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LE TROADI | 95 |
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Mi sono intrattenuto unicamente sopra aspetti del dramma non dico esterni, ma pur sempre formali. Perché quanto all’intimo, credo che ci sia poco da suggerire al lettore: tanto immediata è l’efficacia patetica de Le Tròadi, tanto palesi ne appaiono le ragioni.
E troviamo anche in questo dramma i soliti atteggiamenti, o, se volete, difetti d’Euripide. Lo spirito sofistico fa capolino qua e là, per esempio, nel discorso di Cassandra, e nel contradditorio fra Ecuba ed Elena. E non mancano le critiche, espresse o sottintese, ai Numi o alla mitologia. E certi quadretti di genere, in sé graziosi, sembrano un po’ stonati in questa azione che gronda lagrime e sangue. E il campanilismo e la solita manía di lusingar l’amor proprio degli spettatori, qualche volta fa stizza e riesce grottesca, come quando le misere prigioniere troiane si augurano di essere condotte in Atene, e non a Sparta. Ma davvero qui bisognerà ripetere l’oraziano ubi plura nitent. La costante profonda sincerità di sentimento, e la commozione patetica, che, viva e pulsante in tutto il dramma, tocca un apice insostenibile nella separazione di Andromaca dal figlio, e nel compianto di Ecuba sul cadaverino maciullato, pongono sicuramente Le Tròadi fra i puri capolavori di Euripide.
Non è interamente superfluo affermarlo, perché è questo il dramma che i critici letterari solevano scegliere per dimostrare che Euripide non sapeva costruire una tragedia (Vedi Parmentier, opera citata, pag. 13).