qualche travaglio, poiché non vedete le persone che vi stan dinanzi?
Sulpizia. Veramente è come dite; e stimo che li medesimi travagli, che travagliano voi, travagliano ancor me: che ambedue ne affligga un medesimo male.
Artemisia. Misera me, che dispiacere feci a mio padre mai, che meriti che mi dia quel vecchio cadavero e putrefatto di vostro padre per marito? questo è il premio della ubidienza che li ho portata tanti anni? Però non devrebbono maravigliarsi le genti quando odono che noi poverelle facciamo qualche scappata, perché ne sono cagione i nostri padri.
Sulpizia. Certo che questi vecchi quanto vanno piú innanzi di etá tanto manco vedono di cervello: il troppo vivere gli fa rimbambire e non san quel che facciano. Misera e infelice la condizione di noi povere donne; e con ragione si fa dirlo in quella casa dove nasce una femina! Anzi dovrebbono le nostre madri, quando nascemo, affogarci, nascendo al mondo per un ritratto di tutte le umane sciagure. Da che nasciamo stiamo sempre ristrette fra quattro mura come in continue prigioni, sotto le severe leggi e rigide minacce de’ padri, madri, fratelli e parenti, e massime quando stiamo innamorate; ché dove gli uomini, conversando con le persone, trasviano quei vivaci pensieri che gli fan star sempre vigilanti negli amori, a noi è forza sepelirgli nel cuore, né meno sfogarli con un minimo sospiro, che non so come non scoppiamo di doglia.
Artemisia. Ed il peggio è che volendo maritarci ci voglian dar marito a lor gusto, o per loro particolari interessi darci per marito uno, col quale abbiamo a vivere fino alla morte,