Le colpe altrui/Parte II/Capitolo IV
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IV.
Marianna Zanche, tutta imbacuccata di nero, andava verso il paesetto. Da quanti anni non aveva lasciato lo stazzo nè varcato la linea dello stradone che per lei segnava come il confine fra il suo mondo di penitenza e il mondo vero pieno di peccato! Si fermò un momento prima di arrivare al ponte; ecco, lì fra la polvere bianca come cenere ella ha atteso un’ultima volta Andrea: lì il carro si è fermato al suo grido di dolore ed ella ha baciato il cadavere; lì è piombata al suolo strappata al suo figliuolo morto com’era stata strappata da lui vivo; e Bakis Zanche l’ha di nuovo calpestata. Adesso anche lui giace sotto terra, polvere per tutta l’eternità. Tutto finisce, e Dio solo misericordioso è eterno, col suo paradiso e il suo inferno. Perchè combattere contro la nostra sorte terrena? Accettiamola come penitenza, in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e così sia.
Ella dunque andava, pensando così, andava rassegnata, ma in fondo più triste che lieta, a domandare la mano di Vittoria Zara per suo figlio Mikali.
Non indossava le ricche vesti e non aveva i gioielli delle paraninfe, e in dote a suo figlio le pareva di recare tutto il peso del suo antico peccato e della sua lunga penitenza; ma non ostante il suo senso di rinunzia alla vita, il cuore le si svegliava dentro a misura che gli occhi rivedevano le cose del passato. Ecco il profilo di qualche stazzo sullo sfondo d’oro del tramonto, ecco l’abbeveratoio con l’acqua verdastra che riflette il ciglione coperto di rovi polverosi; ecco le macchie di lentischio e le muriccie erbose tali e quali erano tanti anni prima, nel tempo in cui il mondo le pareva innocente perchè innocente era lei; ecco il campo di Pietrina Zara, la casetta, la quercia, il campanile in fondo...
Pietrina Zara l’aspettava vestita di gala, seduta composta filando accanto alla finestruola sul cui davanzale odorava il basilico; ma quando la vide finse sorpresa e la salutò con un calore inusitato in lei, alzandosi a metà per avvicinare al suo un altro sgabello.
— Siedi, siedi, Marianna Zanche! E come sei uscita?
L’altra sedette, rigida, jeratica.
— Sola sei, Pietrina Zara?
— Sola sono, coi miei pensieri! Ma quando questi sono buoni, diceva mio marito, beato, sono la migliore compagnia.
— Tu parli con bocca d’oro; ma ciò non mi sorprende, Pietrina Zara! Rammenti, eri savia fin da bambina. Eravamo compagne, rammenti? Andavamo assieme a cogliere le bacche del mirto e del lentischio. Rammenti, Pietrina, eravamo compagne, ma un bel momento ci siamo trovate come in un crocevia; tu andasti a destra, io a sinistra... Sì, a sinistra... verso un burrone profondo... dove sono precipitata come una cieca... — E ansava, frenando a stento il pianto, e curvava il viso guardando il pavimento come vedesse davanti a sè l’abisso di cui parlava. — Sì, e tu, Pietrina, andavi a destra verso il prato fiorito.
— Marianna! Non parlare così, maledetto sia il Giudeo! Che forse sono stata fortunata, io? Forse il vento non mi ha falciato i fiori prima che io li cogliessi? Mio marito è morto ch'io avevo ventitrè anni, ed io lo amavo come il primo giorno; e ancora lo amo così, Marianna mia, e mi sembra sempre di aspettarlo... ma egli non viene... egli non verrà più... Ed era giovane ed era buono... Marianna mia; ma la sua gioventù, la sua bellezza, la sua abilità non gli sono servite... per poter ritornare...
Parlava tranquilla, la vedova, senza smettere di filare; eppure Marianna Zanche scoppiò in pianto dirotto: quando si fu calmata riprese:
— Tu ne piangi uno, Pietrina Zara; mentre io ne piango tanti. Ma non sono venuta per fare il mortorio, oggi; parliamo dei nostri ragazzi...
— Ho sentito che il tuo voleva andare in America.
— Voleva; ma non va più. Qualche cosa lo trattiene qui...
— Che cosa lo trattiene?
— Vuole ammogliarsi, Pietrina mia. È molto giovane, ma serio; conosce già la sventura e vuole lavorare e sarà un buon capo di famiglia. Ricco di beni di fortuna non è, ma non ha vizi ed è buono di cuore.
— Non basta questo per prender moglie — sentenziò la vedova, e Marianna Zanche s’irrigidì, paurosa di un rifiuto, ma ribattè pronta:
— Mikali ama la donna che vuole sposare, e questo supplisce al resto. Quando due sposi si amano sono ricchi come i re. Tu stessa, Pietrina mia, lo puoi testimoniare.
— È vero, Marianna mia, ma l’amor mio e del mio sposo era limpido come il cristallo; mentre in tante altre coppie è torbido, l’amore, è macchiato come un panno sporco...
Marianna Zanche trasalì e parve restringersi sotto la sua gonna come il riccio nel suo guscio.
— Perchè m’hanno fatto venire? — pensò. — Anche questa umiliazione ci voleva...
Ma giacchè c’era tentò di combattere: si trattava di suo figlio, non di lei.
— Mikali mio figlio può aver commesso qualche leggerezza, ma è uomo ed è giovane, e non sarebbe tale se non avesse tentato di conoscere il mondo. Ma ha veduto cosa c’è, nel mondo, ed è tornato indietro, e sarà uomo, adesso, non più ragazzo. La donna, poi, è quanto di più saggio si può desiderare: è figlia di buona madre, è tua figlia, Pietrina mia!
Allora la vedova, per significare che il colloquio diventava grave, fermò il filo al gancio del fuso e unito questo alla conocchia li depose tutti e due sulla sporgenza della finestra.
— Tu parli di mia figlia, di Vittoria?
— Sì, mio figlio Mikali mi manda per domandarti Vittoria in moglie.
La vedova taceva. Allora zia Marianna si fece coraggio e riprese:
— Te lo confesso, Pietrina mia, io stimo mio figlio e lodandolo sono sincera; ma non credere ch’io sia venuta qui a cuor leggero. So quello che vale tua figlia: tant’oro! Senza contare che è ricca, Dio benedica la sua roba. Il cuore mi trema, vedi: da tanti anni io non venivo in paese, come una condannata, e solo l’amore per mio figlio mi ha mosso. Ma se tu non sei contenta, dillo pure subito; non prendere tempo e non farmi rifare questo calvario: siamo state compagne e possiamo parlare col cuore in mano.
Pietrina Zara sapeva bene che in queste circostanze non si può dire la verità intera neppure al proprio fratello: seguì dunque l’etichetta.
— Che vuoi ch’io ti dica? Come posso risponderti sì o no se non c’è mia figlia? Bisogna interrogare lei: è lei che si sposa, è lei che deve essere contenta.
— Essa è contenta — si azzardò a dire la madre di Mikali, ma subito si pentì perchè Pietrina la fissava e le chiedeva freddamente:
— Ha parlato con te?
— Ah, no, anima mia! Dal tempo dei tempi io non la vedo.
— E allora non credere che a lei, quando essa sarà qui in tua presenza e parlerà a te.
Marianna Zanche sospirò; bisognava proprio rassegnarsi all’etichetta e aspettare otto giorni e rifare il viaggio doloroso e gaudioso.
— Quando posso tornare?
— Fra otto giorni senza fallo avrai la risposta.
— Va bene: allora vado, perchè è tardi ed io non sono più abituata a camminare nel crepuscolo. Ci vedo poco, Pietrina mia.
— Tu non te ne andrai prima d’aver preso qualche cosa. Ma ti pare, Marianna mia? Eravamo compagne e, dopo che non venivi in casa mia da vent’anni, vuoi andartene senza aver preso una bibita? Ti farò poi accompagnare dal servetto che adesso rientra dall’orto.
— Che cos’avete di buono nell’orto? — domandò Marianna Zanche rassegnandosi anche ad aspettare che la sua antica compagna andasse di sopra e tornasse con un vassoio di dolci in una mano e un vassoio con una bottiglia di liquore nell’altra.
Bisognava esaurire tutte le norme dell’etichetta.
— Nell’orto? Cosa abbiamo? Ah, Marianna mia, quest’anno è un disastro: manca l’acqua e i bruchi rosicchiano ogni cosa...
E di Vittoria e di Mikali non si parlò più, fino all’ultimo momento, quando già si sentiva il canto del servetto che tornava dall’orto.
— Allora fra otto giorni, Pietrina mia! Ma interroga sopra tutto il tuo cuore — disse Marianna Zanche afferrando con le mani calde febbrili le mani della vedova. — Se tu non sarai contenta... ebbene... no, anch’io non sarò contenta...
Si fissarono, nella penombra, e Pietrina fu per prorompere e dire tutto il suo pensiero, tutti i suoi presentimenti e come vedeva di malocchio quel matrimonio; ma a che pro? Vittoria voleva Mikali ed era inutile sfogarsi, fosse pure con la sua antica compagna.
D’altronde il servetto era già davanti alla porta e con la sua canzonetta insolente diceva di aver capito lo scopo della visita di zia Marianna.
Cajuare ti cheres, conchi maccu, |
*
Durante quegli otto giorni le donne dello stazzo Zoncheddu e dello stazzo Zanche e di tutti gli stazzi attorno non fecero che parlare dell’avvenimento. Solo zia Pietrina taceva e non rispondeva neppure alle chiacchiere della gobbina che per la felicità sembrava ridiventata una ragazzetta.
Anche Vittoria non si sentiva contenta: cuciva, davanti alla finestruola sul cui sfondo si disegnavano le pesanti nuvolette d’agosto, e ogni tanto si volgeva sospettosa, sembrandole di vedere entrare zia Sirena con le chiavi in mano pronta a consegnargliele ed a partire dallo stazzo.
Un dopo pranzo, mentre in cucina le donne pulivano l'orzo per il pane, sentì un passo pesante nel corridoio; ma invece della vecchia vide affacciarsi all’uscio il servo Pancraziu.
— Che vuoi? — gli chiese alzandosi con la tela in mano, un po’ sorpresa per la libertà che egli si prendeva.
— Scusami, senti: vorrei dirti due parole, senza che le donne se ne accorgano. Lo permetti?
Ella non lo lasciò entrare nella sua camera; uscì e sedette sulla panca davanti alla nicchia di Sant’Isidoro, mentre egli in piedi sotto la luce del finestruolo che gli inargentava i capelli polverosi le diceva sottovoce, gravemente:
— Vittoria, ti prego di dirmi la verità, come io la dirò a te. È vero che sposi Mikali? Dirai: che importa al mio servo di ciò che faccio io? Ed io ti risponderò: prima che servi e padroni, siamo tutti cristiani figli di Dio e possiamo scherzare nell’ora dell’allegria e parlare bene e parlare male, ma all’occorrenza ajutarci gli uni con gli altri.
— Va bene, sembri frate Zironi. Dimmi però di che si tratta. Sì, io sposerò Mikali Zanche.
— Fai bene; è un bravo giovine. Ed io vorrei sposare Ignazia e portarla via di qui.
— E chi te lo impedisce? — domandò Vittoria sorpresa.
— Nessuno. Solo vorrei che tu ci dessi egualmente da lavorare. Io posso stare qui al tuo servizio, se tu conservi la tua buona grazia, ma la donna no: tu sai perchè.
— No, ti assicuro, non so il perchè.
— Ebbene, perchè Ignazia e Mikali hanno avuto relazione amorosa.
— Egli non la guarderà più, di certo — disse Vittoria con disprezzo; ma Pancraziu sorrideva maligno.
— Tu sei buona, Vittoria, sei troppo buona, sei innocente come il pulcino dentro il guscio. Non conosci gli uomini, tu! Basta, ecco cosa volevo dirti. Il tuo predio di Santa Maria a Mare è in mani di gente che non lo coltiva più. Tu potresti darmelo a mezzadria e Ignazia potrebbe venire laggiù con me.
— Lasciami pensare, ti saprò dare una risposta — disse Vittoria, e ritornata nella sua camera cominciò a turbarsi per il sorriso e le parole di lui.
«Tu sei buona, Vittoria, sei troppo buona, e non conosci gli uomini, tu!» Che voleva dire? Ah, ogni piccola cosa adesso la turbava e l’anima sua era come quel grande cielo d’agosto, ardente e profondo, ma sul quale ogni tenue vapore si ferma e diventa nuvola.
Più tardi entrò in cucina e sentì che le serve parlavano sottovoce, curve sul canestro dell’orzo; senza dubbio commentavano ancora lo straordinario avvenimento, ma quando videro lei cambiarono discorso mettendosi a discutere sulla potenza dei verbos di Nicola Farre.
Gl’insetti erano tutti scomparsi dal frumento, dopo lo scongiuro; e zia Sirena non se ne sorprendeva, anzi consigliava Ignazia a non parlarne troppo per evitare che un’altra volta le parole riuscissero meno efficaci.
— Quando si ha fede in una cosa non ci si pensa su tanto. Se tu ci pensi molto vuol dire che non hai fede.
— È vero, — disse Vittoria, e mentre si recava al paese per esser presente alla visita definitiva della madre di Mikali ripeteva fra sè: — è vero, è vero!
Un tempo infatti ella aveva avuto tanta fede nel suo amore che s’era abbandonata fra le braccia di Mikali senza pensare ad altro che ad amare: adesso combatteva contro mille fantasmi, e tutto le dava sospetto e turbamento. Arrivò a casa sua che ancora non era decisa a dire definitivamente sì.
Ma la gobbina vigilava; le bastò uno sguardo per accorgersi che Vittoria non era sicura di sè; la vide sedersi, con le mani abbandonate sui fianchi come affranta dalla stanchezza, accanto alla madre che filava composta, aspettando l’arrivo di Marianna Zanche, e pensò: qui bisogna muoversi. Corse quindi nello stradone e spiò ansiosa.
Ecco finalmente Marianna Zanche avanzarsi anch’essa stanca e melanconica; contro le consuetudini suo figlio l’accompagna, camminandole a fianco e curvandosi di tanto in tanto a guardarla come per infonderle forza e coraggio.
L’incontro della gobba parve però contrariarlo e per scusarsi disse:
— Mia madre si sentiva poco bene, ma bisognava pure che venisse, oggi! Allora ho pensato di accompagnarla, tanto più che devo andare al paese. Ripasserò più tardi e vi aspetterò qui, madre.
Andò oltre, ma intanto che Marianna Zanche s’avanzava verso la casetta, la gobbina lo rincorse nello stradone.
— Dà retta a me, Mikali; aspetta tua madre senza andare in paese. Mettiti là dietro la siepe. È per il tuo bene!
Egli l’ascoltava con aria sdegnosa; proseguì la strada, poi a un tratto si fermò pensieroso, tornò indietro e si mise accanto alla siepe al posto dei convegni con Vittoria.
E Vittoria nell’udire i passi di Marianna Zanche era balzata nascondendosi nella sua cameretta; subito dopo la gobbina andò a chiamarla senza sorprendersi dei gesti di angoscioso diniego con cui lei, appoggiata al muro e con una mano sugli occhi, l’accoglieva.
— Vittoria! La risposta la devi dare tu: andiamo. Che figura è questa? — La prese per mano, ma Vittoria la respinse con violenza e tornò ad appoggiarsi al muro: e pareva che, invertite le parti, fossero adesso i parenti a costringerla a un matrimonio contro sua volontà.
— No, no! Io non voglio scendere: io non posso sposare Mikali.
La gobbina la guardava dal basso, battendosi un dito sulla fronte.
— Ecco, che cosa ti manca! Il cervello. Come puoi dire di no adesso, proprio adesso? Gridaglielo, allora, a Mikali: eccolo là che aspetta la risposta. Eccolo, tanto è ansioso. Quale altro uomo avrebbe fatto questo?
Vittoria corse alla finestra: la cosa inaudita era vera, Mikali stava là, al posto dei loro convegni; stava ad aspettare la risposta di lei come un mendicante aspetta l’elemosina.
Allora scese, palpitante d’amore, dimentica dei suoi rimorsi e delle sue gelosie: e la gobbina la seguiva sorridendo ai suoi occhi di gatto riflessi dal vassoio di metallo ove portava le tazze per servire il caffè a Marianna Zanche.
*
Il tempo delle nozze non venne fissato. Troppo recente era il lutto di Vittoria, e già col fidanzarsi a Mikali, anche per la gente che non conosceva il loro passato, ella dimostrava di non rispettare la memoria dei morti; ma fino dai primi giorni Mikali cominciò a visitare l’ovile, la vigna e tutti i possedimenti Zanche come un vero padrone, dando ordini, facendo osservazioni, vantandosi di rimettere a posto le cose che minacciavano di andar male.
Un giorno Vittoria gli parlò del desiderio di Pancraziu di ottenere la mezzadria del predio di Santa Maria a Mare.
— Vuole sposare Ignazia e la condurrebbe a vivere laggiù.
— Fa bene! I tesori si nascondono! — egli disse beffandosi del servo geloso; ma andò subito a visitare il predio, per il quale Bakis Zanche aveva spesi mucchi di denari dissodando la brughiera e formando di quell’angolo selvatico un vero giardino: vi crescevano persino gli aranci, e tutti quelli che in primavera andavano alla festa laggiù, nella chiesetta nera come uno scoglio sulla linea verde del mare, si fermavano a guardare con invidia al disopra della muriccia assiepata.
Da tre anni Mikali non passava laggiù, dopo una volta che giusto era stato alla festa di Santa Maria e, guardando i peri e i susini carichi di frutti duri pesanti come di marmo verde, aveva pensato che, secondo giustizia, se Bakis Zanche rinsaviva e lo riconosceva per suo figlio, metà del predio era suo.
Ed ecco che tutto era suo, adesso.
Fermato il cavallo dietro la siepe, i suoi occhi però sì offuscarono: sì, bastava uno sguardo per accorgersi che il podere andava in malora; la muriccia di cinta era tutta una rovina, le piante intristivano, la vigna distrutta dava l’idea della testa pelata d’un vecchio.
— Qui bisogna adoprare subito lingua e mani; se no sei un uomo rovinato, Mikà! — disse a sè stesso spronando il cavallo per andare in cerca del fattore.
Il fattore, la cui figurina un po’ curva ricordava quella di frate Zironi, coglieva con una canna le prime susine gialle mature. Sebbene sapesse Mikali già suo padrone, lo salutò appena come un estraneo di passaggio nel podere, continuando a guardare in su tra il fogliame lucido scosso dal vento marino e abbassando ogni tanto la canna per trarne dalla cima spaccata la susina color carne ricoperta come da un velo d’argento.
Dal canto suo il nuovo padrone guardava qua e là sdegnoso, dall’alto del cavallo, corrugando le sopracciglia; ma l’indifferenza del vecchietto gli dava quasi soggezione.
— Zio Baì, — disse frenando il cavallo che allungava la testa verso le fronde del susino, — mi pare che invecchiamo!
— Se siamo stati giovani è giusto che diventiamo vecchi, Mikalè! — disse il fattore, buttando lontano una susina guasta.
E le foglie si sbattevano rapide le une contro le altre, come piccole mani che applaudissero.
— I cristiani, va bene, — ribattè Mikali, — ma le piante e i muri se son tenuti bene non invecchiano.
— Le piante, tu dici? Le piante più dei cristiani. Questo susino, lo vedi? Due anni fa era giovane, adesso è già vecchio; curalo finchè vuoi, invecchierà e si seccherà lo stesso.
— Lo dite voi!
— Lo dico io, sì! Ne ho viste piante e uomini a invecchiare e a seccarsi! Sono qui fattore da quando Bakis Zanche ha piantato il predio. — Intanto continuava la sua faccenda; e la sua voce diventata aspra irritò il nuovo padrone.
— Mi pare, quindi, che bisognerebbe piantarne sempre di nuove, zio Baì; e qui invece son tutte vecchie: si vede che il padrone non ci passa.
— Passerà la sua anima! — disse allora il vecchietto, con ironia. — Questa vede meglio che il corpo.
Non seppe perchè, Mikali rise.
— Lo caccio via, — pensò: e questa decisione gli ridonò la sua calma di uomo forte, dell’uomo cioè che fa i suoi affari con prudenza e con fermezza, senza irritarsi inutilmente coi deboli. Per questo si guardò bene dal lasciar capire al vecchietto la sua condanna; anzi si mostrò affabile e accondiscese all’invito di smontare.
— Mikalè, ti darò da bere, poichè non ne hai portato tu. Andiamo su alla casupola.
Anche la casupola, sull’alto del frutteto, cadeva in rovina; ma sul davanti sorgeva ancora, solido, sorretto da due colonne di pietra, una specie di piccolo portico dal quale si vedeva tutta la brughiera fino al mare, chiuso dalla massa rosea-cerula dell’isola di Tavolara.
— Se il luogo è così non è colpa mia, — disse il vecchio fattore, portando da bere a Mikali.
— È da molto che è così trascurato, ed io faccio quel che posso, ma sono uno e sono vecchio. Dapprima Bakis Zanche non pensava che a fare di questo luogo un paradiso: fece dipingere persino la casa, come una chiesa; e veniva e si sdrajava qui sulla stuoia, in faccia al mare, e mi diceva: Baì, cantiamo. Poi non tornò più: si dimenticò del predio come di un oggetto smarrito. Se tu adesso, poichè mi dicono che sposerai Vittoria, penserai a ripiantare la vigna farai bene. La vigna sola è degna di essere coltivata da uomini; le susine e le pere, a che ti servono? Buone per donne. O che ti vuoi metter a vendere due frutta come i Milesi alla fiera?
— Un uomo come me non ha bisogno di vendere frutta nè vino. Del resto, io non sono il padrone, per adesso, e mi occupo solo dei fatti miei!
— Bevi, allora! Che guardi laggiù?
Mikali vedeva sulla linea solitaria del mare, giù verso Tavolara, una paranza con una vela sbattuta dal vento e l’altra giù come un’ala ferita, e pensava con rancore al viaggio che avrebbe dovuto renderlo ricco di ricchezze sue. Spesso gli sembrava che la gente gli rinfacciasse di sposare Vittoria per diventare ricco senza fatica; e questa spina lo feriva nella sua vanità di uomo forte e avvelenava la sua felicità.
— Sì, — proseguì il vecchio fattore, ricordando con tenerezza il padrone morto, — io lo conoscevo come conosco la mia mano. Era un uomo, quello! Ma il dolore a volte lo rodeva suo malgrado, come il vento marino rode anche la quercia. Ha denti acuti, il dolore, e rode silenzioso come il sorcio. Quando veniva qui cantava, Bakis Zanche, poi mi diceva: voglio portare qui una donna per divagarmi quando vengo. Invece non si lasciò più vedere. Ebbene, Mikali, vieni su qui con Vittoria, appena vi sposate. Il vento marino fa bene agli sposi.
E Mikali beveva e pensando a Vittoria, alle loro nozze, al tempo felice che li attendeva, dimenticava le pene del suo orgoglio ferito.
*
Durante l’autunno tornò spesso al podere, per prendere le frutta che piacevano molto alle donne dello stazzo. Qualche volta passava la notte lassù, e le storielle semplici e tragiche e i racconti di gioventù che il fattore, come tutti i vecchi sardi, amava ricordare, lo esaltavano e lo facevano sognare.
— Una volta un nemico mi ha offeso: l’ho ucciso e sono stato in carcere; va bene, sono stato in carcere, ma quello non mi ha più offeso, non solo, ma anche gli altri hanno imparato a rispettarmi. Mi dispiace solo di aver mandato un’anima al diavolo, ma del resto non mi pento.
Mikali, pure sospettando in questa storiella una vanteria innocente, pensava ai rimorsi e alla pena che talvolta gli dava l’uccisione del puledro del dottore, e avea soggezione del vecchio.
— Mikalè, piccolezze però non ne ho commesso mai, te lo giuro, malanno mi colga se mentisco. Una volta sono stato fattore d’un predio di Giuanne Predu Murtas. Egli mi mandò via senza ragione: io una notte passai nel predio con un’accetta in mano, deciso a stroncargli tutte le piante. Ma queste avevano i fiori e pensai: verranno le frutta e passerà di qui qualche poveretto e qualche anima errante e potranno saziarsi. Va, lasciamo in pace queste piante innocenti... No, io di simili piccole vendette non ne feci mai: io, quando ho avuto un rancore, lo gridai sempre a voce alta.
Allora Mikali, preso da un impeto di lealtà, gli confessò che pensava di cambiare presto fattore, perchè lui, ziu Bainzu, era troppo vecchio e il predio aveva bisogno di essere coltivato da braccia robuste.
— Il vostro lavoro vi sarà compensato.
Il vecchietto spalancò gli occhi.
— Tu vuoi cacciarmi, così, come un uccellino? Tu vuoi pagarmi anche? Hai moneta bastante?
E cominciò a tremare convulso, cosa che impressionò Mikali abituato a vederlo di solito calmo e fermo.
— Be’ state tranquillo, parlerete con Vittoria.
Il vecchio non parlò più, ma se ne andò in giro cupo guardando e toccando le piante che conosceva ad una ad una ed alle quali aveva dato nome e cognome. E parlando con esse come con persone vive, cominciò ad esporre le sue ragioni al vecchio pero innestato da lui tanti anni prima alla presenza di Bakis Zanche.
— Hai sentito, Predu Pira? Il bastardo vuol cacciarmi via! Ricordi la promessa del vecchio padrone? Egli, Bakis Zanche, diceva: tu morrai qui, Bainzu Mastinu: e adesso quei due, dopo aver fatto crepare i veri padroni, vogliono assassinare anche me. Dopo che vi ho inaffiato col mio sangue, piante mie belle; Maria Franzisca, tu lo puoi dire (scuoteva il ciliegio le cui foglie già dorate cadevano sfiorandogli il viso come per carezzarlo). Ma mi vendicherò, e vi farò vendetta, piante mie: vedrete!
E faceva cenni di promessa ai mandorli ed ai susini, e tutte le piante intorno pareva gli rispondessero col fremito delle loro foglie scosse dal vento.
Più tardi s’incamminò verso lo stazzo Zanche, senza tralasciare di cogliere per Vittoria un cestino di uva ancora un poco acerba; andava curvo, sotto il peso dell’ingiustizia, e incontrato per caso lungo la strada frate Zironi gli raccontò il suo guaio.
— Se mi cacciano, dove vado? Mi volete lassù nel convento?
— Vittoria non vi farà questo torto; adesso vi accompagnerò io da lei. Del resto Dio provvederà, egli che pensava anche ad Elia nel deserto.
— Quello del corvo? Sì, a me i corvi rubano l’uva, non portano il pane; e quando non troveranno altro, intorno a me, mi piluccheranno gli occhi.
— Zitto, zitto! Dio si offende, non dei nostri peccati, ma della poca fiducia che abbiamo in lui.
Arrivando allo stazzo videro Mikali seduto nel cortile, annojato, curvo su sè stesso, con le mani dondolanti in mezzo alle ginocchia aperte.
In cucina le serve scardassavano un mucchio di lana nera e c’era anche zia Pietrina vestita di gala.
— Oh, oh, — disse Mikali sollevando il viso verso il fattore, — così Dio mi assista, mi sembrava giusto di sentire i vostri passi.
Vittoria sollevò le foglie di vite dal cestino che il vecchio aveva deposto davanti a lei, trasse l’uva verde e pesante, ne mangiò alcuni acini, poi ne offerse a tutti, e tutti l’accettarono: solo Ignazia prese il suo grappolo senza sollevare gli occhi e lo ripose nel suo grembiale.
— Quando ero ragazza io, — disse zia Sirena, — si diceva che mangiando la prima uva se si formulava un desiderio questo si avverava.
— Erano i tempi di Mosè, quando gli uomini non avevano malizia.
— Malanno, quanto invece tu sei malizioso, Mikali! — gridò il fattore. — Ed io invece dico subito a voce alta il mio desiderio: che Vittoria Zara conservi sempre la sua buona coscienza.
— Perchè parlate così? — ella domandò asciugandosi la bocca col grembiule.
— Tu lo sai, Vittoria. Perchè vuoi cacciarmi via? Sai tu in che stato era il podere un anno fa, cinque, dieci anni fa? Così, così è adesso. È stato così sempre, dopo che Bakis Zanche mi ha lasciato solo a coltivarlo. Egli mi disse: fa quello che puoi e prenditi metà del frutto. Ed io lavoro tutto l’anno; ma posso mettere le braccia contro il vento del mare? Posso lavorare per venti uomini? Se volete dei miglioramenti, ebbene, ragazzi miei belli, mandate i vostri servi ad ajutarmi; ma non cacciatemi via così come una volpe o un nibbio. Ho ragione, frate?
— Pienamente ragione.
— Che ne sapete voi? — disse allora Mikali sdegnandosi. — O uno è buono a lavorare o non è buono; se non è buono vada a coricarsi.
Vittoria ascoltava pensierosa, e dopo un lungo dibattito fra gli uomini disse:
— Se zio Bakis aveva promesso di non mandare via il fattore, perchè offendere il volere di un morto?
Mikali la guardò con disprezzo.
— Così fai tu i tuoi interessi? Ma le donne li fate tutte così, a modo vostro: e per ciò i vostri interessi vanno sempre male.
— E lasciali andare male, purchè non sia commessa iniquità.
Mikali replicò beffardo, e questa fu la loro prima questione. Invano il frate trasse le mani dalle maniche come un predicatore prima del sermone e propose di aggiustare le cose in questo modo: si facesse un nuovo contratto; il fattore si obbligasse a tali e tali cose e se dopo un anno non manteneva i patti venisse congedato.
Mikali guardava lontano e rideva con amarezza: anche i frati, adesso, s’immischiavano negli interessi di Vittoria Zara. Donne e frati, quando mai si è sentito che ragionassero bene? Ma a lui dopo tutto che importava? Egli non aveva bisogno di nulla; era un uomo che poteva ridersi di tutto e di tutti. E d’improvviso, mentre Vittoria impallidiva e gli altri tutti tacevano prudentemente, si alzò, respinse con impeto lo sgabello e disse che se ne andava: rimase però un momento appoggiato allo stipite della porta in attesa di una parola di Vittoria: tardando questa parola a venire, egli si accomodò con rabbia la berretta tirandosela bene sulla fronte e se ne andò senza voltarsi, gridando:
— Addio, statevi in pace.
E per quanto il frate gli corresse dietro dicendogli che aveva da comunicargli qualche cosa d’importante, non si fermò. Allora, mentre Vittoria si morsicava le labbra per non piangere, Ignazia, senza smettere di scardassare la lana nera ed aspra come i suoi capelli, inghiottì qualche acino dell’uva che nascondeva nel grembiale.
— Così... che essi vivano sempre in discordia... così... — augurava fra sè.
Note
- ↑ Ammogliare ti vuoi, testa matta,
Il mio dire non ti dia pena;
Se metti il piede dentro la catena
Verrai a sapere che c’è dentro nel sacco...
Ammogliare ti vuoi, testa matta.