Le Troadi/Introduzione

Introduzione

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Le Troadi Personaggi

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La semplicità di costruzione, la linearità de Le Tròadi, fu rilevata da tutti i critici. E piú d’uno ebbe a pronunciare il nome di Eschilo.

Giusto ravvicinamento. E giova particolareggiare il confronto.

Al Prometeo ci fa pensare il duetto che apre il dramma: Posidone ed Atena ne Le Tròadi, come Potere e Forza nel Prometeo. E in entrambi i drammi segue un’aria cantata (monodia) del protagonista. E il protagonista — lí Prometeo, qui Ecuba — rimane poi su la scena durante tutto lo spettacolo, e dinanzi a lui sfilano i personaggi che animano i varii episodi.

Tre episodii, sostanzialmente, divisi nelle seguenti scene.

I — Taltibio specifica la destinazione delle varie donne troiane cadute schiave degli Achei.

— Cassandra in delirio predice i funesti eventi futuri.

II — Giunge Andromaca col bambino Astianatte.

— Taltibio torna ad annunciare che gli Achei hanno deliberata la morte di Astianatte. Straziante separazione della madre dal figlio.

III — Giunge Menelao, poi Elena. Dibattito fra Elena ed Ecuba. [p. 84 modifica]

— I soldati achei recano il cadavere di Astianatte.

Epilogo — Incendio di Troia, lamentazione e partenza di Ecuba.

Come appare anche da un’arida esposizione, questi episodii non sono artificiosamente legati l’uno all’altro, non aspirano a novità, non effettuano sorprese, e non presentano unità, tranne quella che possano derivare dal riferirsi ad una sensibilità unica, quella della povera Ecuba dolorante. E se quest’ultimo particolare ci fa pensare piú specialmente al Prometeo, tutti gli altri ci richiamano palesemente alla tecnica eschilea.

E si possono rilevare anche piú precise somiglianze con Eschilo. La scena di Cassandra è una evidentissima derivazione dall’Agamennone. Il carro con Andromaca ed Astianatte ricorda quello che, anche nell’Agamennone, porta Agamennone e Cassandra.

E si può cogliere perfino qualche concordanza di piú minuti concetti, quasi di parole.

Posídone, ne Le Tròadi, dice:

          O stolto l’uom che la città distrugge,
          e templi lascia in abbandono, e tombe
          ai morti sacre: ei segna la sua perdita.

E Dario, nei Persiani (809 sg.), aveva detto che i soldati di suo figlio, giunti in Ellade,

          reverenza non ebbero, che gl’idoli
          non furasser dei Numi, e non ardessero
          i loro templi. Son l’are scomparse,
          i monumenti ai Dèmoni, divelti
          dalle radici, dalle basi, giacciono
          spesso confusi. Tanto mal commisero;

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e non minore è quello ch’ora soffrono,
ed altro ancor ne soffriranno.

Ne Le Tròadi è dunque evidente la tendenza, che domina tutta l’ultima parte dell’attività artistica di Euripide, di tornare all’antico. Tendenza che culmina ne Le Baccanti, dramma che in certo senso si potrebbe quasi dire preeschileo.

Qui siamo invece sotto il pieno influsso del Titano d’Eleusi. E poiché questo punto sembra incontrovertibile, non parrà né chimerico né troppo ardito procedere a qualche ulteriore induzione.

Noi sappiamo che le trilogie d’Eschilo erano composte di tre momenti d’una medesima azione, disposti in modo da ricavarne un significato, o, se si vuole, una «morale». In séguito, invece, con Sofocle, questo concetto fu abbandonato, e la trilogia presentata al concorso tragico, che prescriveva appunto due drammi tragici ed uno satiresco, risultò dall’unione di tre drammi di soggetto disparato, qualche volta disparatissimo.

La trilogia, invece, alla quale appartennero Le Tròadi, ebbe carattere organico. I due drammi che le precedevano, l’Alessandro e il Palamede, erano anch’essi di soggetto troiano E possiamo, piú o meno, riordirne lo schema.

alessandro. Quando Ecuba era incinta di Alessandro (Paride), sognò di partorire una fiaccola. Dissero gl’indovini che il nascituro sarebbe stato causa dell’incendio di Troia: onde il padre Priamo lo affidò ad un vecchio, perché l’uccidesse. Ma il vecchio n’ebbe pietà, e l’espose sul monte Ida, dove un bifolco lo raccolse e lo allevò. Quando fu cresciuto, ebbe occasione di andare a Troia; e qui, in una gara ginnica, trionfò, incognito, sui due fratelli Ettore e Deifobo. Deifobo concepí il disegno di ucciderlo; ma un provvidenziale — o funesto — riconoscimento impedí il fratricidio. Tali gli eventi [p. 86 modifica]esposti nel dramma, nel cui epilogo Cassandra prediceva la funesta rovina di Troia.

Palamede. Palamede, figlio di Nauplio, re dell’Eubea, andò a Troia con gli altri signori achei. E per la sua saggezza e la sua scaltrezza suscitava l’invidia di molti, e, massime, d’Ulisse, che, del resto, aveva contro di lui anche rancori personali, e che, per vendicarsi, escogitò la seguente trama. Convinse Agamennone a trasportare per un giorno altrove le tende; e nel luogo ove era quella di Palamede, seppellí una gran somma d’oro. Poi fece scavare quell’oro, e convinse gli Achei che Palamede l’aveva ricevuto da Priamo per tradirli. L’innocente fu lapidato. Ma suo fratello Òiaco, scrisse il racconto dell’iniquo scempio su dei remi, e li gittò in mare, con la speranza che le correnti li portassero al padre Nauplio (lo stratagemma fu parodiato da Aristofane nelle Tesmoforiazuse). La speranza non fu delusa. E Nauplio, quando gli Achei tornavano in patria, accesi di notte dei fuochi insidiosi, provocò il naufragio di tutta la loro flotta.

Si vede chiaro che da queste vicende era facile derivare un concetto etico, una morale.

Nel primo dramma era il presupposto della catastrofe finale, la presa di Troia, dovuta al fatto che Priamo, sia pure senza deliberato proposito, non aveva ottemperato alle disposizioni del Fato.

Nel secondo era la preparazione di un momento posteriore anche alla catastrofe, che non avveniva sulla scena, ma era preannunciato da Cassandra: la rovina finale degli Achei, a cominciar dal naufragio provocato da Nauplio, e annunciato da Posídone nel prologo. Questa rovina, per la quale i vincitori sembrano a momenti piú disgraziati dei vinti, fu provocata dall’ingiustizia che gli Achei commisero contro Palamede, sia pure senza averne piena coscienza.

Ed anche Euripide, come Eschilo, non si limita all’affer[p. 87 modifica]mazione astratta e generica della verità morale che prima o poi Dio castiga le colpe; bensí l’applica, rampogna e mònito, alla vita contemporanea. Non convincerà l’opinione, abbastanza diffusa, che Le Tròadi siano un lavoro di circostanza, ispirato all’imminente spedizione contro la Sicilia; ma difficilmente potremo respingere le conclusioni del Parmentier, che siano una protesta contro il carattere di immanità e di barbarie che sempre piú venivano assumendo in Grecia le guerre fratricide1.

Ed anche difficile mi sembra penetrar meglio che non faccia il Parmentier nelle intenzioni del poeta. «Volendo trasportare nel passato epico, secondo l’abitudine della sua arte, un problema morale d’applicazione contemporanea, Euripide ha scelto per tema precisamente la distruzione di Troia, patrimonio comune di gloria di cui tanto andavan superbi i Greci. Esaminando questa vittoria alla luce della ragione e della sua propria esperienza, egli ha l’audacia di svalutarla, e di presentare al popolo d’Atene una tragedia che è insieme un gloria victis e un vae victoribus».

Per formarci un’idea adeguata dell’efficacia a cui poteron giungere in una rappresentazione Le Tròadi, cosí semplici e lineari, e cosí prive d’intreccio, conviene rievocare quanto è possibile, e realizzare nella nostra fantasia gli elementi che alla semplice lettura non risultano, o per lo meno non cadono sotto la diretta percezione dei sensi (allestimento scenico), o quelli interamente perduti (musica).

Rileviamo prima come le eroine di ciascuno dei tre episodii siano presentate nella cornice d’un effetto scenico.

L’arrivo di Cassandra è preannunciato da un tale irraggiamento di luce entro la tenda, che Taltibio pensa ad un incendio. [p. 88 modifica]

          Oh, qual bagliore entro la tenda brilla
          di fiaccole? Che fan mai le Troiane?
          ardono forse gli àditi?

Andromaca appare, stretto il pargolo fra le braccia, sovra un carro dove sono ammucchiate le spoglie dei Frigi, e le armi di Ettore, fra le quali si distingue il grande scudo. Simbolo, quasi, e sintesi del funesto epilogo della guerra di Troia.

Ed anche piú impressionante, sebbene alla semplice lettura possa sfuggire, dové essere l’uscita di Elena. Essa, come si rileva dalle parole di Ecuba, pur nel momento fatale che deve credere della sua morte, s’è fatta bella. Tratto di fine psicologia, anche se in mezzo ad un clima cosí tragico introduce un’aura assai meno austera. E cosí bella e agghindata appare fra i rozzi soldati che la trascinano innanzi a Menelao. E la sua figura d’incomparabile bellezza, che su tanta strage, su tanta squallida miseria, su tanto strazio disumano, si libra raggiante, intatta, quasi intangibile, come una iridescenza che il sole accenda nelle esalazioni d’un’acqua putre, se da un lato colpisce direttamente e assolutamente la sensibilità estetica dello spettatore, dall’altro s’impone al suo spirito con l’arcana suasione d’un simbolo.

Ma specialmente meraviglioso è il finale. Mentre i soldati portano via il corpicciuolo straziato d’Astianatte, su le mura di Troia cominciano a lingueggiare alte fiamme. Ma è appena il principio dell’incendo. Entra Taltibio, e lancia ai soldati l’ordine che corrano tutti a bruciare la misera città. E mentre quelli empiono la scena, che cosí arde d’una moltitudine di fiaccole, ed Ecuba si avventa per morire tra le fiamme, ed è ricondotta a forza fra la turba delle schiave, ed esala il suo strazio in una disperata nenia riecheggiata dal coro, sullo sfondo si svolge, per varie fasi chiaramente significate dalle parole del contesto, l’incendio della città. Ardono le case, [p. 89 modifica]crollano i tetti, crollano le mura ciclopiche, in un rogo gigantesco. Poi, il fumo diviene tanto denso, che prima nasconde la reggia, poi l’intera acropoli. E quando tutto è scomparso dietro una negra cortina, ecco una romba immane, e un immane sussulto, quasi un tremuoto. Troia è crollata.

E squilla terribile la tromba tirrena, il segnale, già preannunciato da Taltibio, della partenza. Spinta dai soldati, la grama turba delle schiave si allontana; e fra loro, piegata nella vecchiaia e nello spasimo, la regina. Dove fu Pergamo la ricca d’oro, dove furono la gloria e lo splendore del piú ricco impero d’Asia, non rimangono che silenzio e deserto.

Noi non possiamo dire con precisione quale fosse la realizzazione di questo quadro scenico. Ma non abbiamo nessuna ragione per credere che al tempo di Euripide la tecnica scenica non possedesse i mezzi per effettuarla, né che Euripide non facesse di tutto per adeguarla alla sua visione.

E quasi piú che alla scenografia, bisogna badare alla musica. Facciamo rapidamente sfilare le varie scene del dramma.

Súbito dopo il prologo, l’azione si apre con una monodia di Ecuba. Monodia che incomincia con una serie anapestica (99-121 ), recitata dunque, secondo ogni probabilità, in forma di parakataloghé, cioè di declamazione accompagnata dal flauto — un equivalente del recitativo del nostro melodramma.

Seguono una strofe ed un’antistrofe in metri lirici: nei quali, dunque, la voce, dagli accenti declamati, e sia pure con enfasi, della parakataloghé, saliva agli accenti scolpiti del canto ( 122-152).

Qui entra il Coro, che in una prima coppia di strofe canta alternativamente con Ecuba. Il carattere fittamente dialogato di questa prima parte farebbe credere che interloquisse solo [p. 90 modifica]un semicoro, o magari la sola corifea. Certo, l’intero coro intonava la seconda coppia di strofe, nella quale si effettua la perorazione di tutto questo «pezzo», che, con taglio decisamente musicale, si estende per 130 versi, dal 99 al 229.

E, preannunciato da un brano ancora anapestico, e nella misura canonica della tetrapodia (230-234), ecco Taltibio. E segue tra lui ed Ecuba un duetto, nel quale la sua parte è costantemente in trimetri giambici, quella d’Ecuba in metri lirici, conclusi con una monodia, una vera aria distesa.

Poche battute ancora, alle quali si associa anche il Coro, e giunge Cassandra, che intona un’altra monodia strofica, del piú alto lirismo (307-341). Alla quale segue un brano in trimetri giambici, che però si conclude con 18 tetrametri trocaici, che quasi certamente salivano di nuovo ad una declamazione quasi cantata, probabilmente con l’accompagnamento dei flauti.

Segue un intermezzo corale (511-571 ). E poi, con l’arrivo d’Andromaca, ecco un altro duetto schiettamente lirico, cantato (dal 572 al 603; e gli ultimi versi — 590-603 — quasi tutti esametri dattilici).

Dopo la scena d’Andromaca, un nuovo intermezzo corale di 64 versi. La scena fra Menelao, Elena ed Ecuba è in trimetri, tutta semplicemente recitata (né sembra che il contenuto consentisse lirismi). Poi un nuoVO intermezzo corale (1060-1122). E nell’ultimo quadro, un primo brano lirico, in forma di kommós (brano lirico fra gli attori e il Coro), dal 1216 al 1251, e un altro, che conclude il dramma, dal 1287 al 1332. E, a guardar bene, tutto il brano che va dal 1216 al 1332 può esser considerato come un insieme lirico, nel quale il brano in trimetri 1260-1286 rimane come conglobato.

E se vogliamo fare un po’ di riassunto numerico, vediamo che sui 1332 versi de Le Tròadi, ben 546, cioè circa la metà, sono, in una maniera o nell’altra, musicati. E di questi [p. 91 modifica]la parte in funzione drammatica risultava di 336 versi, quasi doppia di quella in funzione schiettamente corale (186).

Le Tròadi erano dunque un vero e proprio melodramma nel senso moderno; nel quale, però, accanto alla parte musicata si ostinava a rimanere una parte semplicemente recitata, pervasa anch’essa, ai lembi, dalla marea della musica. Questa impressione si riceve schietta specialmente dal principio del dramma, che dal verso 98 al 340 procede interamente musicato, salvo un piccolissimo brano di Taltibio.

Ma torniamo al nostro punto. Per farci un’idea un po’ concreta del complesso, non bastano né còmputi numerici, né sistematiche esposizioni. Occorre fare, in qualche modo, riviver la musica.

E questo è, in certa misura, possibile. Dalle parole, che ci son rimaste prive delle note, è ancor possibile, dove piú, dove meno, dove con sicurezza quasi assoluta, ricostruire gli schemi ritmici.2

E nel complesso d’una composizione musicale greca antica, già il semplice schema ritmico aveva grande importanza, assai maggiore che non possa averne in una moderna. Ma, a parte ciò, neppure è preclusa la via a qualche tentativo legittimo d’infondere varietà di colore a quegli schemi monocromi. Di musica greca non c’è rimasto molto; ma quel poco — se volete, quel pochissimo — basta a darci un’idea della generica aura mèlica, che, non troppo varia e assai legata alle legislazioni modali, rivestiva, probabilmente con una certa monotonia, le ricche e complesse costruzioni ritmiche.

Senza dubbio, il problema di una simile ideal costruzione è piú difficile per Euripide, che, sull’esempio dell’ammirato Timoteo, semplificava un po’ i ritmi, per accrescere la va[p. 92 modifica]rietà, spesso, sembrerebbe, anche strana ed ardita, delle inflessioni meliche. Ma per fortuna, proprio di Euripide — e di lui solo possediamo un frammento corale, dell’Oreste, accompagnato dalle note. Brevissimo, e che pure ci dà un’idea assai precisa del suo fraseggiare, e, specialmente, del pathos che lo animava. Questo, in primo luogo, e poi il secondo dei frammentini tragici scoperti poco tempo fa a Contrallinopolis3, e, in definitiva, anche i due Inni ad Apollo, che sembrano tutti sotto l’influsso di Timoteo, o per lo meno ispirati ai suoi principii, ci rendono assai bene l’atmosfera melodica nella quale si sarà librata tutta la musica di Euripide.

E chi abbia sensibilità e specifica cultura musicale, facilmente potrà derivarne un’aura per colorire e muovere quei nudi schemi. Operazione tutt’altro che futile e dilettantesca; e che, mentre da un lato vale, come dicemmo, a far rivivere nella nostra fantasia l’opera d’arte in una piú completa integrazione, dall’altro serve ad illuminare anche punti singoli dinanzi ai quali la nostra sensibilità rimane talora perplessa.

Adduco un esempio. Il duetto fra Andromaca ed Ecuba (577 sg.), a leggerlo cosí, come appare nelle nude parole, con le singhiozzanti interruzioni di Ecuba, sembra zoppicante ed affannoso. Ricostruiamo lo schema ritmico, rivestiamolo di note (una lieve mano d’acquarello su un disegno lineare), e riacquisteremo la quadratura, e vedremo come quegli insistenti monosillabi e vocaboli di Ecuba poterono esser fulcro ad un alto effetto espressivo (poterono, dico, non già doverono). Tento la ricostruzione, e aggiungo in fine della prefazione qualche chiarimento. [p. 93 modifica]

Duetto de “Le Troadi„

STROFE


\new PianoStaff
\relative c''
\new Staff << { \key c \major \tempo "Lento" \time 6/8 
e8 ees4 d4. | ees4 d8 des4 e8 | e4. ees4 r8 \break
g,8 aes'4 f8 es4 | d4 des8 c4 f8 | f4. e4 r8 \break
g,8 aes'4 f4. | e4 ees8 d4 r8 | g,8 aes'4 ees4. \break
d4 des8 c4 \fermata r8 | aes8 aes8 aes8 f4 f8 | ees4. d4 r8

}
 \addlyrics
{ A -- chai -- oi | des -- po -- tai m’a -- | gu -- sin | Oi -- moi Ti pai | an e -- mon ste -- na -- zeis | Ai -- ai Tond’ -- al -- ge -- on O Zeu Kai sym -- pho -- ras Te -- ke -- a Prin pot’ -- e -- men }
\new Staff { \clef bass \key c \major
<<g,,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4 | <<g,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4 | <<g,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4 \break
<<f,4~f'4>> r8 r4 r8 | <<f,4.~f'4.>> <<f,8 f'8>> r4 | <<g,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4 \break
<<f,4~f'4>> r8 r4 r8 | <<g,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4 | <<f,4~f'4>> r8 r4 r8 \break
<<g,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4 | <<f,4. f'4.>> <<aes,4. aes'4.>> | 
<<g,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4
}
>>
[p. 94 modifica]

ANTISTROFE


\new PianoStaff
\relative c''
\new Staff << { \key c \major \tempo "Lento" \time 6/8 
e8 ees4 d4. | ees4 d8 des4 e8 | e4. ees4 r8 \break
g,8 aes'4 f8 es4 | d4 des8 c4 f8 | f4. e4 r8 \break
g,8 aes'4 f4. | e4 ees8 d4 r8 | g,8 aes'4 ees4. \break
d4 des8 c4 \fermata r8 | aes8 aes8 aes8 f4 f8 | ees4. d4 r8

}
 \addlyrics
{ Be -- bak’ ol | bos be -- ba -- ke | Tro -- ia | Tla -- mon e -- môn | t’eu -- ge -- ne -- ia | pai -- dôn | Fe feu Feu | det’ e -- môn | Ka -- kôn oik -- | tra ty -- cha | po -- le -- os Kap -- | nu -- tai }
\new Staff { \clef bass \key c \major
<<g,,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4 | <<g,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4 | <<g,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4 \break
<<f,4~f'4>> r8 r4 r8 | <<f,4.~f'4.>> <<f,8 f'8>> r4 | <<g,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4 \break
<<f,4~f'4>> r8 r4 r8 | <<g,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4 | <<f,4~f'4>> r8 r4 r8 \break
<<g,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4 | <<f,4. f'4.>> <<aes,4. aes'4.>> | 
<<g,4.~g'4.>> <<g,8 g'8>> r4
}
>>
[p. 95 modifica]

Mi sono intrattenuto unicamente sopra aspetti del dramma non dico esterni, ma pur sempre formali. Perché quanto all’intimo, credo che ci sia poco da suggerire al lettore: tanto immediata è l’efficacia patetica de Le Tròadi, tanto palesi ne appaiono le ragioni.

E troviamo anche in questo dramma i soliti atteggiamenti, o, se volete, difetti d’Euripide. Lo spirito sofistico fa capolino qua e là, per esempio, nel discorso di Cassandra, e nel contradditorio fra Ecuba ed Elena. E non mancano le critiche, espresse o sottintese, ai Numi o alla mitologia. E certi quadretti di genere, in sé graziosi, sembrano un po’ stonati in questa azione che gronda lagrime e sangue. E il campanilismo e la solita manía di lusingar l’amor proprio degli spettatori, qualche volta fa stizza e riesce grottesca, come quando le misere prigioniere troiane si augurano di essere condotte in Atene, e non a Sparta. Ma davvero qui bisognerà ripetere l’oraziano ubi plura nitent. La costante profonda sincerità di sentimento, e la commozione patetica, che, viva e pulsante in tutto il dramma, tocca un apice insostenibile nella separazione di Andromaca dal figlio, e nel compianto di Ecuba sul cadaverino maciullato, pongono sicuramente Le Tròadi fra i puri capolavori di Euripide.

Non è interamente superfluo affermarlo, perché è questo il dramma che i critici letterari solevano scegliere per dimostrare che Euripide non sapeva costruire una tragedia (Vedi Parmentier, opera citata, pag. 13). [p. 96 modifica]

CHIARIMENTI ALLA RICOSTRUZIONE MUSICALE

Nella prefazione generale parlo della musica nel dramma greco, e dei criterî che ci possono guidare nelle integrazioni degli schemi ritmici, e in eventuali tentativi di ricostruirne le melodie. Tenendo presente quello scritto, sarà facile seguire quanto qui semplicemente espongo.

Lo spoglio combinato della strofe 577-581 e dell’antistrofe 582-586, dà il seguente schema ritmico

          1) ⏑ — — — ⏑ — ⏑ — ⏑ —
          2) — — ⏑ — — ⏑ — ⏑ —
          3) — — — — ⏑ —
          4) ⏒ — — — ⏑ —
          5) ⏑ ⏑ ⏑ — ⏑ — —

Varî indici (p. e. il tribraco che apre il 5 e le chiuse di le 2) mostrano che siamo in regime trocaico (3/8). E, isolando le dipodie trocaiche che si ravvisano facilmente in 1 e 2, facile riesce la integrazione degli schemi rimasti qua e là mutili per la perdita della musica, e quindi dei segni diacritici suppletorî di quantità. Lo schema completo era il seguente:

          1) ⏑ – , ⌙ | — ⏑ , — ⏑ | ⌙ , ⏑ ⌃
          2) — — , ⏑ — | — ⏑, — ⏑ | ⌙ , — ⌃
          3) — — , ⌙ | — ⏑, — ⌃
          4) ⏑ — , ⌙ | — ⏑, ⌃
          5) ⏑ ⏑ ⏑, — ⏑ | ⌙ , — ⌃

Evidente riesce la simmetria che intercede rispettivamente fra le 2 e fra 3 e 4. Isolato rimane, rispettivamente nella strofe e nell’antistrofe, il 5. Ma vaghissima riesce la simmetria che formano, rispondendosi a distanza. L’attacco sincopato che apre la melodia, e che riappare alla battuta 4, era comunissimo nella tecnica musicale greca, e lo troviamo, anche al principio, nell’epitafio di Tralle.

Anche una semplice lettura, che tenga conto, con un’adeguata modulazione, di questo schema integrato, può dare una migliore idea dell’effetto originario; ma solamente rivestendo di vere inflessioni melodiche i nudi segni delle quantità, si può dimostrare tangibilmente come pote[p. 97 modifica]rono essere sviluppati ed acquistare alta virtú espressiva elementi che alla semplice lettura del testo mutilato sembrano aridi e inarmonici. A questa semplice efficacia dimostrativa aspira il mio tentativo, e non ha la menoma pretesa artistica.

Per un brano di questo carattere, Euripide avrà probabilmente adoperato il modo cromatico. A questo mi sono attenuto, e al tono di sol.

Una gamma di sol cromatico, comprendeva, se composta di tetracordi disgiunti, le seguenti note;


\layout {
  indent = #0
  line-width = 8\cm
  ragged-right = ##f
  ragged-last = ##f
}
\relative c'' {
  \clef treble
  \key c \major
  \omit Staff.TimeSignature
  \cadenzaOn
  \override TextScript.padding = #4
  (g2 aes4 a4 c2) d2 (ees4 e4 g2)
  \cadenzaOff
}

E se composta di tetracordi congiunti, le seguenti:


\layout {
  indent = #0
  line-width = 8\cm
  ragged-right = ##f
  ragged-last = ##f
}
\relative c'' {
  \clef treble
  \key c \major
  \omit Staff.TimeSignature
  \cadenzaOn
  \override TextScript.padding = #4
  (g2 aes4 a4 c2)( des4 d f2)
  \cadenzaOff
}

E siccome nella pratica si inseriva il 2º tetracordo congiunto anche nella gamma dei tetracordi disgiunti, le note che un compositore antico aveva a sua disposizione in un sol cromatico, erano le seguenti:


\layout {
  indent = #0
  line-width = 8\cm
  ragged-right = ##f
  ragged-last = ##f
}
\relative c'' {
  \clef treble
  \key c \major
  \omit Staff.TimeSignature
  \cadenzaOn
  \override TextScript.padding = #4
  g4 aes4 a4 c4 des4 d4 ees4 e4 f4 g4
  \cadenzaOff
}

A queste mi sono attenuto nel comporre la melodia. Ho aggiunto qualche nota al basso, negli stretti limiti in cui possiamo supporre che le adoperassero i compositori greci.

Note

  1. Euripide, Ed. Les Belles Lettres, vol. IV, pag. 13-16.
  2. Di tale questione tratto piú di proposito nella prefazione generale.
  3. Pubblicato prima, senza decifrazione, da Schubart, Sitz. Ber. d. Berl. Akad. 1918, poi da altri, fra i quali il Reinach, Rev. Archéol. 1919, p. 11 sg.