Le colpe altrui/Parte II/Capitolo III
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III.
L’indomani Vittoria annunziò alle serve che al calare del sole sarebbe andata da sua madre.
— Sola? — domandò Ignazia sospettosa.
— Perchè, ci sono forse le volpi? — ella ribattè ironica.
Durante il pomeriggio stette nella sua camera a cucire seduta davanti alla finestra: vedeva la brughiera gialla e verde e in lontananza i monti velati dall’ombra di una nuvola immobile; e sentiva una grave oppressione e insieme una gioia ardente come si preparasse ad un’azione eroica. Verso il tramonto si vestì, calzò le scarpe alte, preparò la sottana nera da buttarsi sul capo: mentre però stava per uscire incontrò Nicola Farre lo scongiuratore e dovette accompagnarlo nella stanza terrena.
L’uomo, alto, vestito di pelle, si fermò in mezzo alla stanza: con le punte della lunga barba entro i pugni, stette a guardare gl’insetti che salivano incessantemente dai mucchi del grano, sbucavano da ogni chicco, s’attaccavano al muro gli uni sugli altri piccoli e giallognoli come la crusca; poi s’accostò per osservarli meglio, prese sul palmo della mano un poco di frumento e disse rigettandolo sul mucchio:
— Portami un pajolino di rame pieno d’acqua di fonte.
Vittoria portò un pajolino che pareva d’oro, ed egli, dopo aversi tolto la berretta e lasciato cadere gli scarponi pesanti come intagliati in due ceppi di quercia, immerse i piedi neri nell’acqua brillante e si fece il segno della croce; ma prima di cominciare lo scongiuro domandò se nello stazzo c’erano donne o bestie gravide.
— Allontanale, se ci sono, — disse gravemente, — perchè la forza delle mie «parole» potrebbe farle abortire.
Rassicurato da Vittoria, trasse il suo coltello a serramanico e ne fece scattare la lama; e tenendo la punta fra il pollice e l’indice della mano sinistra si fermò il pomo del manico sul petto, mentre continuava a farsi dei segni di croce con l’acqua del pajolino, volgendo il viso di Mosè alla finestruola, verso la luna nuova che cadeva sul cielo come un anello d’argento.
— Tu credi? — domandò a Vittoria. — Se non credi è meglio che ti allontani.
Ella credeva, ma non ciecamente; eppoi con quell’ansia in cuore non era degna di assistere allo scongiuro: uscì quindi e domandò a zia Sirena, seduta a filare nel cortile, se sapeva le «parole» arcane la forza delle quali doveva liberare il frumento dagli insetti.
— Io non le so; e anche le sapessi non le direi. Sono cose che si tramandano di padre in figlio, da scongiuratore vecchio a scongiuratore giovane, come tesori preziosi.
Nella foga del parlare il fuso le cadde per terra, e poichè Vittoria lo raccolse e glielo restituì premurosa, i suoi occhi di solito minacciosi s’intenerirono.
— Dio ti assista, figlia d’oro; che ogni tuo passo ti porti verso il bene.
— Se sapesse dove vado! — disse Vittoria fra sè; e curvò la testa pensierosa. — Perchè andare lontano, per incontrarsi con Mikali? si domandava. Non potevano ritrovarsi da sua madre, o nello stazzo dove lei era la padrona? Ma una sete di emozioni la spingeva, dopo tanto tempo di monotona clausura; fosse pure un pericolo, era sempre meglio che quel continuo incubo di morte. Sì, bisognava andare da Mikali per dirgli addio e assicurarlo che ella non avrebbe più pensato ad altro uomo della terra. Uniti fra loro non potevano vivere, ma uniti ad altri neppure. Addio dunque, Mikali, addio, giovinezza, addio, fiore di passione: parti tranquillo e non tornare mai più; la felicità non è di questo mondo e neppure le parole magiche dello scongiuratore possono far cadere i bachi che rodono il cuore umano: addio.
Eppure non si sentiva triste come avrebbe dovuto essere in un momento di addio, e guardava il sole e le sembrava che il sole quel giorno cadesse solo per indicare a lei l’ora precisa del convegno.
— Quando il sole è tramontato... — aveva detto la gobbina.
Intanto l’uomo finiva gli scongiuri, traendo uno dopo l’altro i piedi dall’acqua diventata torbida: ella rientrò e vide che gli insetti già salivano più rapidi sul muro, ritirandosi tutti verso il tetto: l’uomo non sembrava nè sorpreso nè soddisfatto del miracolo; rimise le scarpe e la berretta, sedette rigido davanti a un canestro colmo di pane duro e di formaggio che la serva aveva apparecchiato, e si fece il segno della croce come prima di cominciare gli scongiuri.
— Eppoi dategli quello che avete pattuito; cosa? una misura di frumento e una libbra di lardo? Io vado perchè è tardi, — disse Vittoria; ma prima andò nella sua camera e si guardò nello specchio. Sorrideva alla sua immagine, perchè le pareva di vedersi da lontano, di rivedere la Vittoria che correva dietro la siepe del suo campo, al convegno d’amore. Come era bella la vita! Muoversi, palpitare, correre incontro al pericolo e incontro alla gioia!
Tornò per salutare l’uomo; l’uomo mangiava masticando forte e chiacchierando con le serve.
— Così vi assicuro, donne; Mikali va in America per guadagnarsi duecento scudi e poi intentare lite a te, Vittoria, e infine sposarsi con la nipote di Maria Luisa Zoncheddu...
Vittoria sentì un tremito assalirla dai piedi alla nuca: afferrò lo stipite dell’uscio e strinse i denti, ma non si fermò che per un attimo.
— Addio, zio Nicola; e grazie. Speriamo vada bene.
— È sempre andata bene! — egli affermò gravemente.
Ella uscì e camminò agile ma non rapida fino allo svolto della vigna: lassù volse intorno gli occhi sospettosa; e d’improvviso una espressione dura le irrigidì il viso e i suoi occhi brillarono metallici.
— Non sono la padrona io? — disse a voce alta. E si mise a correre attraverso il sentiero dietro la vigna, su su, fino alla tanca del dottore, fino alla brughiera: le pareva che una mano la spingesse facendola correre dietro la sua ombra che le insegnava la strada.
Il sole cadeva alle sue spalle e sul cielo schiarito le nuvole si muovevano, tutte d’oro e di frantumi di perle come grandi gioielli schiacciati. Fra le stoppie rosee i cavalli pascolavano coi fianchi lucenti al tramonto, e da ponente arrivava un alito di frescura che animava tutto il paesaggio. Ella continuava a correre lungo il sentiero come inseguita; infatti si sentì fermare, tirare indietro, e ancora una volta si ricordò di Andrea. Si volse e vide la sua sottana impigliata in un rovo... Piano piano la districò e le parve che le more, tra il fogliame smaltato del rovo, avessero entro ogni granellino un occhio che si rideva di lei.
Tutto intorno scintillava: ma ella non aveva mai veduto nè il cielo, nè le stelle, nè il mare lontano brillare come le pozze d’acqua del torrente al confine della tanca del dottore. Macchie di oleandri ancora fioriti e striscie di fieno stellino segnavano il corso dell’acqua; ella andava, andava, e se avesse risalito il corso misterioso di un grande fiume ignoto, fra boschi vergini, non si sarebbe turbata più di così. D’un tratto le parve che un velo cadesse attorno a lei; un silenzio notturno la circondò e gli oleandri odoravano forte, come vasi di profumo improvvisamente sturati. Il sole era tramontato.
— Mi sono smarrita? — si domandò; ma un rumore secco di legno battuto sulla pietra risuonò là dietro una roccia che pareva una testa enorme coperta da una capigliatura di rovi; e una voce di ninfa cantò:
Una culumba in su nìu |
— Zia, zia!
La gobbina lavava ancora, curva a scuotere un panno rosso entro l’acqua che ribolliva come sangue.
— Ho finito — disse torcendo il panno sulla pietra. — Egli non s’è visto ancora.
— Che m’importa, zia? Sono venuta per camminare, non per lui! Egli deve sposare quel viso di lievito di Battista Zoncheddu...
— Conti da focolare! — disse la gobbina alzandosi e scuotendosi le sottane bagnate. — Adesso vado a raccogliere i panni; tu stai qui.
I panni erano stesi sui rovi dietro la roccia. Vittoria sedette sul margine del torrente e si raccolse i lembi della gonna sul viso: dal suo posto vedeva, al di là della striscia d’acqua verdeggiante sul letto giallognolo del torrente, un prato coperto di stoppie, di giunchi, di piccoli cespugli verdi; e tutto il paesaggio, alla luce dell’orizzonte infocato, aveva ancora un riflesso d’oro come al tramonto.
I puledri di Mikali, con le gambe legate, pascolavano in fondo al prato, uno rosso, uno bianco, l’altro di un nero verdognolo come il cavallo di Lusbè; e ogni tanto nitrivano e si rincorrevano pesantemente, a salti, a sbalzi, sbattendosi forte la coda sui fianchi, e pareva si frustassero, castigandosi da sè stessi per la loro impotenza a rompere le pastoie.
E Vittoria pensava: «così sono io» e si rodeva per essere arrivata la prima al convegno, e avrebbe voluto andarsene, ma intanto aspettava, piegata dallo spasimo della gelosia e dal terrore che egli non venisse. Quando lo vide apparire in fondo al prato, come arrivasse di lontano dall’orizzonte luminoso, alto e nero con la corda attorno al braccio, si nascose meglio entro il suo manto nero; e le parve di avere il viso così terribile d’ira e di dolore che egli nel guardarla fuggirebbe per lo spavento ed il rimorso.
Mikali non si avvicinava e neppure la guardava di lontano, intento solo ai puledri; ella però sentiva per istinto che egli si moveva così, con grazia selvaggia, forte ed agile come un giovine gigante, solo per farsi vedere da lei e per piacerle. Egli infatti si divertiva a correre intorno al prato, gettando il laccio con destrezza; lo lanciò a distanza sul puledro nero, e il nodo scorsoio andò a infilare come un anello la testa dell’animale; e questo si sollevò sulle zampe posteriori agitando indietro la criniera fine e lucente come una capigliatura di donna. Mikali gli si accostò riattorcendo la corda al braccio e quando si curvò per slacciargli le pastoie scosse anche lui i capelli all’indietro quasi per imitarlo; poi con agilità da cavallerizzo da circo gli balzò sulla groppa nuda, e dove fermò le gambe, sui fianchi frementi della bestia, parvero formarsi due solchi. E furono come un corpo solo, un centauro che nel silenzio caldo del paesaggio gittava un grido per eccitarsi alla corsa.
— Alò! Alò!
Vittoria guardava con odio e con ammirazione: aveva paura ma anche desiderio che Mikali spronasse il puledro e se ne tornasse laggiù lontano dond’era venuto, lasciandole in cuore una umiliazione sanguinosa come una ferita.
— Va in buon’ora, va: è meglio, sì, che tu non ti avvicini, va, va; così imparo a non umiliarmi più; così tutto è finito, — gemeva fra sè; ma quando lo vide spingere il puledro verso il torrente una gioia folle la riprese.
Mikali si avvicinava attraverso la ghiaia e l’acqua bassa del guado; per un attimo scomparve entro una macchia d’oleandro come il sole in mezzo a una nuvola; riapparve e l’orizzonte sfolgorò di nuovo, di nuovo il grido «alò! alò!» che accompagnava il nitrito del puledro fece vibrare tutto il paesaggio.
Ma come non vedesse Vittoria, egli tirò dritto verso il campo all’altra sponda; ed ella sentì alle sue spalle lo scricchiolìo delle stoppie calpestate dal puledro e le parve che anche il suo cuore si stritolasse così.
La gobbina vigilava, però, dietro la roccia, raccogliendo e piegando i panni con cura: si drizzò davanti a Mikali e gli accennò Vittoria.
— Ti aspetta da tanto.
— E che m’importa? Aspetti pure, sette domeniche e sette giorni, come ho aspettato io...
Intanto balzava a terra e dopo aver legato il puledro a un ginepro lasciandogli la corda lunga perchè potesse pascolare, si avvicinò a Vittoria.
— E che fai, da queste parti?
Ella non rispose, immobile, con gli occhi fissi lontano.
— Dormi? Non rispondi al saluto? Eppure tua zia dice che hai da parlarmi.
Allora gli occhi di lei brillarono come l’acqua del torrente, di lagrime d’odio e di passione; d’un gesto buttò via la gonna dal capo e tese il braccio con l’indice minaccioso.
— Io? Parlarti? Quella ruffiana ha detto questo? Io a te, io?
— Abbassa la voce, Vittoria! È forse la prima volta che ci parliamo?
— Non è la prima, ma è certamente l’ultima, Mikali Zanche! Io però non ti ho chiamato, nè ho da dirti nulla.
Mikali la guardava dall’alto, pensando che solo nelle grandi occasioni si rivela l’uomo forte e prudente: sedette quindi accanto a lei, deciso a compatirne il furore e l’angoscia.
— Vittoria, ascoltami. Non occorre che tu ti agiti. Perchè? Desidero solo sapere una cosa: perchè ti sei offesa? Che hai contro di me? Che ti ho fatto?
— A me? Nulla.
— Lo vedi? Nulla. È questo che mi dava da pensare, in questi ultimi tempi. Nulla, dicevo a me stesso, non le ho fatto nulla! Che tu mi abbandonassi non m’importava; le donne siete tutte uguali. Ma mi domandavo: che cosa le ho fatto? E adesso tu stessa lo confermi: nulla. Ma un uomo come me...
— Io mi rido degli uomini come te! Tu credi di essere un uomo forte e saggio e sei più debole e sciocco di una donnicciuola. A me tu non hai fatto nulla, nè io ho fatto nulla a te; eppure, Mikali Zanche... tu ed io... non possiamo vivere in pace...
— Perchè?
— Il perchè tu lo sai.
Egli le buttò in grembo un filo d’erba.
— Perchè tu sei ricca ed io sono povero.
Vittoria spezzò il filo d’erba e cercò con gli occhi gli occhi di lui; e si guardarono come due che vogliono ferirsi a morte.
— Mikali! Hai perduto la ragione?
— Se l'ho perduta colpa tua! Peggio per te!
— Ah, questo è vero: peggio per me! Tutto il male è venuto per me, sì! Mai ti avessi incontrato, mai avessi dato retta alle tue parole! Egli non sarebbe morto.
— E tu l’avresti sposato senza volergli bene. E poi...
Ella non rispose, ma ricordò la panchina del cortile ove si sedeva per pregare, e intorno alla quale i fantasmi degli adulteri la vigilavano di continuo...
Tacquero; e pareva non avessero più nulla a dirsi. L’ombra del passato cadeva su loro grave come la roccia che li nascondeva.
— Basta! — disse alfine Mikali, sospirando e battendo una mano per terra. — Non credere che io abbia un cuore di cane, Vittoria! Ho pianto anch’io, ma nulla ho da rimproverarmi. Ti ho fatto del male, io? Un altro, al mio posto, a quest’ora ti avrebbe intentato lite e portato via l’eredità; e se la giustizia non avesse provveduto... basta, non voglio neppure pensarci... a quello che poteva accadere... s’io fossi stato un altro! Ma io... (si sollevò fiero) io sono un uomo che non bada a simili miserie! Se Dio vorrà, diventerò ricco anch’io, col mio lavoro; e mia madre non farà più la serva.
— Mikali, — disse Vittoria, ricordando le parole del frate, — tu hai ragione; la roba che ho io è vostra. Riprendetevela. Io non la voglio. Io vorrei solo la pace; ma la pace non tornerà mai più dentro di me.
— Per me non c’è stata mai; pace. Ancora prima di nascere ero già in combattimento con la mala sorte. Ah, anche mio padre è stato per me un nemico.
— Lascia stare i morti, Mikali.
— E chi li cerca? Sei tu che li tiri fuori dalla loro pace, Vittoria! Basta, — egli ripetè, sollevando le mani e lasciandole ricadere sulle ginocchia, — non siamo qui per questo. Ti ho chiesto che cosa ti ho fatto. Nulla, hai risposto. E va bene; nulla. Allora potevi dirmi prima d’oggi: Mikali, non pensare più a me. Ed io me ne andavo via subito lontano, perchè questa non è più terra per me.
— Ah, tu vai via per questo? per questo solo? A me dissero che c’è un’altra ragione.
— E quale sarebbe, malanno?
Ella lo guardò di sbieco, maliziosa e selvaggia.
— Senti, Mikali! Zia Zizza mi disse che minacciavi ferro e fuoco e che volevi parlarmi per questo. Non credere ch’io sia venuta per paura, dunque; io mi rido delle tue minacce. Ti conosco, fiorellino! Ma son venuta per dirti che non devi riderti di me! Io vivrò come la monaca nella sua cella, e la mia vita passerà così, scura come una nuvola; ma non per le tue minacce, Mikali Zanche! Vivrò così perchè me lo impone la mia coscienza; ma tu... tu pure, vedi... anche se ritornerai con un sacco d’oro... tu Battista Zoncheddu non la sposerai. Hai inteso?
Ella era gelosa, dunque? Com’era tragico e bello il suo viso! Mikali la guardava corrucciato e felice; e infine impallidì, come se qualcuno gli avesse dato un forte colpo alla schiena.
— Battista Zoncheddu? Lasciala stare! Quella almeno è una donna che sa voler bene. Ella, sì, piange la mia partenza...
— Ella non ti guarderà più in faccia quando io le avrò detto chi sei tu.
— E chi sono io? Che hai da dire a me? — egli gridò offeso.
— Tu... sei... tu ed io, assieme, sì, abbiamo fatto morire un uomo... un fratello! Siamo due assassini.
Mikali si strappò di capo la berretta e la buttò lontano con rabbia.
— Ma va, va, va! Tu sei pazza e vuoi far diventare pazzo anche me! Io però non andrò dal dottore per dirgli che ti conosco bene.
— Al dottore tu l’avvertenza gliel’hai data già col sangue del suo puledro: non parlare del dottore!
— E tu non parlare di Battista Zoncheddu! Io non penso a lei, ma quando volessi pensarci non saresti certo tu a potermelo proibire! Con qual diritto?
— E tu con quale diritto... allora?...
Entrambi alzavano la voce, guardandosi minacciosi. Mikali andò a riprendere la berretta e tornò a rimettersi nella posizione di prima, torvo, fremente.
— Io ti proibisco, sì, di pensare ad un altro uomo, perchè sei stata tu a lasciarmi senza ragione alcuna; così si abbandona un vecchio cane che non serve più a nulla, non un uomo come me! Ma neanche il cane si abbandona; lo si uccide. E tu... invece, perdio, tu fai peggio che uccidermi, Vittoria Zara! Tu mi costringi a emigrare come un pezzente, ad andarmene lontano come un esiliato... tu mi costringi a essere un uomo meschino, un miserabile!... Ma ringrazia il cielo che sia ancor viva mia madre! Appunto per lei vado via, per non perdermi, per non darle quest’ultimo dolore... Tu dici che ho fatto morire mio fratello... ma adesso basta; mia madre non la voglio far morire, no... E lei me lo diceva, povera lei; me lo diceva, sì: «non andare da Vittoria, figlio mio, è come se vai incontro alla morte!» Eppure, Vittoria, ti voleva bene anche lei, e piangeva per noi, e ancora piange e ancora dovrà piangere...
Vittoria taceva; un tremito l’agitava tutta, e aveva l’impressione che Mikali parlasse finalmente da uomo che conosce la sventura, come a un tratto divenuto vecchio, e che anche lei fosse vecchia e pentita degli errori di gioventù.
— Io venivo lo stesso, da te, — continuò Mikali, nascondendosi il viso fra le mani - e mai fossi venuto! Perchè ci siamo conosciuti? Io sono stato allevato orfano e peggio che orfano, senza nome; ma mia madre mi ha insegnato ad essere onesto; le avessi dato ascolto in tutto! Ma venivo da te come gli ubbriaconi vanno alla bettola; non potevo stare, mi pareva di avere sete e fame e di essere scomunicato se non venivo da te. Perchè non mi hai mandato via allora... subito? Tu che adesso sei così saggia perchè non lo sei stata allora? Parla, parla, sei muta? Vedi, non sai cosa dire, quando si tratta di ragionare: eppoi dici che lo sciocco sono io!
— Quante volte non ti dissi che facevamo male? Ricòrdati: fin dalla prima volta che ci siamo veduti...
— Sì! Che un fulmine mi annienti! Adesso parli così! Allora, sì, mi dicevi: ahi, ahi, facciamo male! — ma intanto mi attiravi, e mi mandavi il fazzoletto per darmi il convegno. Come non venire, se ero ammaliato? Tu, tu mi avevi ammaliato; tu, tu mi avevi dato da bere qualche cosa! Forse non mi abbracciavi? Forse non mi baciavi? Ci stringevamo come sposi, ed io me ne andavo e mi pareva di aver sempre la febbre... E adesso parli così? Ah, no... malanno, ah, no, Vittoria Zara! a un uomo come me non si fa così...
Eccitato dai ricordi si torceva di collera e di desiderio: per lui non esistevano i fantasmi che incatenavano Vittoria; e l’ora, il silenzio, la figura di lei che pareva lo sfidasse, aumentavano la sua passione.
— E adesso mi tiri fuori Battista Zoncheddu! Non sai cos’altro dire, dunque? Ma io non la voglio, Battista Zoncheddu, nè lei nè altre donne! Io voglio te sola, hai capito? Te sola... e ti avrò! Sì, sono stato sciocco; sciocco e stupido, hai ragione di dirlo, ma adesso non lo sono più.
D’un balzo, come un leopardo, le fu sopra, l’avvinse, la baciò con furore selvaggio; ma sentì le labbra di lei tremare senza sfuggire alle sue, e le lagrime di lei bagnargli il volto e mescolarsi al loro bacio. Si staccò e disse con voce turbata:
— E perchè piangi adesso?
Vittoria si asciugava il viso con la manica della camicia, e tendeva l’altra mano tremante come per allontanarlo da sè ma dolcemente.
— Mikali, lasciami... non farmi del male... Mikali, ci sposeremo...
Egli le prese la mano e se la portò agli occhi: piangeva anche lui, ma riprese a baciarla, e sul loro bacio le loro lagrime erano come il sale sulla vivanda...