Le donne di casa Savoia/XXI. Maria Cristina di Borbone

XXI. Maria Cristina di Borbone

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XX. Margherita di Savoia XXII. Adelaide di Savoia

[p. - modifica] Maria Cristina di Borbone
(Madama Reale)
moglie di Vittorio Amedeo I
1606-1663.
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XXI.

MARIA CRISTINA DI BORBONE

Duchessa di Savoia

n. 1606 — m. 1663



Il periglio dell’uomo è nel suo cuore,
E col periglio la virtù d’uscirne.

Milton


E
rano principale ornamento della reggia di Enrico IV di Francia, le tre belle giovinette figlie di lui e della sua seconda moglie Maria dei Medici, le quali, giovanissime, venivano già ambite in matrimonio da vari principi.

Carlo Emanuele I, Duca di Savoia, crucciato con la Spagna, pensò un momento di amicarsi la eterna rivale di lei, la Francia, e a questo scopo aperse trattative con il Re Enrico IV, onde congiungere in matrimonio il suo figlio primogenito, Vittorio Amedeo, con la principessa Elisabetta, primogenita del Re. Ma la morte colpì improvvisa Enrico IV, mentre tali trattative non erano che in germe; e il figlio suo e successore, Luigi XIII, maritò la fanciulla al Re di Spagna, forse ignorando quei tenui preliminari. [p. 220 modifica]Le feste splendide, che avevano circondato il matrimonio della sorella, chiamata ad occupare un trono in sì giovane età, abbagliarono talmente la sorellina di lei, Cristina, che da quel giorno non ebbe altro desiderio che esser Regina. A tale scopo si guardò intorno, onde adocchiare qual corona più le sarebbe stato agevole di cingere, e le piacque quella d’Inghilterra, personificata nell’attraente Principe di Galles. Vi era però una difficoltà in quegli ingenui ed intimi piani; il principe era protestante!... Niente paura; Cristina, con quell’audacia e quello slancio che dovevano dare l’impronta al di lei carattere, risolvè di farlo cattolico.

Davvero che le difficoltà non spaventavano l’ardita figlia di Maria dei Medici, che traeva tanto dalla madre per la sete del comando, l’inclinazione agli intrighi diplomatici, e per quel prepotente istinto del bello e del grandioso in arte, che Maria aveva seco portato da Firenze, la città artistica per eccellenza, mentre aveva del padre, con alcuni tratti della fisonomia, di cui tanto si gloriava, il coraggio virile e la vivacità dei modi.

Ma prima ch’ella avesse potuto tentare, neppur col pensiero, la fede del suo ideale (che la sorte riserbava invece alla sorella minore, Enrichetta Maria), capitò a Parigi un figlio di Carlo Emanuele I, il Cardinale Maurizio di Savoia. Fu accolto con gran giubilo e magnificenza, ed incaricato come era, dal padre, di chieddere al Re, pel fratel suo, la mano della di lui seconda [p. 221 modifica]sorella, chiese di essere ricevuto anche a Blois, dalla Regina madre, che ne ebbe sommo piacere, e colla quale subito si scuoprì, pregandola di favorire quell’alleanza. Maria che, sebbene lontana da molti anni, vagheggiava sempre la sua bella Italia, si mostrò subito favorevole all’unione di sua figlia con un principe italiano, e promise al Cardinale tutto il suo appoggio.

Tale notizia, presto sussurrata nei circoli di Corte, fu per Cristina un fulmine a ciel sereno, e sul principio non volle crederla, tanto le spiacque.

Ma quando la domanda fu ufficialmente rivolta al Re, e che questi, circondato da tutta la pompa regale e dai grandi dignitari di Corte, vi ebbe dato affermativa risposta, Cristina, che non era stata anticipatamente neppure interrogata, si rassegnò, sospirando, a non avere in prospettiva che una corona ducale.

Mentre si gettavano le basi del contratto nuziale, il principe Maurizio fu oggetto di mille cure e gentilezze, e venne accolto in tutte le dimore e in tutte le villeggiature della famiglia reale, con feste geniali, caccie e banchetti: e vuolsi che, fin d’allora, non fosse insensibile alle grazie della futura cognata.

Quando poi tutto fu disposto e stabilito, Vittorio Amedeo, bel giovane allora di trentadue anni, s’indirizzò alla volta di Parigi, scortato dal fratello, principe Tommaso di Carignano. Le feste si rinnovarono al suo arrivo, ancor più splendide ed entusiastiche, e l’accoglienza che ricevè dalla popolazione e dalla famiglia reale, fu addirittura lusinghiera. [p. 222 modifica]E Vittorio Amedeo la meritava, perchè dal suo volto traspariva la bontà dell’animo e la gioia del cuore, virtù che promettevano la felicità alla principessa che andava ad impalmare.

La cerimonia del matrimonio, sontuosissima, ebbe luogo a S. Germano il 10 febbraio 1619, in un giorno di domenica, con grande affluenza di popolo e di curiosi. Le successero, segnalate da veri trasporti di gioia, feste magnifiche, a cui lo stesso Re prese parte attiva e non ultima, e durante le quali il broncio sparì anche dal visetto della sposina tredicenne, che forse pensava come anche una corona di Duchessa non fosse sprezzabile, quando chi gliela offriva si chiamava Vittorio Amedeo, il quale, in quei giorni, non aveva davvero occhi che per lei.

Maria Cristina era bella, e di bellezza italiana, rammentando nell’armonia dei lineamenti la splendida,beltà di sua madre. Su quella maestosa fisonomia si leggevano insieme la serenità e la dolcezza, onde invece di risvegliare la freddezza invitava alla confidenza. Il sorriso aveva spontaneo e frequente, ma quando si atteggiava a severità o ad imponenza, pochi potevano sopportare quello sguardo acuto e fosforescente. Ricca e bella era la sua capigliatura bionda, gli occhi azzurri, il naso piuttosto grande, un poco larga la bocca, ma il tutto armoniosamente disposto e pieno di attrattive. Aggiungete a tutto ciò la giovinezza, e tirando la somma dovremo concludere che anche Vittorio Amedeo poteva chiamarsi contento. [p. 223 modifica]Terminate le feste, detto addio alla patria, Cristina col marito s’indirizzò a Grenoble, ove Carlo Emanuele erasi recato ad incontrare la giovane nuora, dalla -quale rimase subito affascinato.

Egli volle che sul Cenisio non mancasse agli sposi un’accoglienza geniale, e perciò aveva fatto edificare a Susa un palazzo di nove stanze, con portico retto da due colonne latine, appositamente. Ivi fu loro dato lo spettacolo di una giostra, e la festa fu accompagnata da una tal quiete e serenità d’aria e di cielo insolita in quella regione, che ciò parve presagio di felicità per l’augusta coppia.

A Chambéry la popolazione acclamò entusiasticamente la sposina, e Torino l’accolse con feste, luminarie, tornei, ed una grande rivista data in suo onore, nei pressi del Valentino, possesso di cui il Duca le fece omaggio, come dono di nozze.

I matrimoni principeschi, osserva il Bazzoni nel suovolume su Maria Cristina, sono sempre fatti senza investigare la volontà degli sposi. La politica li consiglia, li guida, li conferma. Da ciò spesso la sventura di due esseri, di differenti aspirazioni, congiunti così indissolubilmente. Cristina fu, come tante sue pari, condotta al talamo inconscia di quanto stava per fare: ignoto le era il marito, i parenti, il popolo di cui in seguito avrebbe dovuto forse governare i destini.

Per felice combinazione, Vittorio Amedeo era inclinato alle miti dolcezze della famiglia, e studiando con premura ed interesse la giovinetta affidatagli, su[p. 224 modifica]bito si accorse di cosa essa abbisognava, e di tante, e sì tenere e delicate cure la circondò, che in breve essa ebbe in lui fiducia illimitata, e gli portò sviscerato affetto. Non era felice che presso di lui, non era contenta se non quando se lo sapeva vicino; e allorché egli era al campo, i pericoli a cui lo sapeva esposto mettevanle in cuore mestizia e desolazione. Gli scriveva continuamente di non esporsi troppo, e di ricordarsi di lei che lo aspettava sano e rigoglioso. E quando non ne aveva lettere o notizie, rimaneva abbattuta, e gli scriveva frasi ardenti ed esagerate, chiedendogli di andare a raggiungerlo, onde stare un poco con lui.

Al primo aprirsi dell’anima di Cristina, essa aveva aspirato a pieni polmoni l’arte e l’amore, e l’indole sua ne aveva ricevuto indelebile impronta. Ebbe la tempra amorosa del padre, ritraendo dalla madre la passione che le aveva fatto innalzare il Luxembourg. Donna, e libera alla sua volta di abbandonarsi agli incanti della vita artistica, la sua mente vagheggiò qualche cosa di grandioso da creare, qualche cosa di sovranamente bello e splendido, a cui dare l’ispirazione. E guardatasi intorno, e non trovando nei possessi reali una villa che completamente la soddisfacesse, pensò al dono di nozze del suocero e trovò ivi campo atto ad occupare la sua attività. In breve il Valentino fu trasformato da capo a fondo; e col concorso dei migliori artisti italiani e francesi, ridotto il luogo di delizie da lei sognato, divenne il suo soggiorno prediletto, e lo abitò sempre, per la maggior parte dell’anno. [p. 225 modifica]Intanto però, come tutte le spose novelle, struggevasi dal desiderio di aver figli, e l'indugio la crucciava, specie quando vide la principessa di Carignano, Maria di Borbone, moglie del principe Tommaso, sposata dopo di lei, e poco sua amica, prima di lei prossima ad esser madre. E se avesse potuto leggere nell'avvenire la sorte di quella discendenza, di fronte alla sua, più che mai se ne sarebbe addolorata.

Rimase finalmente appagato, dopo vari armi di matrimonio, questo suo desiderio, ed ebbe successivamente sei figli, due maschi e quattro femmine, di cui due gemelle, delle quali una non ebbe che brevi giorni di vita.

Prima però che essi valessero ad occuparla e distrarla, via via che si faceva donna, non le bastava più di primeggiare in Corte e di tener lei le fila degli svaghi e dei passatempi; le sue aspirazioni si facevano più alte, oltrepassavano anche i limiti dell'arte, per giungere ad intromettersi nelle cose di Stato. Ma il suocero che se ne intendeva, venne meno in questo alla dimostratale compiacenza, e la tenne lontana da ogni maneggio, del che ella si lamentava in tutte le lettere alla sua famiglia.

Morto Carlo Emanuele I, Vittorio Amedeo I gli successe sul trono il 26 luglio 1630, ed allora Cristina non incontrò più nessuno ostacolo alla sua ardentissima brama. Sul principio però le sue non furono che buone intenzioni; e non avendo esperienza ne degli uomini ne delle cose, non diè neppure prova di sottile [p. 226 modifica]criterio. Ma non era che ai primi passi, e non aveva che ventiquattro anni.

Vittorio Amedeo era amantissimo ed affettuosissimo in famiglia. Troppo buono coi figli, una schiera di monellucci di pochi anni, ch’ei non ebbe la soddisfazione di vedere adulti; troppo condiscendente colla moglie, dalla cui influenza troppo si lasciava dominare; pervenne al potere in cattivo momento, e pur troppo, per la sua debolezza d’animo, distrusse l’opera di suo padre, e ripose il suo Stato alla mercede altrui, con la malaugurata cessione di Pinerolo, da lui fatta alla Francia, nella conclusione della pace di Cherasco. Sicché, con lo Stato invaso per metà dai nemici, per l’altra metà calpestato dagli alleati dei suoi fratelli, malcontenti di quella cessione, egli si trovò presto in tristi condizioni, e abbandonato del tutto dai fratelli, che tennero allora apertamente per la Spagna, d’onde era venuta la loro madre, e per antipatia alla cognata che non poteva soffrirli.

Vittorio Amedeo, non potendo durarla in quell’incertezza, e pur dovendo decidersi per uno dei due competitori eterni, e possibilmente per quello che avesse meno pretensioni, spinto anche da Cristina, ma senza entusiasmo proprio, si decise per la Francia e mise al bando i fratelli.

La guerra ricominciò, ed egli vi prese parte attiva. Dopo la vittoria da lui riportata a Mombaldone, il 25 settembre 1637, il maresciallo Créqui, comandante delle truppe francesi, diè un banchetto nel giorno ap[p. 227 modifica]presso, a Vercelli, dopo il quale doveva tenersi un consiglio di ministri. Vittorio Amedeo, col suo ministro Verrua e il generale Villa, v’intervenne. Uscendo dal pranzo il Duca fu assalito da forti dolori intestinali, e con esso furono del pari colpiti il ministro e il generale. Verrua morì dopo quattro giorni, Villa, più robusto, guarì. Vittorio Amedeo resisteva, ma aggravatosi, fu avvertita la Duchessa, la quale, quantunque convalescente di una leggiera malattia, accorse a Vercelli ove trovò il marito in assai cattive condizioni. Il male crebbe da allora rapidamente, e in breve fece temere per la sua vita.

Fu pensato allora alla salute dell’anima, e ad un testamento che chiamasse Reggente Cristina, il qual testamento fu presto ottenuto, sebbene qualcuno ne impugnasse la validità, dicendo che vi mancava il principal requisito, la volontà cioè del testatore.

Vittorio Amedeo morì il 7 ottobre 1637, e morte tanto repentina e misteriosa fece nascere sospetti di veleno fatto propinare da Richelieu, che volendo sottoporre completamente il Piemonte, trovava in esso un ostacolo.

Fu opinione generale che la volontà di Vittorio Amedeo I, circa la Reggenza da lui affidata alla moglie, fosse più interpretata dai presenti, francesi per la maggior parte e tutti interessati, che espressa; e che il sì da lui risposto alla domanda, fosse un sospiro del morente.

Comunque essi facessero, Cristina non aveva inten[p. 228 modifica]zione di farsi comandare da alcuno, e non era ancora spirato Vittorio Amedeo, che a certi suggerimenti del maresciallo Créqui, essa rispose: «Voglio la mia libertà di agire», tanto che sul principio vi fu dubbio se essa avrebbe tenuto per Francia o per la Spagna.

Rimasta senza nessuna opposizione padrona di Vercelli, riconosciuta tutrice del figliuoletto Francesco Giacinto in età di sei anni, e Reggente per lui, ricevè gli ossequi della Corte e dei funzionari, e, secondo il costume, il giuramento militare della truppa che stava nei dintorni. Poi, scortata dalla cavalleria, s’indirizzò alla capitale.

Compiute tutte le cerimonie indispensabili, entrò in Torino acclamatissima, e preso quel comando che tanto aveva agognato fin da quando era Principessa Ereditaria, pensò subito che il miglior partito era quello di star d’accordo con tutte le potenze ; ma senza accorgersene era raggirata da Richelieu, che voleva minarle il terreno sotto i piedi. E se Luigi XIII, suo fratello, piegava la testa orgogliosa sotto la potente mano del Cardinale, poteva essa sperare di emanciparsene? Del resto, leggera e petulante (non aveva che trentun’anno), perspicace, ma non perfezionata ancora alla scuola della diplomazia, era facile a raggirarsi credendo raggirare, e il Cardinale ben l’aveva compresa.

Assidua nei misteri di gabinetto, tutto mescolava con molta devozione e pratiche di pietà; la religione però la intese a suo modo, secondo le idee del tempo; era convinta cioè che il male fatto si potesse compen[p. 229 modifica]sare col bene, onde, anche operando sinistramente da un lato, trovare la via media operando rettamente dall’altro. E questa logica non corrispondeva all’aspettativa di Richelieu.

Era magnanima nei concetti, splendida nel donare, ma s’inalberava al pensiero di dover cedere parte della sua autorità. Ciò nocque assai al paese e alle popolazioni, perchè se essa, fin dal principio, fosse stata più conciliante coi cognati, come dovè esserlo per forza tre anni appresso, avrebbe risparmiato molte calamità al Governo e alle persone.

Mentre era così gelosa della sua potestà, senza accorgersene l’avrebbe ceduta tutta a chi sapeva raggirare il di lei cuore, come il suo ministro favorito, il conte Filippo d’Agliè. Fortunatamente, questo gentiluomo, di cui dovremo occuparci in seguito, pensava più al bene della patria che al suo particolare, e si deve alla sua influenza buona parte del bene che Cristina fece nell’interesse d’Italia e dei figli.

Del resto, la vita pubblica di Cristina durante la Reggenza, può riassumersi in due parole: lotta e sacrifizio; se non che, felice del ricambiato affetto dei figli e delle calme gioie della vita privata, si ritemprava in questa per quelli, come nella spensierata e dispendiosa vita di Corte, soffocava le noie e le angustie della vita politica.

Posta a dure prove sin dal principio del suo governo, in qualche momento parve piegare dal suo programma, che era di mantenere l’indipendenza del Pie[p. 230 modifica]monte, specie quando rientrati a viva forza nello Stato i cognati, sostenuti dalle armi di Spagna, al sollevarsi delle popolazioni che a quelle in massa si dichiararono favorevoli, essa riconfermò la lega con Francia, che sotto il pretesto di non poter contare sulla fede della truppa nazionale, pose il presidio in varie terre. Ed ecco gli spagnoli prendere occasione da ciò per marciare sopra Vercelli e conquistarla. Così trovavasi la Duchessa bersaglio delle due parti belligeranti, dei nemici cioè, e degli amici, i primi per nuocere, i secondi per ansia di preda, mentre afflitta da pene domestiche avrebbe avuto tanto bisogno di pace.

In un’ampia ed ariosa camera di quella splendida residenza che era il Valentino, in un bianco lettino tutto trine e fiori, sorretto da un’infinità di guanciali, il povero corpicciolo del Duchino Francesco Giacinto andava man mano scolorandosi e perdendo la vitalità. Il povero piccino, gracile sin dalla nascita, sofferente da lungo tempo, soccombeva per asma, rivolgendo alla madre, nelle brevi soste che gli dava il male, parole e frasi così sensate, di conforto e di rassegnazione, miracolose per un bambino appena settenne, e sorrisi e carezze ai fratellini, che avevano del paterno.

E Cristina, che amava quel fanciulletto del doppio e potente affetto della madre e della donna, il 3 ottobre 1638, sentì quel corpicino irrigidirsele fra le braccia, e sfuggirne l’anima nell’ultimo bacio a lei!

Il suo dolore, il suo strazio, furono immensi ; e ancora in lutto per il marito, raddoppiò le gramaglie, e [p. 231 modifica]si ritirò per alcuni giorni nel convento delle Carmelitane onde piangere liberamente e senza testimoni.

A Francesco Giacinto succedeva il fratellino Carlo Emanuele (II), allora di quattro anni. Si ripeterono le formalità del giuramento, e alla madre venne riconfermata la Reggenza. Tutto ciò rinnovò le pretese dei cognati, e i loro dissapori, e finalmente scoppiò quella guerra civile, che pendeva da tanto tempo minacciosa sul Piemonte.

Il principe Tommaso riusciva vincitore ovunque si presentava. Cristina si accinse a difendere Torino minacciata, mandando in sicuro in Savoia il Duchino con le sorelle; e intanto fece sapere a Luigi XIII, che per causa delle di lui pretese erasi ridotta a sì mal partito, perdendo in due mesi la metà del dominio. Ne ebbe in risposta di mandare in Francia i figli, e mettere in sicuro la fortezza consegnandola in mano ai francesi.

Era troppo! Cristina, alla crudele ingiunzione, si sdegnò, pianse, e minacciò chiudersi in un convento, abbandonando il governo ai cognati. Consigliata però dal d’Agliè, che colla sua prudenza temperò sovente le di lei risoluzioni, venne ad una mezza concessione. Doleva però tanto a lei di concedere alla Francia Cavour, che in cambio della forte rocca offerse i suoi diamanti. Ma il ministro francese, con audace impertinenza, le rispose che quei diamanti non avrebbero difeso lo Stato, come e sue lagrime non erano capaci a salvarlo; ed il trattato fu così sottoscritto. Non era, come suol dirsi ancor rasciugato l’inchiostro delle firme, che d’Emmery si [p. 232 modifica]presentò di nuovo alla Duchessa e le chiese il deposito del forte di Revello, che essa gli accordò. Ma saputosi ciò dal principe Tommaso, vi si oppose in tempo, accorse là e potè sorprendere e far prigioniero il piccolo presidio francese, che già vi si era introdotto. Strillò il ministro francese, incolpando di doppiezza la Reggente, ed offriva in cambio Cavour purché gli si lasciasse Revello, ma Cristina rispose che scriverebbe in proposito a Parigi. Tommaso intanto continuava la sua fortunata campagna, e, aiutato dagli spagnoli, prendeva Torino e la cittadella. Ma Cristina, cedendo alla forza, si era ritirata in Savoia, e Tommaso non trovò in Torino alcuno, egli che sperava di avere così in mano il Duchino.

Comprendendo bene il principe essere la Francia che combatteva per la Duchessa, e presentendo che gli si chiederebbe una tregua, pensò di trattare prima direttamente con essa, al che però Cristina si rifiutò.

Nondimeno la tregua fu conclusa, e Richelieu accorgendosi che il Piemonte gli sfuggiva, persuase il Re ad un abboccamento colla sorella a Grenoble. Cristina però, temendo qualche laccio tesole dal Cardinale, invece di condurre seco il figlio, come le si diceva, lo condusse nella fortezza di Mommeliano, affidandolo al governatore, marchese di S. Germano, con l’ingiunzione di non riconsegnarlo che a lei.

Giunse a Grenoble, accompagnata dal conte di Agliè. Fu accolta dal Re con squisita gentilezza, e alloggiata nel palazzo reale, ed essa corrispose con espan[p. 233 modifica]sione all’espansione del fratello. Ma quando Richelieu, temendo che l’affetto fraterno accecasse il Re, si fece avanti, essa, alle di lui pretese, consigliata dal d’Agliè, non cedette. Adirato il Cardinale di non riuscire nel suo intento, le fece dal Re offrire la sua protezione a patto di avere in suo potere la Savoia, Mommeliano, e il Duchino per proteggerlo. Ma Cristina, grande in quel momento, rispose, che se era un buon scudo la protezione della Francia, molto migliore era il possesso di Savoia e Mommeliano, e che la più sicura guardia pel Duchino era sua madre.

Non vi era nulla da rispondere a quelle parole, è vero, ma.... la Francia gliele fece pagar ben care. Intanto il Richelieu volle provare a tentare il d’Agliè, facendogli delle splendide promesse. Il Conte però, che certamente aveva lui stesso consigliata la Duchessa, fu irremovibile a qualunque lusinga, e il Cardinale, sconfitto, gli giurò da quel momento quell’odio che doveva un anno appresso condurlo a ben triste sorte.

Tornata Cristina a Chambéry, senza nulla concludere, e spirata la tregua, furono riprese le ostilità; ma accortosi Richelieu che tutto stava nell’attendere, perchè il frutto da lui desiderato non era ancora maturo, consigliò la Duchessa a quella pacificazione coi cognati, ch’ei sempre le aveva impedita e che ora credeva utile alle sue mire.

Mentre si trattava la cosa, e Torino veniva rilasciata dal principe Tomaso, la città, felice del cambiamento, chiese il ritorno della Duchessa e le spedì a tale uopo inviati a Chambéry. [p. 234 modifica]Essa li accolse con quell’amabilità regale che le era propria, e che le conciliava gli animi di chi ne era l’oggetto, e si dichiarò felice di ritornare, desiderata, presso i suoi amati torinesi. E infatti essa fece il suo ingresso in Torino il 19 novembre 1640, in mezzo alle feste e alle esultanze popolari. Ma i francesi, che sapevano quanto quei preliminari di pace non fossero, per parte loro, punto sinceri, aizzavano, dopo quel ritorno, in ogni circostanza, la suscettibilità ed il furore dei partigiani dei Principi. La qual cosa notando il conte di Agliè, e comprendendo quanto ciò fosse indecoroso e nocivo, consigliò a più riprese la moderazione. Fu allora sussurrato che si fosse fatto egli stesso seguace dei Principi, e giunta l’accusa all’orecchio del Richelieu, quando proprio da lui non fosse partita, questi lo dichiarò traditore, ed ordinò che con qualche astuzia lo si arrestasse.

Correva l’ultimo giorno dell’anno 1640, e per quella sera la Duchessa offriva, nel palazzo reale, uno splendido ballo, che doveva essere preceduto da un pranzo dato dal maestro del campo, al quale erano invitati alcuni magnati francesi e piemontesi, tra cui il conte Filippo d’Agliè. Terminato appena il banchetto, il palazzo dove aveva luogo fu circondato da soldati francesi, ed il Governatore di Cherasco, entrato nella sala ove ancora stavano tutti i convitati, si avvicinò al Conte, e in nome del Re lo dichiarò in arresto.

Protestò il Conte per l’arbitrio e l’abuso, ma siccome niuno si mosse ad appoggiarlo, dovè cedere e lasciarsi condurre in prigione. [p. 235 modifica]Cristina già pronta per il ballo, sorvegliava l’abbigliamento della sua primogenita, la principessa Luisa, di cui in quel tempo assai si parlava, essendo destinata qual pegno della pace che si stava trattando, allorché due o tre di quei gentiluomini, che non avevano avuto una parola di difesa per d’Agliè, le recarono la notizia dell’accaduto, con termini abbastanza delicati onde celare la violenza che era stata adoperata. Ad onta però del riguardo usato, Cristina scattò e corrucciata espresse tutto il suo risentimento, per quella violazione della sua autorità, ordinando che si sospendesse la festa.

Intanto il Conte era nella notte condotto a Pinerolo, sotto buona scorta di cavalieri francesi, e di lì per Lione trasferito rapidamente al Castello di Vincennes in Francia. Prima però di uscire dalla cittadella, era riuscito a scrivere alla Duchessa, dicendole che passava dalla festa alla prigione, dalla città alla fortezza, e la supplicava d’interporsi presso il Re onde lo si rilasciasse libero, e riconosciuto innocente.

La Duchessa gli inviò promessa di tutto il suo aiuto, e spedì tosto in Francia persona di sua fiducia, chiedendo al Re che cambiasse consiglio circa quella che era una violazione della di lei potestà. Le rispose Richelieu, senza del quale Luigi XIII non muoveva foglia e le disse malignamente che, morto il Duca, toccava al Re il prender cura della di lei riputazione, e che tesse tranquilla, dipendendo dal suo modo di comperarsi il bene o il male del Conte.

Il d’Agliè, del resto, materialmente stava benis[p. 236 modifica]simo; era trattato magnificamente, e godeva anche di una certa libertà; gli era soltanto impedito di andare a Parigi, e molto meno di essere veramente libero, sotto il pretesto che egli aveva dato troppi perniciosi. consigli alla sua sovrana, e doversi a lui la rovina della Stato Sabaudo.

Cristina, ostinata per carattere, ostinatissima in questo fatto in cui l’affezione sua e il suo potere erano in giuoco, non desistè mai dal reclamare il suo ministro, e a lui fu larga di consigli, di notizie e di doni. Spese molto danaro anche per corrompere coloro cui era affidata la persona del Conte, ma se non avveniva la morte del Cardinale, come vedremo, il Conte prevedeva di dover morire in quella reclusione dove, nondimeno, stette due anni.

Intanto, nel giugno 1642 fu sottoscritta la pace di famiglia, pace che lasciava a Cristina la Reggenza e la tutela di Carlo Emanuele II, coll’assistenza dei Principi cognati, e mercè la quale l’antico e platonico innamorato di Cristina, il cardinal Maurizio, deposta la porpora ed ottenute da Roma le necessarie dispense, sposerebbe la nipote Luisa, una giovinetta di quattordici anni, che la ragione di Stato gettava nelle braccia di un uomo di cinquanta.

Il 22 di luglio 1642 Maurizio fece la rinunzia del cappello cardinalizio, poi si recò a Cuneo, dove per il momento stava la Duchessa, onde baciarle la mano in segno di concordia duratura.

Nel frattempo la giovine fidanzata, sospirando e [p. 237 modifica]piangendo, dimorava in Sospello. Come era crudele la sorte con lei! E fosse il dispiacere per quel malaugurato matrimonio, fosse pel cambiamento di clima, si ammalò di terzana. Ma quantunque ella fosse travagliata dal male, non si volle attendere a celebrare gli sponsali. Eretto un altare nella stanza accanto a quella ove essa giaceva, vi si trasportò ai piedi a stento, ed il Nunzio del Papa compì la cerimonia dinanzi a vari personaggi. A metà della messa ei benedì due anelli uno d’oro e l’altro d’argento, che Maurizio pose in dito a colei divenuta oramai sua sposa, con tutte le formalità civili e religiose.

Maurizio, fino alla maggiorità del nipote, era stato nominato Luogotenente generale a Nizza, e a quella volta s’indirizzò colla principessa, la di cui contentezza si può facilmente immaginare, mentre le popolazioni esultavano per gli accordi che quell’avvenimento suggellava.

Morti, a breve distanza l’uno dall’altro, il cardinale Richelieu e Luigi XIII, e venuta in Francia Reggente Anna d’Austria, madre di Luigi XIV, il cardinale Mazzarino, venuto pressoché dal nulla a rimpiazzare il suo grande confratello, fece a Cristina, al solito, grandi profferte. Ma Cristina non era più la giovinetta inesperta e facilmente raggirabile, che Richelieu aveva per tanti anni giuocata; e poco o nulla si fidò di lui. Infatti essa, in fondo, non riebbe che Savigliano e Cherasco ; pure richiamò di Savoia il Duchino che fece per altro stabilire a Fossano, non volendo che [p. 238 modifica]egli abitasse Torino sempre presidiata dai francesi, e dai quali non fu sgombrata che nel 1645, e anche senza la cittadella.

Migliorati i tempi e incominciando il Piemonte a risentire i benefizi della pace, le terre rifiorirono e Torino si abbelliva di edifizi, a spese ed a cura della Duchessa, in ciò veramente benemerita. Ma il governo interno poco mutò: Cristina continuò nel maneggio assoluto, continuò il favoritismo e la dissipazione, e il futuro Carlo Emanuele II veniva deviato dalle cure dello Stato e lasciato a vita scioperata. Fu anzi colpa di sua madre il non prepararlo a nessuno dei doveri spettanti ad un Principe; e tutta la di lui istruzione ed educazione si compendiò in qualche esercizio di spada, nel maneggio di un cavallo, nel nuoto, la caccia, alquanto di disegno, le feste, e la smania di fabbricare palazzi e ville, insomma in tutto ciò che poteva, col confronto, rendergli ingrata l’applicazione del Governo.

Nondimeno, giunto il giovinetto al termine della tutela, cioè ai quattordici anni compiuti, all’improvviso, quasi per sorpresa, il 20 giugno 1648, nella città d’Ivrea, ebbe luogo la cerimonia della di lui emancipazione. Alla presenza dei grandi dignitari dello Stato, ivi accorsi e radunati in consiglio, la Duchessa, la quale temeva che, coll’appoggio di Mazzarino, il principe Tommaso volesse spodestarla, fece al figlio la consegna dello Stato lasciatogli dal padre libero dai nemici, eccetto Vercelli. E qui ebbe luogo anche la ri[p. 239 modifica]sposta del principe, che tutti gli storici sono concordi ad affermare essere stata anticipatamente preparata di comune accordo, colla quale ringraziava la madre, e commosso e piangente la pregava a non abbandonarlo ed a continuargli la sua assistenza. Così da quel momento egli ebbe legittimamente il titolo di Duca, ma non il potere, che la madre davvero non si lasciò mai sfuggire, non abbandonando a lui che le apparenze dell’autorità, e non sempre tutte. A tal titolo egli pose il suo nome alla ratificazione del trattato di Munster e della pace di Vestfalia, il 24 ottobre 1648, che doveva essere una pace generale. Ma pel Piemonte quel trattato fu abbastanza acerbo, perchè non vedeva la certezza di farla finita colla guerra, né gli venivano restituite le città occupate dai presidi francesi e spagnoli. Gli si promettevano però altri compensi che non giunsero mai, fra cui la dignità elettorale nell’Impero germanico. Per questo nacque il desiderio e la opportunità di stringere alleanza con qualche potenza germanica, e se ne parlò dai nostri plenipotenziari e da quelli di Germania nelle conferenze vestfaliane. Da ciò ebbe origine, concerto ed esecuzione, il matrimonio di Adelaide, ultima delle figlie di Cristina, con Ferdinando, figlio dell’Elettore di Baviera, che si effettuò nel 1650, matrimonio che Cristina avrebbe voluto conchiudere invece per Margherita, sua secondogenita, onde riserbare Adelaide, più giovane, al trono di Francia, che tanto ambiva per una delle sue figlie. Più tardi essa ebbe la speranza di porre su quel [p. 240 modifica]trono la stessa Margherita; ma non fu che un miraggio fattole balenare dinanzi dall’astuto Mazzarino, che aveva la sfrontatezza di pensare a porre una di quelle sue famigerate nipoti, Olimpia, sul trono di Savoia, e che dileguò, appena si accorse che Carlo Emanuele e tutta la famiglia ducale non avrebbero mai condisceso a quelle nozze.

Un altro punto sul quale il Mazzarino non potè spuntarla con Cristina, si fu a proposito dei celebri manoscritti del Ligorio. Carlo Emanuele I, amantissimo di libri, temendo che i suoi successori non lo fossero quanto lui, domandò ed ottenne delle scomuniche contro chiunque si attentasse togliere, sotto qualsiasi pretesto, quei codici dalla sua Biblioteca. Ci volle però tutta la fermezza, tutta la forza di Cristina, per opporvisi con successo, giacche Mazzarino, credendo poter disporre, come di cosa francese, di tutto ciò che era in Piemonte, li chiese prima con le buone e con astuzia, poi con le spaventose minaccie ; e finalmente dovè limitarsi ad esser contento delle copie, le quali pur costarono al Piemonte 15,000 lire delle attuali, trattandosi di trenta grossi volumi, e di molti anni di lavoro.

Nel 1660, Cristina maritò Margherita, unica figlia nubile che le rimaneva, a Ranuccio Farnese, Duca di Parma; dopo di che essa vide la necessità di ammogliare anche il figlio, cosa che finora aveva sempre protratto, non avendo fretta di prendersi una compagna nel comando. Ma oramai tal matrimonio era necessario: Mazzarino, che prendeva gusto ad attraversare [p. 241 modifica]qualunque trattativa si cominciasse pel Duca di Savoia, sperando sempre di appiccicargli la nipote, era morto nel 1661; il Duca teneva vita da scapestrato, sempre pieno di debiti, e spesso, perciò, crucciato con la madre. Questa, dopo scelto fra molte e molte principesse, informandosi particolarmente se erano di carattere dolce e pieghevole, propose finalmente Francesca, figlia di Gastone d’Orléans, zio di Luigi XIV, giovine bella, buona, gentile, soprannominata colombina d’amore e che lasciava a lei ogni certezza di conservare il suo potere. Carlo Emanuele, oramai in età di ventotto anni (si era nel 1663), accettò, ed il matrimonio ebbe luogo con generale soddisfazione.

Due anni avanti, nel 1661, Cristina aveva ristabilite, con sommo plauso, le buone relazioni con la Repubblica di Venezia, troncate fino dal 1630 da Carlo Emanuele I; ma per contrapposto ordinava una nuova campagna contro i valdesi, che in verità si mostravano però esigenti e invadenti, non rimanendo nei limiti loro assegnati sotto Emanuele Filiberto, e certo sobillati dagli ugonotti francesi. — Milton, nel Paradiso Perduto, con versi fulminanti stigmatizzò quell’atto, che pur troppo non è una gloria di Cristina.

Ma essa invecchiava, e, inoltrandosi negli anni, tutta s’immergeva in pratiche devote, spinte talora all’eccesso. Di salute cagionevole oramai, forse per i contrasti sofferti e le faticose cure, nel dicembre del 1663 si ammalò gravemente ed in brevi giorni morì, e fu se[p. 242 modifica]polta, per sua volontà, nella chiesa di S. Cristina, fatta erigere da lei unitamente al monastero omonimo.

Ed ecco qual fu la vita di Cristina, detta anche Madama Reale, all’uso di Francia, che per la sua Reggenza, così fortunosa e contrastata, sarà perennemente rammentata nella storia, quasi come se avesse dato nome ad un’epoca. Molti e molti hanno scritto di lei, quali coll’incenso dell’adulatore, quali col veleno della calunnia, pochi con la verità. In queste brevi pagine, tracciate attenendomi a questi ultimi, a me sembra poter concludere che, sfrondando, anche senza pietà, tutte le frasche, rimane sempre tanto di buono da lei operato da riparare il male fatto, e da bastare a sufficienza a rendere imperituro il suo nome.