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rietà, spesso, sembrerebbe, anche strana ed ardita, delle inflessioni meliche. Ma per fortuna, proprio di Euripide — e di lui solo possediamo un frammento corale, dell’Oreste, accompagnato dalle note. Brevissimo, e che pure ci dà un’idea assai precisa del suo fraseggiare, e, specialmente, del pathos che lo animava. Questo, in primo luogo, e poi il secondo dei frammentini tragici scoperti poco tempo fa a Contrallinopolis1, e, in definitiva, anche i due Inni ad Apollo, che sembrano tutti sotto l’influsso di Timoteo, o per lo meno ispirati ai suoi principii, ci rendono assai bene l’atmosfera melodica nella quale si sarà librata tutta la musica di Euripide.

E chi abbia sensibilità e specifica cultura musicale, facilmente potrà derivarne un’aura per colorire e muovere quei nudi schemi. Operazione tutt’altro che futile e dilettantesca; e che, mentre da un lato vale, come dicemmo, a far rivivere nella nostra fantasia l’opera d’arte in una piú completa integrazione, dall’altro serve ad illuminare anche punti singoli dinanzi ai quali la nostra sensibilità rimane talora perplessa.

Adduco un esempio. Il duetto fra Andromaca ed Ecuba (577 sg.), a leggerlo cosí, come appare nelle nude parole, con le singhiozzanti interruzioni di Ecuba, sembra zoppicante ed affannoso. Ricostruiamo lo schema ritmico, rivestiamolo di note (una lieve mano d’acquarello su un disegno lineare), e riacquisteremo la quadratura, e vedremo come quegli insistenti monosillabi e vocaboli di Ecuba poterono esser fulcro ad un alto effetto espressivo (poterono, dico, non già doverono). Tento la ricostruzione, e aggiungo in fine della prefazione qualche chiarimento.

  1. Pubblicato prima, senza decifrazione, da Schubart, Sitz. Ber. d. Berl. Akad. 1918, poi da altri, fra i quali il Reinach, Rev. Archéol. 1919, p. 11 sg.