Le colpe altrui/Parte II/Capitolo V
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V.
Ma presto i fidanzati fecero pace; e ogni tanto Mikali portava a Vittoria regali di valore.
Di nozze non si parlava ancora a causa del lutto, cosa che faceva sogghignare Ignazia; una sera in autunno ella vide la giovine padrona uscire di nascosto nell’orto e sentì qualcuno saltare il muro; ecco, erano là, non più sorvegliati dalla madre prudente, come durante le visite ufficiali di Mikali; erano là assieme come amanti segreti. E dire che la giovine saggia padrona aveva mandato il servo Pancraziu a seminare il frumento in un terreno lontano per evitare che lui ed Ignazia, fidanzati anch’essi, si vedessero soli di notte. E a lei, alla saggia padrona, chi faceva la guardia, di notte? La piccola gobba ruffiana? Ah, un rancore senza nome attossicava il sangue della serva; e il suo odio andava sopratutto a Mikali, a lui che penetrava come un amante audace nello stazzo a godersi l’amore di Vittoria proprio davanti a lei, tradita e sbeffeggiata, come s’ella fosse una pietra insensibile, uno straccio che si butta via col piede.
Il desiderio di gridare dalla sua finestruola: — padrona, anch’io sono stata lì con Mikali, anche per me egli ha saltato il muro, — le gonfiava la gola; ma l’angoscia le toglieva anche la forza dell’odio; si buttò sul lettuccio mordendo il guanciale come avrebbe voluto mordere il cuore dell’infedele, e tutto il lettuccio tremava come preso dallo spasimo di lei.
Le sembrava di vederli, uniti, egli curvo, coi lunghi capelli che ricadevano sulle treccie di Vittoria, e il viso di lei proteso abbandonato sotto il viso di lui, uniti come la terra e il cielo in quella dolce notte d’autunno: e fremiti di maledizione la scuotevano tutta.
— Io li ucciderò... io farò una malìa che marcirà le loro bocche in modo che non possano mai più baciarsi...
L’indomani all’alba andò al torrente per lavare i panni. Col suo affanno che le pesava come il cestino sul capo, passò dove sperava di incontrare Mikali. Egli però non era più mattiniero, poteva fare il signore, adesso, e aveva rinunziato anche al suo mestiere di domatore: solo perchè non gli dicessero ch’era un fannullone, seminava frumento e fave senza preoccuparsi troppo del raccolto.
Il terreno che coltivava era lo stesso dove un giorno Vittoria l’aveva veduto domare come per gioco i puledri; e dalla riva del torrente anche Ignazia lo vide quella mattina avanzarsi fra i solchi neri dorati dal sole, alto sull’orizzonte, con una piccola bisaccia sulla spalla. Ogni tanto si fermava, con una mano apriva la bisaccia e con l’altra traeva il frumento e lo spandeva attorno come per gioco. Tutto era gioco, per lui. La semente gli volava attorno simile a un nugolo d’insetti argentei, si posava sulla terra, ed egli s’avanzava indifferente, calpestando quello che egli stesso seminava.
La serva balzò, con le gonne bagnate, le braccia nude lucide come di bronzo, passò il guado e attese ferma sull’altra riva; egli la vide da lontano ma non si spaventò.
— Prudenza, Mikali, — disse a sè stesso. — Non perdere la tua calma.
— Che fai lì, giudea?
— Ti aspetto, non vedi?
— Parla.
— Mikali, — ella disse guardandolo con gli occhi terribili di amore e di odio, — io non voglio più stare in quella casa. Tu hai promesso a Pancraziu di dargli a mezzadria il podere di Santa Maria a Mare perchè potessimo sposarci presto e andarcene. Ma tu non puoi tenere la parola perchè non sei tu il padrone. Pensa dunque ad un altro mezzo, perchè io non voglio più stare in quella casa. Hai inteso?
— Oh, oh, come parli! Che ti devo, io?
— Nulla, mi devi! La vita, mi devi, cuore di tigre! Sono forse più viva, io? Sono una morta che cammina ancora. Tu mi hai succhiato il sangue: tu saltavi il muro, per venirmi a cercare, e dopo mi hai lasciato così, come un oggetto rotto. Va’, che gli uomini siete tutti feroci, più vili del cane, più vili della bestia più vile. Razza di Caino, ammazzate tutti il fratello vostro per andargli avanti...
— Ah, demonia, ti affogo, — gridò Mikali buttandole sulla testa la bisaccia sotto cui ella cominciò a dibattersi e a singhiozzare.
— Affogami pure... Uccidimi... Sei abituato al male; hai ucciso uomini e bestie, uccideresti tua madre per bere il suo sangue se hai sete. Ma non sono io sola a conoscere il male che hai fatto... E non tutti puoi affogare...
— Santa pazienza, — disse allora Mikali, ritirando la bisaccia e ritrovando la sua calma, — sta zitta, Ignazia, è meglio per te.
— Ebbene, mandaci via, Mikali! — ella supplicò, guardandolo coi suoi grandi occhi ove restava solo il dolore. — Ieri notte vi ho visti, là, dove venivo io... Mandaci via; se no, non rispondo di me!
Era bella, d’una bellezza barbara e appassionata; e mentre minacciava si offriva, e le sue labbra che pronunziavano parole d’odio tremavano di desiderio, e le sue mani si aggrappavano alle vesti di Mikali come le zampe dell’uccello alle fronde della quercia. Egli si sentì investire dalla passione di lei come da una vampata: cercò di respingerla ma trovò le braccia nude e calde di lei.
— Sono un uomo di cuore... lo sai, — cominciò a mormorare, volgendo il viso dall’altra parte per sfuggire gli occhi della donna. — Terrò la promessa... Il padrone sono io... Ma non fare scandali...
— Non farò nulla, Mikali... Quando ho mai fatto nulla contro di te? Sono venuta perchè volevo vederti... Non voglio nulla, Mikali... ho parlato per rabbia... Ieri notte... mentre eravate assieme... io morivo... Guardami almeno, Mikali... l’hai detto, sei un uomo di cuore...
Egli rise goffamente, turbato.
— Va! non ti basta Pancraziu?
— Malanno lo colga! Io non lo voglio. Sei tu che voglio, Mikali, anima mia... Ti domando di sposarmi, forse? Ti domando l’elemosina come una povera affamata...
Egli si credeva un uomo di cuore, un gigante generoso; si volse e le grosse labbra rossastre della serva attirarono le sue come l’orlo d’un vaso colmo di vino.
*
In seguito Ignazia diventò più buona; più infelice, ma più buona; e quando, avvicinandosi il tempo delle nozze, le proposero di andare a servire nello stazzo Zoncheddu in cambio della madre di Mikali, accettò senz’altro. Andò dunque per il contratto, e non rispose alle mille domande curiose della nuova padrona, ma quando Battista, pallida e turbata, le fece vedere le camere dello stazzo e come per caso aprì una cassa e le disse sottovoce: — È il vestito che doveva mettere Mikali per partire... — entrambe, la giovane orfana e la serva, si chinarono sulla cassa come per guardare nella profondità del loro passato l’immagine di Mikali quale era appartenuto a loro, povero e lavoratore.
Mentre Ignazia se ne andava, Marianna Zanche giù nella corte smise un momento di arrotolare i panni che erano serviti ad avvolgere il pane in fermento e domandò se tutto era concluso.
— Tutto, zia Marianna! Fra poco ritornerete a casa vostra...
— Sia fatta la volontà di Dio, — ella mormorò con rassegnazione; e riprese ad arrotolare i panni, grigi ed aspri com’era stata la sua vita, pensando a tutte le cose che lasciava con dolore sebbene non sue. Estranea qua, estranea là, si sentiva più che mai di passaggio in questa vita, ma era rassegnata a tutto. Sia fatta la volontà di Dio.
*
Eppure la sera in cui Vittoria e Pietrina Zara andarono a prenderla per accompagnarla allo stazzo — tre giorni avanti le nozze — cominciò a tremare come una foglia; le gambe le si piegavano, e sarebbe caduta se le donne non l’avessero sorretta. Le pareva che laggiù nella sua casa nulla fosse mutato. Bakis, grande e terribile, sedeva accanto al focolare con la fronte cupa come un orizzonte annuvolato, e in contrasto Andrea piccolo e bruno saltellava come un uccellino per la casa desolata. I servi tacevano e nel cortile la panchina del peccato mortale illuminata dalla luna sembrava una pietra di sepolcro.
Le donne Zoncheddu accompagnarono fino allo stradone l’infelice che era stata loro ospite e loro serva, e prima di separarsi Battista l’abbracciò stretta domandandole perdono se qualche volta le aveva mancato di rispetto; pareva lei la serva, e seguiva con uno sguardo disperato la madre di Mikali, sembrandole che oramai si rompesse l’ultimo filo che la legava al suo diletto.
Le donne Zanche partirono. Era una sera di febbraio limpida e fredda; sull’orizzonte glauco apparivano le cime del Limbara coperte di neve, mentre più in qua Monte Nieddu, scuro sotto la luna sorgente, gettava ancora la sua ombra sulla brughiera.
Le voci delle donne e più in là i latrati dei cani e il suono dei campanacci degli armenti echeggiavano argentini come ripercossi dal cristallo del cielo.
Vittoria si sentiva felice; le pareva di ricondurre allo stazzo, con la madre di Mikali, ciò che mancava alla sua vita: la pace della coscienza.
Marianna Zanche, al contrario, procedeva barcollando e ogni tanto diceva fermandosi inquieta:
— Mi pare di aver dimenticato qualche cosa.
Per distrarla, Pietrina Zara le ricordava cose della loro lontana fanciullezza.
— Rammenti, una volta siamo venute fin quassù al torrente per cogliere more. Ci attardammo; era quasi sera e un fruscio misterioso si levò dalle macchie. Tu dicesti: forse è un’anima errante. E allora noi a correre, a correre, inseguite da qualche cosa di spaventevole. D’improvviso tu cominciasti a urlare, trattenuta come da una mano con cento unghie; ma io ebbi il coraggio di voltarmi e vidi che era un rovo, e là dietro noi saltellava un capretto smarrito.
Ma i ricordi del tempo felice non potevano che rendere più triste la donna che tornava; e più ella avanzava più i fantasmi la circondavano. Ecco la muriccia della vigna, ecco i pascoli con le mandrie e la capanna del pastore in fondo; la luna gettava su tutte le cose il suo velo azzurro, ma le ombre erano più grandi e misteriose in quel chiarore fantastico; ecco un cavallo nero immobile lassù, con la criniera irta scintillante di stelle; ecco un gigante seduto sopra una pietra, sull’orlo della strada; è lui? è la sua anima ancora in agguato al confine delle sue terre, pronta a gettarsi sulla colpevole che torna nonostante il suo divieto?
E nella distesa azzurrognola dei pascoli stanno immobili strane bestie nere, accovacciate su le loro stesse ombre, con velli irti, con lunghe code, con corna ramose di cervi... e Marianna Zanche guarda a destra, guarda a sinistra, ed ha paura che a un tratto il vento si sollevi e desti quel mondo misterioso, e tutti i fantasmi corrano contro di lei e la costringano a tornare indietro.
Un lume apparve in fondo alla linea bianca dello stradale e un cerchio di luce dorata si sparse come una grande aureola attorno a una figura viva e vera, più terribile, per la donna che tornava, di tutte le forme intravedute con la fantasia.
— Zia Sirena! Che dirà? Che dirà? — mormorò zia Marianna attaccandosi al braccio di Vittoria e cercando di nascondersi alle sue spalle. — Ella sa... che il morto non voleva ch’io tornassi... Che dirà?
— Che volete che dica? Siete voi la padrona.
— No, no, Vittoria, non parlare così, cuore mio, mi fai male...
— Sta zitta, — consigliò zia Pietrina. — Non ti conviene parlare così! Mio marito, beato, diceva che l’unica cosa quando siamo turbati è di tacere.
E la donna che tornava seguì il consiglio della vedova fedele; tacque, ma tremava tutta, e Vittoria a quell’angoscia che le si comunicava come una febbre contagiosa, si rattristò di nuovo anche lei; anche a lei un fantasma sbattè le ali sul capo come un uccello notturno, e per la prima volta ella si domandò se non offendeva maggiormente l’ombra di Bakis Zanche riconducendo nella sua casa la donna infedele.
*
Zia Sirena, col lume in mano, aspettava davanti allo stazzo; la sua gonna sembrava rigata di sangue, e il suo viso era più che mai minaccioso, ma a misura che il gruppo delle donne avanzava e la sua antica padrona le appariva quale era, un avanzo di naufragio respinto dall’onda della vita al punto dove l’onda stessa l’aveva travolto, un solco di pietà si scavava attorno alla sua bocca sdegnosa.
— Buona notte, Marianna; ebbene? — salutò movendo un passo incontro alla donna; e sollevò il lume come per rischiararle meglio intorno il luogo dove tornava.
E Marianna Zanche ripassò piangendo il limitare del portone: rivide il cortile, la casa, la panchina del peccato; e il profilo della tettoia dalla quale la fucilata di suo marito era scoppiata come un fulmine di Dio, le sembrò una montagna nera sotto la luna. Tutto come in quella notte di sogno e di orrore. La cucina era la stessa, con la panca, il parapetto, le stuoie, le casseruole rosse alle pareti; il gatto saltò dal forno ai piedi di Vittoria; il cane abbaiava nel cortile; Ignazia friggeva le larghe fette di lardo che s’arricciavano entro la padella stagnata, le larghe fette di lardo che piacevano tanto a Bakis Zanche. Tutto come allora.
E guidata come una cieca dalla antica compagna di fanciullezza, ella sedette accanto al focolare guardando se dall’andito veniva suo marito, grasso, bonario, così alto che per parlare con lei piccolina doveva curvarsi in modo che una piega si formava fra la sua cintura e lo stomaco.
Ed ecco le sembra di non aver più paura: se egli le ha permesso di rientrare a casa sua e sedersi accanto al focolare, deve essere bensì placato. Ma come è vuota, la casa, nonostante la presenza di tutte quelle donne! nessuno si avanza dall’andito, nessuno giunge di fuori. Ella vorrebbe domandare notizia dei servi, tanto per dire qualche cosa, ma si vergogna; suo malgrado, sebbene la respinga con terrore, la figura dell’altro sorge dietro quella di Bakis Zanche, dietro quella di Andrea, in uno sfondo di passione e di morte.
— Allegra, zia Marianna! — disse Vittoria battendole una mano sulla spalla. — Adesso zia Sirena vi fa uno scherzo.
La vecchia infatti si frugava in tasca.
— Non è uno scherzo, Vittoria. Sei tu che scherzi sempre, ed hai ragione perchè sei contenta. Ecco, Marianna Zanche, prendi.
Le offriva le chiavi.
La donna sollevò dapprima i grandi occhi spaventati, e l’impressione che la vecchia serva le facesse davvero uno scherzo terribile, glieli riempì di cocenti lagrime d’umiliazione: zia Sirena però, con le chiavi in mano, le vecchie chiavi tanto usate che luccicavano al fuoco come fossero d’argento, guardava con rimprovero Vittoria, e poichè Marianna Zanche non accettava le chiavi le porse a lei.
Vittoria le prese e si accovacciò presso la donna.
— Zia Marianna! Prendete le chiavi! Eccole, ve le offro come un fiore. Prendetele! Siete voi la padrona. Non piangete, non piangete più.
E come la donna, con una mano sugli occhi, con l’altra la respingeva dolcemente, ella le mise la faccia sul grembo e pianse assieme con lei.
Poi si alzò e volle restituire le chiavi a zia Sirena. Respinta di nuovo, rimase un momento incerta guardando con una smorfia infantile le chiavi; infine se le mise in tasca gridando come una bimba:
— Meglio! Meglio!
Così rimasero a lei.
*
La cena era pronta. Tornò Pancraziu e le sue chiacchiere dissiparono un poco la mestizia delle donne: parlava dei giojelli che Mikali era andato a comprare in città, e scherzava paragonandoli a quelli destinati a Ignazia.
— Una collana di bacche di sovero e anelli di giunco quanti ne vuoi, focaccia mia nera; così Dio mi assista, anche la pietra gialla contro il malocchio, fatta con un grano di gomma di pino, ti donerò. Ma se Vittoria mi presta venti scudi ti comprerò davvero i bottoni d’oro.
Marianna Zanche pensava però ai cento scudi che Mikali s’era fatto prestare dai Zoncheddu per comprare i doni alla sposa, e sospirava.
Dopo la cena, la madre di Vittoria s’alzò per andarsene, accompagnata dal servo: salutando la sua antica compagna le disse sottovoce:
— Marianna mia, qui c’è poca religione. Tu dovresti ogni sera riunire le donne attorno a te per recitare assieme il rosario. Mio marito bonanima diceva che alla sera il rosario riunisce le anime anche se di giorno sono state divise dal demonio.
Allora Marianna propose timidamente la preghiera in comune, e le donne acconsentirono: ella intonava, e la sua voce fioca e lontana pareva uscisse di sotterra mentre quella di zia Sirena vibrava ancora squillante e in quella velata della serva giovane risuonava una nota cupa e triste piena di passione repressa. Sovrastava a tutte la voce di Vittoria, sonora e argentina; d’improvviso però uno sbadiglio la stroncò, ed ella si mise a ridere.
— Ricordavo la storia del rovo!
Marianna Zanche continuò la preghiera come non avesse inteso, e le parole del «Padre nostro» si confusero col rumore delle stoviglie lavate da Ignazia e col cigolìo della fiamma alta sul focolare. E intorno sulle pareti scure arrossate dal chiarore del fuoco le ombre deformi gigantesche sembravano i fantasmi placati dei morti che partecipassero alla preghiera di pace e di perdono.