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esposti nel dramma, nel cui epilogo Cassandra prediceva la funesta rovina di Troia.

Palamede. Palamede, figlio di Nauplio, re dell’Eubea, andò a Troia con gli altri signori achei. E per la sua saggezza e la sua scaltrezza suscitava l’invidia di molti, e, massime, d’Ulisse, che, del resto, aveva contro di lui anche rancori personali, e che, per vendicarsi, escogitò la seguente trama. Convinse Agamennone a trasportare per un giorno altrove le tende; e nel luogo ove era quella di Palamede, seppellí una gran somma d’oro. Poi fece scavare quell’oro, e convinse gli Achei che Palamede l’aveva ricevuto da Priamo per tradirli. L’innocente fu lapidato. Ma suo fratello Òiaco, scrisse il racconto dell’iniquo scempio su dei remi, e li gittò in mare, con la speranza che le correnti li portassero al padre Nauplio (lo stratagemma fu parodiato da Aristofane nelle Tesmoforiazuse). La speranza non fu delusa. E Nauplio, quando gli Achei tornavano in patria, accesi di notte dei fuochi insidiosi, provocò il naufragio di tutta la loro flotta.

Si vede chiaro che da queste vicende era facile derivare un concetto etico, una morale.

Nel primo dramma era il presupposto della catastrofe finale, la presa di Troia, dovuta al fatto che Priamo, sia pure senza deliberato proposito, non aveva ottemperato alle disposizioni del Fato.

Nel secondo era la preparazione di un momento posteriore anche alla catastrofe, che non avveniva sulla scena, ma era preannunciato da Cassandra: la rovina finale degli Achei, a cominciar dal naufragio provocato da Nauplio, e annunciato da Posídone nel prologo. Questa rovina, per la quale i vincitori sembrano a momenti piú disgraziati dei vinti, fu provocata dall’ingiustizia che gli Achei commisero contro Palamede, sia pure senza averne piena coscienza.

Ed anche Euripide, come Eschilo, non si limita all’affer-