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le piante intristivano, la vigna distrutta dava l’idea della testa pelata d’un vecchio.
— Qui bisogna adoprare subito lingua e mani; se no sei un uomo rovinato, Mikà! — disse a sè stesso spronando il cavallo per andare in cerca del fattore.
Il fattore, la cui figurina un po’ curva ricordava quella di frate Zironi, coglieva con una canna le prime susine gialle mature. Sebbene sapesse Mikali già suo padrone, lo salutò appena come un estraneo di passaggio nel podere, continuando a guardare in su tra il fogliame lucido scosso dal vento marino e abbassando ogni tanto la canna per trarne dalla cima spaccata la susina color carne ricoperta come da un velo d’argento.
Dal canto suo il nuovo padrone guardava qua e là sdegnoso, dall’alto del cavallo, corrugando le sopracciglia; ma l’indifferenza del vecchietto gli dava quasi soggezione.
— Zio Baì, — disse frenando il cavallo che allungava la testa verso le fronde del susino, — mi pare che invecchiamo!
— Se siamo stati giovani è giusto che diventiamo vecchi, Mikalè! — disse il fattore, buttando lontano una susina guasta.
E le foglie si sbattevano rapide le une contro le altre, come piccole mani che applaudissero.
— I cristiani, va bene, — ribattè Mikali, — ma le piante e i muri se son tenuti bene non invecchiano.
— Le piante, tu dici? Le piante più dei cristiani. Questo susino, lo vedi? Due anni fa era