Le Novelle Indiane di Visnusarma/Libro Quinto

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Anonimo - Le Novelle Indiane di Visnusarma (Antichità)
Traduzione dal sanscrito di Italo Pizzi (1896)
Libro Quinto
Libro Quarto Indice


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LIBRO QUINTO


Qui s’incomincia il libro quinto che piglia il nome dalle opere fatte inconsideratamente e del quale i primi versi sono i seguenti:


Cosa mal ccnsiderata,
Mal pensata, male udita,
Mal veduta o esaminata,


Così come il barbier fe’,
L’uom quaggiù far mai non de’. —


Intanto così s’ode raccontare:

Racconto. — C’era una volla nella regione australe una città di nome Pataliputra e vi abitava già un mercante di nome Pataliputra. Costui, mentre attendeva alle opere del dovere, del traffico, del piacere, del francarsi dalle contingenze di quaggiù1, per voler del destino perdette ogni suo avere. Venne allora in grande costernazione quando si vide disprezzato per la perdita delle sostanze. Anzi, quando di notte giaceva nel Ietto, andava fra sè pensando: Oh! quanto è trista la povertà! Perchè è stato detto:


Tolleranza ed onestà,
Cortesia, galanteria,
Cor sincero e nobiltà
D’alta genealogia,
Tutto ciò mai non splendè
Appo l’uomo che perdè
La sostanza ch’egli avia.
Discernimento,
Baldanza certa,
Gran sentimento,
Fidanza aperta,
Intendimento,
Tutto diserta
Là dove alcuno
Quel dissipò
Ch’ereditò.
Come il piacer della stagion più fresca2
Di giorno in giortno vassene disperso

Vinto dall’aure della primavera,
Nelle cure così per il diverso
Pesa della famiglia i lor talenti
Sciupano i più avveduti e sapïenti.

A darsi cura
Quando è costretto
Del sal, del burro,
Del suo farsetto,
Degli aver suoi,
Del riso e poi
Dell’olio ancora,
D’uom di gran senno,
Ridotto al verde,
Valor, saggezza,
Tutto si perde.
Casa povera e sprovvista,
Anche se leggiadra in vista,
Come ciel senza splendori,
Come fonte senza umori,
Come tetro cimiter,
Troppo è squallida a veder.
Dinanzi agli occhi
Anche se stanno,
Non son visibili
Quei che nulla hanno,
Come, per l’acqua

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Appena vanno,
Le bollicine
Tosto si sfanno.
Abbandonando chi è d’egregia stirpe,
Chi è di gran sangue ed abile e avveduto,

Sempre la turba della gente a quello
Sen va che più d’averi è provveduto,
Quasi l’albero ei sia d’ogni piacere3,
Anche se abietto e stolido e braghiere.

Opra egregia fatta un dì
Vuota e inutile si sta
E ogni saggio, anche se uscì


Di gran schiatta, sempre va
Come servo ad obbedir
Quei che giunse ad arricchir.
Non dice la gente:
«Un povero egli è!»,
Se a voglia ruggente
Dell’acque ode il re.
Non reca disdoro
Quell’opra con sè
Che un uom pieno d’oro
Talvolta compiè4. —


Dopo questi pensieri, così seguitò con questi altri: Io adunque, dandomi ad un digiuno volontario, domani mi lascierò morire. Che ho da farmi io del malanno d’una vita che è inutile? Così avendo divisato, si addormentò. Allora, nel suo sonno, gli si mostrò, in forma di monaco mendicante, il tesoro del loto5, che gli diceva: O mercante, non disperarti. Io sono il tesoro del loto già stato guadagnato dai tuoi antenati. Io, in questa forma, verrò doman mattina alla tua casa. Tu allora mi devi battere sul capo con un colpo di bastone, perchè io tosto mi farò tutto d’oro incorruttibile. — Quand’egli si destò al mattino, ricordandosi di quel sogno, stava tutto pensoso dicendo: Oh! non si può sapere se cotesto sogno sarà vero o falso! È possibile tuttavia che sia falso perciò appunto che io giorno e notte non faccio altro che pensare a ricchezze. Perchè è stato detto:


Sogno veduto
Da chi è ammalato,
O sbigottito,
O innamorato,


O pensieroso,
O ubriacato,
Senza alcun frutto
Sempre è restato. —


Intanto, la moglie di lui aveva fatto chiamare certo barbiere che le facesse la pulizia delle unghie. Ora, mentre costui attendeva a quel suo lavoro del pulir le unghie, ecco che d’un tratto si presentò un monaco mendicante in quella siffatta forma. Manibadra allora, come l’ebbe ravvisato, tutto lieto dell’animo, con un bastone di legno che giaceva là presso, lo colpì nel capo, e il monaco, fattosi tutto d’oro, cadde a terra nel momento. Ma il mercante, intanto che riponeva quell’oro in casa, adocchiò per avventura il barbiere. Al vederlo, egli pensò fra sé: Ohimè! se qualche cosa è trapelata di questa faccenda, io sono rovinato! — In questo pensiero, fece [p. 205 modifica]carezze al barbiere e gli disse: Togli questi danari e queste vesti che io ti do, ma tu non devi dir nulla ad alcuno di ciò che è accaduto qui fra di noi. — Il barbiere promise, tornò a casa sua e si mise così a pensare: Oh! dunque, tutti cotesti monaci, come siano colpiti nel capo con un randello di legno, diventano oro! Io però domani mattina, quando ne avrò chiamati a me parecchi, li picchierò con colpi di bastoni perché io ne abbia una bella quantità d’oro. — Fra questi pensieri egli passò quel giorno e quella notte. Levatosi allora di gran mattino, si procacciò un grosso randello e si recò al collegio dei monaci. Fatti poscia tre doni a Budda e andato coi ginocchi a terra, cacciatosi in bocca il lembo della sopravveste, giunte le mani sulla fronte, recitò ad alta voce questi versi:



Monaci sono di virtù e valore
Quei che, in possesso d’ogni sapïenza,

Dal giorno che nascean, quando l’amore
In petto elli sentian la gran potenza,
Fean si, per lor virtù spiritüale,
Che seme fosse in terren pien di sale6.

Quella è una lingua
Che loda i monaci!
Quella è una mente
Che di lor piacesi!
Debito onore
Se fanno ai monaci,
Quelle son mani
Che lode mertano! —


Così adunque avendo detto queste e molte altre giaculatorie, accostosi al prevosto dei monaci, camminando con le ginocchia in terra e dicendo: Venerazione a te! Io ti saluto — ; avendo ricevuto in cambio il saluto: Possa crescere la fede! — ; avuto, per il compimento di qualche voto, un augurio da Sucamalica7, raccogliendo la sopravveste ad un lembo, con tutti i suoi monaci, a casa mia. — Il prevosto disse: O laico, sebbene tu conosca la legge, che vai tu dicendo? Forse che noi siamo simili ai Bramini che ci fai invito?8 Noi andiamo attorno soltanto per qualche servigio del momento, e quando troviamo qualche laico fedele, gli entriamo in casa, presso il quale a gran stento, quando ne siamo molto pregati, accettiam soltanto quella refezione che ci basta per mantenerci in vita. Vattene adunque e non dir mai più cotesto. — Udendo ciò il barbiere rispose: O reverendo, lo so! io pure farò così. Eppure molti laici soglion far gli onori a voi altri monaci. Del resto, noi abbiam messo insieme presso di noi molti drappi preziosi, buono per rilegar volumi. Tutto ciò s’ha da fare da voi secondo opportunità. — Quand’ebbe detto ciò, ritornò a casa- Entrato in casa, preparò un bastone di legno di khadira9, e poi, [p. 206 modifica]nascostolo in un angolo presso la porta, come fu trascorsa metà della propria vigilia, ritornò alla porta del monastero e là stette ad aspettare. Di mano in mano che uscivano, egli, con grande istanza, menò a casa sua tutti i monaci; ed essi tutti, per avidità dei drappi e del danaro, abbandonando i loro laici già conosciuti e fedeli, contenti gli andaron dietro. Intanto, giustamente si suol dire:


Ve’ meraviglia! Governar si lascia
Da cupidigia in terra anche colui

Che si sta solo ed ha la casa vuota,
Con la man bee, son d’aria i panni sui!10.

Di chi invecchia, invecchia il crine;
Di chi invecchia, invecchia il dente,

E l’orecchio e l’occhio invecchia;
Il desio solo è fiorente11.


Il barbiere adunque, come li ebbe fatti entrare in casa, chiuse la porta, indi li colpì tutti nella testa con colpi di bastone. Quelli, così picchiati, parte morirono, parte, con spaccata la testa, cominciarono a gridare. Allora, udendo quelle grida, si radunarono gli uomini del governatore della città, i quali dicevano: Ohé! che è mai questo gran baccano per la città? Venite! venite! — Così dicendo, mentre a furia entrando in casa quardavano qua e là, ecco che furon lor veduti i monaci che fuggivano dalla casa del barbiere con la testa insanguinata. Li domandarono, dicendo: Oh! dunque che è ciò? — E quelli, come era avvenuto, raccontarono tutto l’affare del barbiere. Gli uomoni allora, dopo che l’ebbero legato con forti legami, menarono in tribunale il barbiere insieme a tutti i monaci feriti, laddove i giudici l’interrogarono così: Oh! dunque, come hai tu commesso simile scelleraggine? — Il barbiere disse; Che doveva fare? Io ho pur veduto una faccenda simile in casa di Manibadra mercante! — E così dicendo raccontò l’affare di Manibadra così come l’aveva veduto. — E così dicendo raccontò l’affare di Manibadra così come l’aveva veduto. — I giudici allora mandarono alcuno a chiamar Manibadra, e Manibadra da colui ch’era andato a prenderlo, sùbito fu menato. Allora egli fu interrogato dai giudici: O mercante, perché mai hai tu ammazzato un monaco? — Egli raccontò tutto quanto l’affare del monaco, perché i giudici allora dissero: Oh! dunque facciasi salir subito sulla forca cotesto scellerato di barbiere che tutto fa senza alcuna riflessione! — Dopo cotesto, soggiunsero:


Senza riflessïon nulla si faccia;
Facciasi dopo assai riflessione.


Tardi viene il pentir, come un dì accadde
Alla Bramina già per l’icneumone. —


Manibadra disse: Come ciò? — E i giudici risposero:

Racconto. — C’era una volta in un certo paese un Bramino di nome Devasarma. La moglie sua, venuta al momento del partorire, gli partorì un figlio, e, nel medesimo giorno, anche la femmina d’un icneumone le [p. 207 modifica]partorì in casa un piccolo icneumone. La donna, perchè aveva cari i piccini, allevò anche quello come un figlio suo, col latte, con donativi, con fregamenti d’olio per le membra e con altro. Essa però, per la malvagia natura di lui, pensando che l’icneumone avrebbe fatto qualche male al figlio suo, non se ne fidava punto. Ora, giusto a proposito si suol dire:


Ragazzaccio, anche se brutto,
Scioperato e male istrutto,
Anche se baggiano e stolto,
Sempre fia cagion di molto
Gaudio al core
Del suo proprio genitore.
Il «sandalo è davver refrigerante!»
Dice la gente. Ma il toccar le membra

Del proprio figlio, ad ogni refrigerio
Che il sandalo può dar, va molto avante.

Tanto non vogliono
Vincol d’amore
D’amico gli uomini,
Di genitore,
Di protettore,
Quanto desiano
Un vincol solo:
Quel d’un figliuolo!


Ella adunque, un giorno, come ebbe deposto acconciamente nel letto il figlio suo, presa la brocca dell’acqua, disse al marito: Maestro, io vado alla fontana per acqua. Guarda tu dall’icneumone il bambino. — Ma, quand’essa fu partita, il Bramino, abbandonando la casa, uscì, egli pure, per far la questua. Intanto, per voler del destino, un nero serpe, uscito dalla tana, si mosse verso la cuna del bambino. Allora l’icneumone, vedendo quel suo proprio nemico, per timore ch’esso gli uccidesse il fratellino, gli si avventò contro, si azzuffò con lui e fattolo in pezzi lo gettò lontano. Lieto pertanto del suo valore, col muso tutto insanguinato, per far mostra di ciò che aveva fatto, andò incontro alla madre. Ma la madre, come lo vide venir tutto ardito, col muso bagnato di sangue, gridando: Ohimè! da questa mala bestia è stato divorato il mio bambino!, con mente conturbata, non riflettendo a nulla per l’ira, gli scagliò addosso la brocca piena d’acqua. Così, pensandosi d’aver ucciso l’icneumone con l’avergli scagliato la brocca, quando entrò in casa per vedere, ecco che il bambino stava tuttora dormendo. Vide intanto che presso la cuna stava un grosso e nero serpente fatto in pezzi. Allora, per il dolore della creduta morte del suo bambino, incominciò a picchiarsi il capo e il petto. Il Bramino intanto, che andando qua e là aveva raccolto qualche elemosina, entrato in casa, stava a guardare, quand’essa, vinta dal dolore del figlio suo, gli gridò: Oh! ingordo, ecco! Poiché tu non hai fatto come io ti aveva detto, togli ora, frutto della tua trista pianta, la disgrazia della morte del figlio tuo! Ma tutto ciò accade appunto a tutti quelli che son troppo avidi. Perchè è stato detto:


Di soverchia cupidigia
Evitar si dee l’eccesso;
Brama onesta e al dover ligia
Di schifar non è concesso;


Ma a chi è vinto da ingordigia
Una ruota lesta lesta
Suol girar sopra la testa. —


Il Bramino disse: Come ciò? — E la Bramina incominciò a raccontare: [p. 208 modifica]

Racconto. — In un certo paese di quaggiù abitavano quattro Bramini che fra loro erano molto amici. Un giorno, essendo oppressi dalla grave povertà, fecero consiglio fra loro dicendo: Oh! trista condizione della povertà! Perchè è stato detto:


È preferibile
Abitar selve
Sparse di triboli,
Piene di belve,
Senz’acqua, ed aride
Scorze vestire
E sovra un cumulo
D’erbe dormire,
Che in mezzo agli uomini
E fra i parenti
Senza uno spicciolo
Viver di stenti.
L’odia messere, anche se ben trattato,
Ogni onesto congiunto lo trascura,


Nessun merito in lui va segnalato
E sempre gli va dietro ogni sventura;
L’abbandonano i figli, e la mogliera,
Anche se nata di famiglia onesta,
Non l’ama più, non gii fan buona ciera
Gli amici suoi; ciò la fortuna appresta
Ad uom quaggiù che senza nummi resta.

S’anche forte ed avvenente,
Caro al cielo ed eloquente,
S’anche ha piena disciplina
D’armi e d’ogni altra dottrina,
Gloria e onor mai non avrà
Fra i viventi di quaggiù
L’uom che spiccioli non ha.


È preferibile adunque la morte alla miseria. Ed è stato detto:


Amico mio ti leva
Solo per un istante
E questo mio solleva
Peso di povertà,
Perch’io che mi stancai,
Possa goder di questa
Che tu morendo avrai
Dolce felicità. —


Così sopra l’avello
D’un tale ch’era morto,
Pregava un poverello;
Ma quegli, E assai migliore
Di povertà la morte,
A dirgli s’affrettò,
E in fondo al suo sepolcro
Tranquillo si restò.


Bisogna adunque industriarci in ogni sorta di guadagno. — Così avendo pensato, anche avendo divisato di andare in paese straniero, abbandonata la turba degli amici, tutti e quattro partirono. Intanto, si suol dire giusto a proposito:


Lascia la schiera
De’ suoi parenti,
Infrange e scorda
I giuramenti,
La madre ancora
Abbandonando,
II natio loco


Pur disertando,
In altra terra
Tutta abbondanza
Va chi, dell’oro
Per disïanza,
Dentro la mente
Turbar si sente.


Così adunque andando vennero nel territorio di Avanti. Là, come si furono bagnati nell’acqua della Sipra, dopo aver venerato il beato iddio Siva, mentre procedevano nel loro viaggio, si fece loro incontro uno stregone di nome Bairavananda. Salutatolo alla maniera solita fra i Bramini, andarmi tutti con lui al suo romitaggio. Allora lo stregone così li interrogò: Donde siete venuti? Dove andate? E a qual fine? — Gli risposero: [p. 209 modifica]Noi desideriamo imparar l’arte magica e vogliamo andare là dove avremo o ricchezze o la morte. Tale è il nostro divisamento. Perchè è stato detto:


Scende talor dai nugoli
L’acqua della cisterna,

Talor pel suol di sotto vi s’interna.
Possente, incomprensibile
È veramente il fato,
Ma forse all’uom nessun potere è dato?

Ogni cosa che l’uom più desia,
Avvien, s’egli alcun studio vi dia.

Se tu dici: «È il destin! l’incompreso!» — ,
Dell’uom tutto nel merto è compreso12.

Senza che il corpo molto s’affatichi,


Nessun bene quaggiù puossi acquistare.
Di Madu l’uccisor, con mani stanche
Dall’agitar, potè Lacsmi abbracciare13.

Inclita sorte
Ardua a raggiungere,
Se impresa forte
Uom sa compiere.
Pur ch’egli possa
La Libbra ascendere,
Ogni più grossa
Nube il Sol dissipa.


Perciò consiglia tu a noi alcun mezzo per guadagnar danaro, come a dire il potere penetrar sotterra, lo stare ad abitare in un cimitero, l’asservire una strega, il trafficare di carne umana, insomma ogni espediente di magia. Tu sei celebre per operar cose meravigliose, e noi siam deliberati a tutto. Intanto è stato detto:


Solo i grandi di chi è grande
Le faccende posson far.


Chi altri mai, se non il mare,
Può l’inferno sopportar?14. —


Bairavananda allora, avendo riconosciuto ch’essi erano atti a divenir suoi discepoli, fatti certi talismani magici di quattro specie, ne diede uno per ciascuno e disse: Andate ora alla regione settentrionale dell’Himalaia. Quando ad alcuno di voi cadrà di mano il talismano, là, in quel luogo, indubbiamente ritroverà un tesoro. — Dopo cotesto, intanto ch’essi andavano, ecco che a colui che andava innanzi agli altri, cadde di mano a terra il talismano. Ora come egli ebbe scavato in quel luogo, il suolo di sotto si mostrò esser tutto di rame. Allora egli gridò: Ohé! prendiamo di questo rame quanto ne vogliamo! — Ma gli altri dissero: Oh! sciocco, e che si fa di questo rame? Anche s’egli è molto, non però toglie via la povertà. Lèvati su, e andiamo avanti! — Detto ciò, tolse quanto volle di quel rame e per il primo ritornò indietro. Gli altri tre andarono avanti, quand’ecco a quello che di poco precedeva gli altri due, cadde il talismano. Egli scavò, ed ecco che il suolo di sotto era tutto argento. Allora, tutto gioioso, gridò: Ohé! prendasi tanto argento quanto ne vogliamo, e non andiamo più innanzi! — Ma gli altri due dissero: O sciocco! dietro a noi era il suolo [p. 210 modifica]di rame, e qui il suolo è d’argento; perciò più innanzi sarà quello d’oro. Anche se l’argento è molto, non però ne vien tolta la povertà. Noi due intanto andremo innanzi. — L’altro allora disse: Noi due andate pure, ch’io non verrò con voi. — Detto ciò e presosi tanto argento quanto potè, ritornò a casa. Intanto, ad uno degli altri due che andavano innanzi, cadde il talismano; egli scavò ed ecco che il suolo di sotto era tutto d’oro. Al vederlo, tutto gioioso disse all’altro: Oh! prendiamoci di quest’oro quanto ne vogliamo poiché più innanzi non ci può essere nulla di meglio! — Ma l’altro disse: O sciocco, tu non sai nulla! Da principio s’è trovato del rame, poi dell’argento, poi dell’oro; perciò più innanzi vi saranno delle gemme, da una sola delle quali sarà tolta via la nostra povertà. Lèvati adunque e andiamo innanzi. Che s’ha da fare di tutta questa sostanza anche se grande? — Ma l’altro disse: Tu vattene, chè io, standomi qui, ti aspetterò. — Così fu fatto, e quegli, smarritosi dalla via segnata dal mago, andò vagando qua e là con le membra arse dai raggi del sole estivo, tormentato dalla sete; e mentre andava errando, ecco che sopra un’altura scoperse un uomo che aveva sul capo una ruota che si girava, e tutta la persona aveva macchiata di sangue. Andando allora verso di lui con molta fretta, gli disse: Oh! chi sei tu? e perché te ne stai qui con cotesta ruota che ti gira sul capo? Dimmi intanto se in qualche luogo c’è dell’acqua da bere, perché io son qui tormentato dalla sete. — Ma, intanto ch’egli così parlava, la ruota, in un attimo, dal capo di colui passò sul capo del Bramino, il quale disse: Amico, che è mai ciò? — E l’altro rispose: Anche a me, un giorno, essa mi montò sulla testa. Ora dimmi, disse il Bramino, quando essa ne discenderà. È questo un gran fastidio per me. — Quando un altro come te, disse, che tenga in mano un talismano magico, venendo qui, ti volgerà la parola, allora la ruota monterà a lui sul capo. — Il Bramino disse: Quanto tempo è passato da che tu stavi così? — L’altro disse: Chi è ora re in terra? — Quel della ruota rispose: Il re Vinavatsa. — Quell’uomo allora disse: Rama regnava allorquando io, afflitto dalla povertà, togliendomi un talismano magico, venni qui come tu hai fatto. Qui ho io veduto un altr’uomo che aveva in capo una ruota, e anche l’ho interrogato; e perché io l’interrogai come tu hai fatto dal capo di lui sul mio nello stesso modo cotesta ruota è passata, io però non conosco il computo del tempo. — Quel dalla ruota disse: Come dunque, essendo tu in questo stato, potevi avere da bere e da mangiare! — Quell’uomo rispose: Amico, per timore che gli s’involino i suoi tesori, il dio delle ricchezze fa vedere ai negromanti questa cosa spaventosa per la quale nessuno non viene mai qui. Che se mai per caso qualcuno viene, libero dalla fame, dalla sete e dalla voglia di dormire, sciolto da vecchiaia e da morte, sostiene soltanto il martirio della ruota. Ma tu lasciami omai tornare a casa mia, ch’io per te son stato liberato dal lungo mio dolore, lo intanto me ne vo al mio paese. — Così dicendo se n andò. Quand’egli fu partito, il negromante dell’oro, dicendo fra se: Perchè mai [p. 211 modifica]tanto s’indugia il mio compagno? — , e seguitandone le pedate nell’intento pur di ricercarlo, si pose in via, quand’ecco, come ebbe percorso certo tratto di strada, vide il compagno suo che aveva tutta insanguinata, la persona ed era crucciato dal dolore di una ruota acuta che gli si girava sulla testa. Allora gli corse da presso e lagrimando gli domandò: Oh amico! che è mai ciò? — L’altro rispose: È voler del destino! — Il negromante dell’oro disse: Raccontami adunque come questo sia avvenuto. — E l’altro, così interrogato, gli raccontò tutta la storia della ruota. Come l’ebbe udita, quello dell’oro, rimproverandolo, gli disse: Ecco, tu, ammonito da me più d’una volta, non hai dato ascolto alle mie parole. Che fare adunque? Non si deve essere soverchiamente avidi. Anche il sapiente, anche il nobile manca talvolta di avvedutezza. Intanto bene a proposito si suol dire:


Meglio accortezza
Che sapïenza;
Avvedutezza
Vince scïenza.


Chi non è accorto
Va in perdizione
Come chi un tempo
Foggiò un leone. —


L’uom dalla ruota domandò: Come ciò? — Il negromante dell’oro incominciò a raccontare:

Racconto. — Abitavano una volta in un certo paese quattro figli di un Bramino che molto si amavano fra loro. Tre di essi avevano studiato ogni ramo della scienza, ma non avevano alcuna avvedutezza, laddove l’altro era avverso allo studio, ma era furbo. Un giorno, trovandosi insieme, così si consigliarono: Che merito ha il sapere se non si fa alcun guadagno andando in paese straniero per dar piacere ai re? Andiamo adunque tutti e quattro in un altro paese. — Fatto cotesto, mentre andavano per una via, il più vecchio disse: Ohé! il quarto di noi è ignorante, ma è furbo. Senza il sapere e con la sola furberia, nessun favore si ottiene dai re. Io perciò non gli darò alcuna parte del mio guadagno, ed egli faccia ritorno e vada a casa. — Il secondo allora disse: Oh! tu, troppo furbo! tu non hai sapienza alcuna! Perciò, ritorna a casa! — Il terzo disse: Oh! non è bene fare in questa maniera! perché noi fino dalla prima fanciullezza, abbiamo giocato insieme. Perciò egli pure venga con noi. Un uomo di gran valore deve esser partecipe del guadagno che noi faremo. — Dopo ciò, mentre essi andavano per la loro via, furon loro vedute le ossa d’un leone morto. Uno di loro allora disse: Orsù! si dia un saggio della sapienza che già abbiamo appresa! Qui sta un animale morto. Col potere di tutta la nostra scienza facciamolo rivivere. — Un altro allora disse: Io so rimettere insieme le ossa. — Il secondo disse: Io rifarò la pelle, le carni e il sangue. — Il terzo disse: Io gli renderò la vita. — Così, da uno ne furon raccolte le ossa; dal secondo furon resi al leone la pelle, le carni e il sangue; ma mentre il terzo si avanzava per rendergli la vita, ne fu impedito dal furbo che gli disse: Questo è un leone. Se tu gli renderai la vita, egli ucciderà tutti noi. — Ma quegli rispose: Oibò, sciocco! Io non [p. 212 modifica]voglio rendere infruttifera la scienza. — Il furbo allora disse: Ebbene, aspetta almeno un momento perch’io possa salire su quest’albero vicino. — Dopo ciò, come il leone fu ritornato a vita, diede un balzo e quei tre furono uccisi, e il furbo, quando il leone se ne fu andato altrove, saltò giù dall’albero e ritornò a casa. Perciò io dico:


Meglio accortezza
Che sapïenza;
Avvedutezza
Vince scïenza.


Chi non è accorto
Va in perdizione
Come chi un tempo
Foggiò un leone.


Con ciò, è stato detto ancora:


Gente ch’è dotta in ogni disciplina,
Ma dell’andar del mondo nulla sa,


Agli altri oggetto di rider si la,
Come que’ sciocchi pieni di dottrina. —


Quel dalla ruota domandò: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — Abitavano una volta in un certo paese quattro Bramini venuti in grande amicizia fra loro. Fin dalla loro fanciullezza avevano essi questo pensiero: Andando in paese straniero, facciasi acquisto di dottrina. — Così adunque, a un altro giorno, fatto insieme tale divisamente, i Bramini, per fare acquisto di dottrina, se ne vennero alla città di Caniacubgia. Là, entrati in un collegio, si posero allo studio. Come vi si furon tenuti per dodici anni mentre tutti e quattro, con uniformità d’intento, divennero esperti nella scienza, alfine, convenuti insieme, tutti insieme dissero: Noi siam giunti al fondo d’ogni dottrina. Perciò, come avremo salutato il nostro maestro, ritorneremo al nostro paese. Facciasi adunque così. — - Come ebbero così parlato i Bramini, salutalo il loro maestro e presone commiato e tolti con sè i loro volumi, si partirono. Quando ebbero percorso un certo tratto di strada, ecco che si offriron loro due strade. Tutti e quattro allora si sedettero. Uno di loro disse: Per qual via andremo noi? — In quel tempo, era morto in quella città il figlio d’un mercante, e però s’era là raccolta molta gente per dargli sepoltura. Uno allora dei quattro Bramini consultò il suo volume e lesse: «Quella via dov’è molta gente, quella è la via15». Andiamo adunque per questa via dov’è tanta gente. — Ma poi, mentre i quattro dottori andavano per quella strada in cui era così gran folla, ecco che un asino se ne stava la presso il cimitero. Dissero: Che è cotesto? — Il secondo allora, come ebbe consultato il suo volume, disse:


«Quei che teco si trova al festino,
Alla pugna, allo porte del re,


Al bisogno, all’avverso destino
Al sepolcro, è il congiunto di te».


Oh! dunque egli è il congiunto nostro! — Così uno gli si gettò al collo e un altro gli lavò i piedi. Ma poi, mentre i dottori guardavano qua e la venne loro veduto un cammello. Dissero: Oh! che e mai cotesto? - Il [p. 213 modifica]terzo allora apri il suo volume e lesse: «Della giustizia è rapido l’incesso». Oli! dunque costei è la Giustizia! — Il quarto disse: «Congiungasi l’Amore alla Giustizia!» — Essi allora legarono l’asino al collo del cammello. Intanto, vi fu taluno che riferì tutto ciò al lavandaio16; ma, accorrendo egli per bastonar quei quattro dottori sciocchi, essi fuggirono. Andarono alcun tratto innanzi per la via, quand’ecco si trovarono presso di un fiume, in mezzo alle cui acque avendo veduto galleggiare una foglia di albero palasa, uno di loro disse:


«Poi che una foglia
In giù deriva,


Essa ci passa
All’altra riva»17. —


Dette queste parole, si gettò sulla foglia per passare il fiume, ma fu strascinato via. Un altro dottore, al vederlo menato via così dall’acqua, l’afferrò per l’estremità dei capelli e disse:


Ove di cosa alcuna
Integra sia rovina.
La salva per metà
L’uom di dottrina.


Quella metà egli adopra
Per tutte sue faccende;
Di danno integrità18
Soverchio offende. —


Così dicendo gli tagliò la testa. In seguito, i tre dottori camminando giunsero presso di un villaggio. Furono invitati dagli abitanti, e ciascuno fu menato in una casa diversa. Ad uno furon dati da mangiare maccheroni conditi con pezzetti di burro; ma il dottore, pensando e considerando i precetti della sua dottrina, disse: Roba ch’è troppo lunga, fa male. — Così dicendo e lasciando il mangiare, se n’andò via. — All’altro furon date focacce; ma egli disse: Tutto ciò che è troppo sottile, non dura molto. — Così lasciando il mangiare, se n’andò. — Al terzo furon date da mangiare focaccette tutte bucate19; ma egli allora disse:

Molti malanni trovansi ne’ buchi. —


Così questi tre dottori, tutti affamati, derisi dalla gente, se ne ritornarono di là al loro paese. Perciò io dico:


Gente ch’è dotta in ogni disciplina,
Ma dell’andar del mondo nulla sa,


Agli altri oggetto di rider si fa
Come que’ sciocchi pieni di dottrina. — }}


Avendo udito cotesto, l’uom della ruota disse: Oh! ciò è senza ragione! Perchè


Dall’avverso destino atterrati
I più saggi sen vanno in malora,


E quei godono ovunque ed ognora
Che di senno meschin fùr dotati.

[p. 214 modifica]Ed è stato detto:


Centoscïenze
Sul capo sta;
Millescïenze
Sospeso va;


Uniscïenza
Io sono, o cara,
E vo a diporto
Per l’acqua chiara. —


Il negromante dell’oro disse: Come ciò? — E l’uom della ruota incominciò a raccontare:

Racconto. — In uno stagno d’acqua abitavano una volta due pesci che si chiamavano, uno il Centoscienze e l’altro il Millescienze. Un ranocchio di nome l’Uniscienza erasi fatto loro amico, e però tutti e tre, sulla sponda dello stagno, dopo aver gustato alquanto tempo della felicità dello stare insieme in placidi discorsi, solevano ritornar nell’acqua. Ma poi un giorno, mentre essi così se ne stavano insieme, certi pescatori che recavano in mano le reti, capitaron là presso, verso l’ora del tramonto, recando in capo nelle ceste molti pesci morti. Vedendo quello stagno d’acqua, essi si dissero l’un l’altro: Ohe! Questo stagno sembra aver molli pesci, e anche c’è poc’acqua. Però domani all’alba verremo qui. — Ciò detto, se n’andarono a casa. Ma i tre, come ebbero udito quella parola che parve un colpo di fulmine, tennero consiglio fra loro. Il ranocchio allora disse: Cari amici miei, Centoscienze e Millescienze, che s’ha da fare ora? fuggire o restar fermi? — Udendo cotesto, il Millescienze sorridendo disse: Amico, per una parola sola non temere. Può essere che i pescatori non vengano; ma se ciò avverrà, io, col potere della mia scienza, salverò te e me, perché io ben conosco diversi modi di muovermi per l’acqua. — Udendo ciò, il Centoscienze disse: Oh! molto a proposito ciò che è stato detto dal Millescienze! E però si suol dire egregiamente:


Dove non è passaggio
Al vento e a’ rai del sole,


Ratto de’ savi e sempre
Entrar la mente suole.


E poi:


D’inaccessibile
Nulla quaggiù
Trova la mente
Di chi sa più.


Ben che tenessero
In pugno i brandi,
Cianachya accorto
Uccise i Nandi20.


Per una parola sola non si può abbandonare il paese natio ereditato da una lunga serie di antenati, e però non si deve andar via in nessun modo. Io intanto, col potere della mia scienza, ti salverò. — Il ranocchio disse: Amici miei, poichè io non ho che una sola scienza, quella del fuggire, io quest’oggi me n’andrò con mia moglie a qualche altro stagno. — Così dicendo, il ranocchio, come venne la notte, se n’andò ad un altro stagno d’acqua. Al giorno che seguì, ecco che i pescatori, simili ai ministri di Yama21, venendo all’alba, copriron di reti tutto lo stagno, e tutti i pesci, [p. 215 modifica]le testuggini, le rane, i granchi e tutti gli altri abitatori dello stagno, restarono impigliati e presi in quelle. Il Centoscienze e il Millescienze con le loro mogli, sebbene fuggendo a lungo si salvassero col correre qua e là per la conoscenza che avevano di tutti i modi del camminare, pure alla fine caddero nelle reti e furono uccisi. I pescatori poi, verso sera, tutti contenti s’incamminarono per tornare a casa, e uno tenevasi in capo, perchè molto pesava, il Centoscienze, e l’altro portava sospeso, legato ad un capestro, il Millescienze. Intanto, il ranocchio Uniscienza che era venuto alla sponda del suo stagno, disse a sua moglie: Guarda, guarda, o cara!


Centoscïenze
Sul capo sta;
Millescïenze
Sospeso va;


Uniscienza
Io sono, o cara,
E vo a diporto
Per l’acqua chiara.


Perciò io dico: Non in tutto e per tutto può valere la saggezza. — L’uom dell’oro disse: Anche se così è, la parola di un amico non si deve tuttavia trascurare. Intanto, che si fa ora? Quantunque ammonito da me, tu non ti sei fermato, e ciò per soverchia avidità e per ismania di sapere. Intanto, si suol dire molto a proposito:


Bene, o zio! Da me ammonito
Di cantar non hai finito!
Un monil non visto mai22


Or però legato avrai.
Ciò ti sia qual segno intanto
Guadagnato col tuo canto. —


L’uomo della ruota disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — Era già in un certo paese un asino di nome Uddata, il quale, facendo di giorno il servizio del portar pesi nella casa d’un lavandaio, di notte andava attorno a suo piacimento e poi, alla mattina, per timore d’esser preso, ritornava a casa. Allora il lavandaio lo legava. Un giorno poi, mentre egli andava di notte per i campi, fece amicizia con uno sciacallo. Tutti e due allora, fatta una rottura, per la grossezza del corpo, nella siepe, entrando negli orti delle zucche e mangiandone a loro volontà, alla mattina ritornavano alla loro abitazione. Un giorno, stando in mezzo all’orto, l’asino che era caldo d’amore, così disse allo sciacallo: Nipote mio, vedi! La notte è molto chiara, però io voglio cantare. Dimmi tu in qual tono devo farlo. — Lo sciacallo disse: Zio, a che metterci in questa faccenda inutile? Noi attendiamo ora ad un’opera da ladri, e i ladri e gli amanti nascosti devono star zitti. Perchè è stato detto:


Chi vuol viver quaggiù, s’egli ha la tosse,
Lasci il mestier del ladro;

Lasci il mestier del malandrin, se inclina

Soverchio al sonno, e lasci
La voglia di ciarlar, s’egli è ammalato.


Con questo, il tuo canto che somiglia al suono d’una conchiglia, non è punto piacevole, e i custodi dei campi che l’udranno di lontano, levandosi [p. 216 modifica]su ti legheranno e uccideranno. Mangia adunque delle zucche che hanno sapor d’ambrosia, e non impacciarti per ora del cantare. — Udendo cotesto, l’asino disse: Oh! tu non conosci la dolcezza del cantare, tu, che abiti nelle selve! e però parli così. Ora, è stato detto:


Quando le tenebre
Lungi son rotte
Dal lunar raggio
In queta notte23,
Quando si posano


Coi loro amori24,
L’orecchio penetra
De’ gran signori
Divino incanto
Di dolce canto25. —


Lo sciacallo disse: Zio, così è! Ma tu canti molto sgarbato. A che dunque vociare fuor di proposito? — L’asino disse: Via, via, sciocco! Qual è quel canto che io non conosco? Odasi quante specie di canto vi sono! Cioè:


Ricordansi tre pause e note sette,
Toni ventun, quarantanove neumi,

Tre tempi, tre battute e tre fermate,
Sei specie di cesure e nove accenti,
Ventisei modi e quaranta maniere
E di canzoni più che centottanta-

cinque specie diverse. In questa guisa,
Giusta le norme sue, Bàrata disse26.

Nemmeno per gli Dei cosa è nel mondo
Che più del canto possa dilettare.

Dell’aride minugie27 al suo giocondo,
Potè Ravana28 un di Siva atterrare.


Come dunque, nipote mio, mi chiami ignorante e m’impedisci di cantare? — Lo sciacallo disse: Zio, se così è, io stando sul pertugio della siepe, terrò d’occhio il custode dell’orto; ma tu canta come più vuoi. — L’asino allora, allungando il collo, incominciò a ragliare. Il custode dell’orto, come udì il raglio dell’asino, stretti i denti per ira, afferrò un bastone e accorse. Quand’egli ebbe veduto l’asino, tanto lo picchiò con quel bastone che l’asino tutto pesto cadde a terra. Legatogli allora al collo un mortaio bucato, il custode si sdraiò per dormire, e l’asino, come gli fu sparito il dolore delle busse, secondo la natura asinina, in un attimo si levò. Perciò è stato detto:


Per cani e somari,
Per muli e cavalli,
Se in tutto badate,


Più d’un sol momento
Delle bastonate
Non dura il tormento.


Così adunque, portandosi via quel mortaio e rompendo la siepe, prese a fuggir via. Lo sciacallo allora che lo vide da lontano, gli gridò dietro ridendo: [p. 217 modifica]


Bene, o zio! Da me ammonito
Di cantar non hai finito!
Un monil non visto mai


Or però legalo avrai.
Ciò ti sia qual segno intanto
Guadagnato col tuo canto. —


Anche tu, benché ammonito da me, non ti sei astenuto dall’andare. — Ciò udendo, l’uom della ruota disse: Amico, ciò è ben vero. Tuttavia, si suol dire giustamente:


Colui che senno
Proprio non ha
Nè dell’amico
Il detto fa,


Come il testore
Baggiano un dì,
Alla rovina
Corre così. —


L’uom dell’oro disse: Come ciò? — L’uom della ruota incominciò a raccontare:

Racconto. — C’era una volta in un certo paese un tessitore di nome Mantaraca. Mentre egli un giorno lavorava al suo telaio, tutti gli arnesi di legno del telaio gli si ruppero. Egli perciò, presa con sé certa sua scure, nell’andar qua e là cercando legni, giunse alla riva del mare. Là, vedendo un grand’albero di Simsipa, pensò: Quest’albero è ben grosso; come io l’avrò tagliato, me ne verranno fuori molli arnesi per il telaio. — In questo pensiero levò contro l’albero la scure. Ma dentro a quell’albero abitava uno spirito il quale disse: Oh! quest’albero è l’abitazione mia! e si deve conservare in qualunque modo perché io mi sto qui molto bene toccato dalle onde e dalle fresche arie del mare. — Il tessitore disse: Oh! che devo fare io? Senza tutti i miei arnesi di legno la mia famiglia muore di fame. Tu perciò vattene subito altrove e io taglierò l’albero. — Lo spirito disse: Io son contento di te. Però domanda tu ciò che vuoi. Soltanto risparmia quest’albero. — Il tessitore disse: Se così è, allora io, come sarò tornato a casa e avrò interrogato un mio amico e mia moglie, ritornerò da te. Tu allora mi darai ciò che ti domanderò. — Avendo lo spirito risposto di sì, il tessitore tutto contento, intanto che nel ritornare a casa entrava in paese, vide per caso un suo amico barbiere. Amico, gli disse, io ho uno spirito che sta sottomesso al mio volere. Dimmi tu cosa gli devo chiedere. — Il barbiere disse: Amico, se così è, e tu domanda un regno, perchè, essendo tu re e io tuo ministro, come avrem goduto insieme della felicità di questo mondo, godiamo poi anche della felicità dell’altro. Perchè è stato detto:


Un re magnifico
Sempre quaggiù
Gloria procacciasi,


Poi, con tal merito,
A’ Dei lassù
Emulo adergesi —


Il tessitore disse: Amico, sia così! Tuttavia, interrogherò anche mia moglie. — Il barbiere disse: Non conviene consigliarsi mai con le donne. Perchè è stato detto:


Cibo, ornamenti e vesti
Dia ’l savio alla consorte,
D’un dolce ai dì richiesti


Amplesso la conforta,
Ma non mai per faccenda
Consiglio da lei prenda.

[p. 218 modifica]E poi:


Là dove femmine
O commedianti
O putti e citti
Son comandanti,


La casa vassene
A gran periglio.
Così dicea
Di Brigu il figlio.


E che?


Là si trova autorità,
Là coi vecchi ben si sta,
Dove ascolto l’uom non dà
A ciarlar che donna fa.


A lor vantaggio pensano le donne
Soltanto e a ciò che lor più giova e piace;
Nemmeno han caro un loro proprio figlio
Che ad esse di giovar non sia capace. —


II tessitore disse: Quantunque sia così, si deve tuttavia interrogare una donna che è fedele al marito. — Come gli ebbe così parlato, andando in gran fretta disse alla moglie: O cara, oggi uno spirito si è dato alla mia volontà e mi darà ciò che io desidero, lo perciò son venuto a interrogarti. Dimmi cosa devo chiedere. Il barbiere, amico mio, dice che io devo domandare un regno. — La donna disse: O nobil uomo, che senno hanno mai i barbieri? E però non si deve fare ciò che essi dicono. Perchè è stato detto:


A fanciulli e a mascalzoni,
A cantanti e a ciarlatani,
A barbieri e ad accattoni,


Mai non faccia di consiglio
La richiesta
L’uom che ha un po’ di sale in lesta.


E poi, lo stato regale è infinitamente pieno di fastidi per il pensiero grave della pace e della guerra, delle spedizioni e degli assedi, degli accordi e della discordia, né procaccia all’uomo alcun che di bene, perchè:


Ove desire alcuno abbia di regno,
Ratto la mente sua sen va in malora,

Versan le brocche insiem con l’acqua29 il danno
Della sagra de’ principi nell’ora,

Lungi lungi ogni brama dì regno
Se i figliuoli, i congiunti e i fratelli

Per la regia possanza augurando
Van la morte a chi prence s’appelli! —


Il tessitore disse: Tu hai detto il vero. Cosa adunque dovrò io domandare? — La donna disse: Tu finora metti in opera un solo telaio col quale fai ogni tuo guadagno. Domanda adunque un altro paio di braccia e un altro capo perché tu possa e davanti e di dietro lavorare ad un telaio. Così, col capitale di uno dei telai, si faranno le faccende di casa, e mentre col capitale dell’altro farai tutti gli altri affari, in mezzo a’ tuoi passerai con onore il tuo tempo e ti procaccerai la gloria dell’altra vita. — Il tessitore, come udì tutto ciò, tutto gioioso rispose: Bene! o donna fedele al tuo marito! Tu hai parlato egregiamente! Io farò così. Tale è il mio divisamente. — Così il tessitore, recatosi dallo spirito, fece la sua domanda. Poichè tu, disse, vuoi concedermi un favore, dammi un altro paio di braccia e un altro capo. — Come ebbe detto ciò, ecco ch’egli ebbe due teste e quattro braccia. Allora, mentre egli tutto lieto dell’animo ritornava [p. 219 modifica]a casa, la gente che si pensò ch’egli fosse un Racsaso30, dopo averlo assalito con bastoni, con pietre e con altro, lo ammazzò. Perciò io dico:


Colui che senno
Proprio non ha
Nè dell’amico
Il detto fa,


Come il testore
Baggiano un dì,
Alla rovina
Corre così. —


Ma l’uom della ruota disse ancora: Ogni gente tuttavia che concepisce una incredibile e impossibile speranza, s’incammina a farsi beffare. E si dice bene a proposito:


Quei che impossibile
Disegno medita
Pei dì che vengono,
Di Somasarma


Come già il padre,
Infarinato
Si sta sdraiato.


L’uom dell’oro disse: Come ciò? - E l’altro disse:

Racconto. — Una volta abitava in un certo paese un Bramino di nome Svabavacripana, il cpiale aveva una pentola ch’egli aveva riempita di farine accattate limosinando e rimastegli dopo i suoi pasti. Avendo sospeso quella pentola a un dente d’elefante31 e postovi di sotto il suo letto, sempre e sempre la stava guardando; anzi, una notte, si mise a pensare: Ornai questa pentola è piena di farine. Se vi sarà carestia, me ne verrà un centinaio di monete. Con queste io mi comprerò un paio di capre. Allora, poichè esse partoriranno ogni sei mesi, me ne verrà una mandra. Dalle capre mi verranno vacche. Quando le vacche partoriranno, io venderò i vitelli. Così delle vacche avrò poi femmine di bufali; dalle femmine dei bufali, cavalle, e quando le cavalle partoriranno, me ne verranno molti puledri, dalla vendita dei quali mi verrà molt’oro. Con quell’oro mi procaccerò una casa con quattro logge. Allora un Bramino, venendo a casa mia, mi darà in moglie la bella figlia sua venuta ad età da marito. Da lei mi nascerà un figlio acni darò il nome di Somasarma. Quand’egli sarà in grado di venirmi sulle ginocchia, io, prendendomi un libro e sedendomi dietro la stalla de’ miei cavalli, starò a leggere. Somasarma allora, vedendomi, per desiderio di venirmi sulle ginocchia dal grembo di sua madre mi verrà vicino passando accanto alle zampe dei cavalli. Ma io, tutto in collera, griderò a mia moglie: Togli, togli su il bambino! Essa, occupata nelle faccende di casa, non udirà la mia voce, perchè io, levandomi su, le darò un calcio. — Egli allora, dominato così dal suo pensiero, lasciò andare un calcio per cui la pentola si ruppe ed egli restò tutto imbiancato dalle farine che v’erano dentro. Perciò io dico: [p. 220 modifica]


Quei che impossibile
Disegno medita
Pei dì che vengono,
Di Somasarma


Come già il padre,
Infarinato
Sì sta sdraiato. —


L’uom dell’oro disse: Così è appunto, perchè


Quei che si pone troppo ingordo all’opra
Nè gli svantaggi prima ne pensò,


Sì come Ciandra un dì, re della terra
Deriso e svergognato ne restò. —


L’uom della ruota disse: Come ciò? — E l’altro disse:

Racconto. — C’era una volta in una città un re di nome Ciandra, che aveva in casa sua un branco di scimie per far giuocare i suoi bambini. Esse erano lautamente mantenute con ogni sorta di cibi e d’altro, e il capo della schiera che conosceva e metteva in pratica i precetti di Usanas, di Vrihaspati e di Cianachia32, li faceva imparare anche agli altri tutti. Ora, nel palagio reale, era anche una mandra di caproni che serviva a tirare in carretta i piccoli bambini del re. Uno di essi, per ingordigia, di giorno e di notte soleva entrar senza timore in cucina e là si mangiava tutto ciò che trovava. I cuochi lo picchiavano con tutto ciò che potevano avere alla mano, con bastoni e con pietre, e il capo delle scimie che l’ebbe veduto, così pensò fra sé: Oh! cotesta lite fra cuochi e caprone finirà per essere la rovina delle scimie! perché questo caprone è avido di mangiare e i cuochi troppo rissosi lo picchiano con tutto ciò che hanno alla mano. Se mai, per mancanza di qualunque altra cosa, gli scaglieranno dietro qualche tizzone, il caprone che è mollo lanoso, anche con poco fuoco, divamperà tutto e tutto arso entrerà nella vicina stalla dei cavalli, e la stalla, per il molto strame che ha, s’incendierà tutta. I cavalli allora saranno attaccati dal fuoco. Ora, da Salihotra33 è stato detto che il dolore dell’ustione del fuoco sui cavalli si calma col grasso delle scimie. Da ciò, pertanto, si origina la nostra morte. — Così avendo pensato, convocò tutte le scimie e disse loro in segreto:


Là ’ve nasce una contesa
Tra caproni e cucinieri,
Senza dubbio la rovina
Delle scimie v’è compresa.


Chi brama viver queto andrà lontano
Da quella tal magione
Dove, senza ragione,
Per continuo altercar si fa baccano.


E poi:


Va la casa in rovina per le liti
E l’amicizia per,la maldicenza;


Dell’uom la gloria per l’opre non belle,
E un regno, del suo re per l’insipienza.


E però, intanto che non è ancor giunto lo sterminio di noi tutti, abbandonando la corte andiamo nei boschi. — Udito questo discorso che loro parve assurdo, le orgogliose scimie ridendo risposero: Oh! perché tu sei vecchio, la tua mente vacilla, e però parli così. Ora, è stato detto: [p. 221 modifica]


Bocca che non ha un dente,
Saliva ognor scorrente,
Nessun vigor di niente,


Dell’età prima e dell’età cadente
Segni veracemente.


Oh! noi non mangerem mai nei boschi dei frutti silvestri che sono acidi, aspri, d’odore acuto, acerbi, amari, come avrem lasciato tutte queste pietanze simili all’ambrosia che con le loro stesse mani ci danno i figliuoli del re! — Udendo cotesto, il capo delle scimie, con occhi velati dalle lagrime, disse: Ahimè! ahimè! malaccorti voi tutti! Voi non sapete dove andrà a finire questa vostra felicità. Questa vostra felicità, così dolce al suo principio, al suo finire si farà veleno. Io però non voglio vedere la rovina della mia stirpe, e intanto me ne vado nei boschi. Perchè è stato detto:


Beati quelli che di lor paese
Non han veduto lo sterminio e il guasto,

Non di lor casa la rovina e in mano

D’altri venuta la lor donna e in tristo
E duro stato l’amico del core! —


Quand’ebbe detto ciò, abbandonando tutti gli altri, il capo delle scimie andò nei boschi. Quand’egli fu andato, un certo giorno, il caprone entrò in cucina, e i cuochi, non avendo alla mano altra cosa per picchiarlo, lo scacciarono scagliandogli contro un tizzone mezzo acceso, perchè il caprone, così colpito, col corpo che già per metà divampava, si cacciò belando nella vicina stalla dei cavalli e là, voltolandosi sul suolo dov’era molta paglia, suscitò tutto all’intorno una gran vampa. Dei cavalli che erano legati nella stalla, altri, con gli occhi fuori del capo, perirono, altri, rompendo i legami, col corpo arso per metà, nitrendo e correndo qua e là spaventarono tutta le gente. Il re intanto, in gran turbamento, convocando i medici che conoscevano i precetti di Salihotra, disse: Oh! mi si dica alcun modo per calmare il dolore di questi miei cavalli abbruciati! — Quelli allora, riandando nella mente i precetti, dissero: O signore, a questo proposito il beato Salihotra ha detto:


Malattia di palafreni
Cui di fiamma ardor produce,
Con il grasso delle scimie


In dileguo si riduce,
Come l’ombra fugge via
Quando il primo sol riluce.


Perciò, facciasi subito questa medicazione acciocchè i cavalli non muoiano di malore. — Il re allora, come ebbe inteso cotesto, comandò che si uccidessero le scimie. Ma a che tante parole? Tutte furono ammazzate. Quando il capo della loro schiera seppe lo sterminio di tutta la famiglia, si conturbò molto, e però, lasciato ogni pensiero di mangiare e di sollazzarsi, andò errando di selva in selva e intanto pensava: Come mai potrò io punire questo re malvagio con qualche offesa in ricambio? Perchè è stato detto:


Quei che dimentica
Alcuna offesa,
Alcuna ingiuria
Che altri gli ha intesa,


Sia per amore,
Sia per timore,
Vile si reputi
D’alma e di core. —

[p. 222 modifica]Così adunque il vecchio scimio, errando qua e là tutto turbato dalla sete, giunse ad uno stagno tutto pieno di cespi di loto. Mentre egli guardava qua e là con accorgimento, vide orme d’animali selvatici e di uomini volte verso lo stagno, nessuna però che ne fosse rivolta, perché egli pensò: Qui, in quest’acqua, deve abitare qualche malvagio mostro. Perciò io, prendendomi una canna di loto e stando lontano, berrò dell’acqua. Dopo ciò, un Racsaso, adorno il collo di un monile di perle, uscito dal mezzo dello stagno, disse al scimio: Io divoro sempre chiunque entra in quest’acqua; nè ci dev’essere alcun più furbo di te che bevi in cotesta maniera. Io son contento di te e però domandami ciò che è più caro al tuo cuore. — Il scimio disse: In che misura hai tu potere di mangiare? — L’altro disse: Io divoro a cento, a mille, a diecimila, a centomila quelli che entrano nell’acqua. Fuori dell’acqua anche uno sciacallo mi può far male. — Lo scimio disse: lo ho una inimicizia estrema con un re. Se tu mi dài cotesto tuo monile di perle, io, come avrò allettato con parole accorte il re e tutto il suo sèguito, lo menerò qui al tuo stagno. — Il Racsaso, come ebbe inteso queste parole a cui egli prestò fede, diede allo scimio il monile di perle, e lo scimio, ornatosene il collo, tornato alla città, mentre andava errando su per gli alberi e per i palazzi, fu veduto dalla gente e interrogato: O principe delle sdraie, in tutto questo tempo dove sei andato e dove sei stato? Dove hai tu trovato cotesto monile con perle tali che superano in splendore anche il sole? — Lo scimio disse: In una certa selva trovasi uno stagno ben nascosto, già stato fatto dal dio delle ricchezze. Chi, entrandovi nel momento che il sole è levato per metà, vi s’immerge, ne esce ornato il collo, per grazia del dio delle ricchezze, d’un simile monile di perle. Il re, allora ch’ebbe inteso tutto questo dalla gente, chiamò il scimio e gli domandò: O principe delle scimie, è egli vero che c’è uno stagno in cui sono monili di perle? — Il scimio disse: 0 signore, eccoti la prova in questo monile di perle che, pur sotto i tuoi occhi, mi sta appeso al collo. Se tu hai bisogno di alcuno di quei monili, manda qualcuno con me perchè io gli mostri quella meraviglia. — Il re, udito ciò, rispose: Orsù, se così è, io stesso verrò con tutto il mio sèguito perché se ne possano aver molti per me. — Il scimio disse: Egregiamente, o mio signore! — Il re pertanto con tutto il suo sèguito, per la cupidigia dei monili, si pose in via, e il scimio, montato in grembo al re che comodamente cavalcava, si lasciava menar via coi segni d’affetto d’un giorno. Ora, si suol dire a proposito:


Anche se ricchi e pieni di sapere,
Vengon per cupidigia ad impacciarsi,


Stolti! taluni in ciò che non può farsi,
Vanno dove all’uscir non han potere!


E poi:


Quei che ha cento, ne vuol mille;
Quei che ha mille, centomila!
Cerca un regno chi giugnea


Centomila a posseder,
E desia toccare il cielo
Quei che un regno potè aver.


Come furori giunti allo stagno in sul far dell’aurora, il scimio disse al re: O signore, solo per quelli che entreranno qui nel momento che il sole [p. 223 modifica]sarà levato per metà, si compirà ogni loro voto. Perciò si deve convocar qui tutto il tuo sèguito perché entri senza indugio. Tu invece devi entrar con me per un luogo già stato da me veduto, laddove io ti farò vedere infiniti monili di perle. — Intanto, la gente del re entrò nello stagno e tutta fu divorata dal Racsaso; e poiché essa s’indugiava, il re disse allo scimio: O principe delle scimie, come mai la gente mia s indugia tanto? — Udendo cotesto, il scindo sali in gran fretta sopra un albero e disse al re: O malvagio re, la tua gente e stata tutta divoiata da un Racsaso che abita in queste acque e così è stato soddisfatto 1 odio che è nato in me contro te per lo sterminio della mia famiglia. Ora vattene! Pensando che tu sei mio signore, non ti ho fatto entrar laggiù. Perchè è stato detto:


Si ricambia tutt’opra cortese,
Si puniscon mai sempre le offese.


Io non veggo che ciò sembri male
Se altri al mal corrisponde col male.


Poichè tu hai sterminato la famiglia mia, così io, in ricambio, la tua. — Come ebbe inteso, il re, tutto addolorato, a passi affrettati se ne ritornò così come era venuto. Allora, come tu partito il re, il Racsaso, ben satollo, uscì dall’acqua e tutto contento disse:


Un nemico fu ammazzato,
Un amico fu acquisito,
Un monil di perle ornato
Non mi fu per te rapito;


Della canna per l’imbuto
Di quest’acqua hai tu bevuto.
Bel scimio amato,
Tu hai bene oprato! —


Perciò io dico:


Quei che si pone troppo ingordo all’opra
Nè gli svantaggi prima ne pensò,


Sì, come Ciandra un di, re della terra,
Deriso e svergognato ne restò. —


Ma l’uom dell’oro riprese a dire: Oh! dunque dàmmi licenza perchè io torni a casa! — L’uom della ruota disse: Anche a costo d’incontrar disgrazie, si sogliono procacciar ricchezze e amici. Come mai adunque potrai tu partire lasciandomi in questo stato? Perchè è stato detto:


L’amico che scortese e negligente
L’amico afflitto abbandonar potrà,


Alla chiostra internai discenderà
Indubbiamente. —


L’uom dell’oro disse: Oh! questo è ben vero se pure egli, potendolo raggiungere, abbandona l’amico in un luogo accessibile. Ma cotesto è un luogo inaccessibile agli uomini, né c’è alcun modo di potersi liberare. Anzi quanto più veggo gli atteggiamenti che prende il tuo viso per il dolore della ruota che s’aggira, tanto più io mi persuado di questo, cioè che io devo togliermi subito di qui, perchè non tocchi a noi pure qualche malanno eguale. Intanto si suol dire a proposito:

Di questa guisa, o scimia, il tuo sembiante
Mostrasi a noi, ché Vespro t’ha acchiappata.
Scampa quei che al fuggir lievi ha le piante. —


L’uom della ruota disse: Come ciò? — E l’altro disse: [p. 224 modifica]

Racconto. — C’era una volta in una città un re di nome Badrasena che aveva una figlia di nome Ratnavati, adorna d’ogni segno di beltà e fortuna. Un Racsaso voleva rapirla. Venendo di notte, sempre egli si pigliava piacere di lei, ma, perché era ben guardata, non poteva rapirla, ed essa, nel tempo che il Racsaso pigliava piacere di lei, soffriva di tremito e di febbre cagionati in lei dal trovarsi insieme con lui. Così essendo passato alcun tempo, una sera il Racsaso, stando in un angolo della casa, si fece vedere a quella figlia del re. Essa allora disse ad una sua amica: Amica, vedi? quel Racsaso che sempre viene a me in tempo di vespro, mi dà una gran noia! Vi è mai qualche maniera di allontanar quello scellerato? — Udendo cotesto, il Racsaso pensò fra sé: Certamente qualcuno di nome Vespro suol venir qui, come me, per portarla via, ma non può farlo, lo però, stando in mezzo ai cavalli34, osserverò di che forma è e di che natura. — Uopo ciò, ecco che in tempo di notte un ladro di cavalli entrò nella casa del re. Quand’ebbe esaminato tutti i cavalli, vedendo che quel Racsaso in forma di cavallo era il più bello di tutti, postogli un freno in bocca, gli saltò in groppa. Il Racsaso allora pensò: Ecco che costui che si chiama Vespro, pensando ch’io sia suo nemico, è venuto qui per uccidermi. Intanto, che farò io? — Essendo in questi pensieri, riceveva colpi di sferza dal ladro dei cavalli, e però, tutto spaventato, cominciò a correr via, e il ladro, dilungatosi di molto, stringendo il freno tentava di fermarlo, e diceva: Se costui è un cavallo, sentirà il freno. — Ma l’altro sempre andava con impeto maggiore. Vedendo allora ch’egli non sentiva il freno, il ladro pensò: Oh! i cavalli non sono di questa maniera! È possibile che sotto questa forma di cavallo si nasconda un Racsaso, e però, se io potrò vedere un terreno soffice e molle, mi lascierò cadere a terra. Non c’è altra maniera di scampo. — Mentre egli pensava così raccomandandosi al suo dio, ecco che il Racsaso che aveva forma di cavallo, capitò sotto un albero di fico. Il ladro, afferrato un ramo dell’albero, là sopra si cacciò. Così ambedue, ripresa la speranza della vita, ebbero grandissima gioia. Ora, su quell’albero abitava una scimia amica del Racsaso, la quale, vedendolo fuggire gli gridò: Oh! dunque e perché fuggi tu per un vano timore? Costui è un uomo e tu puoi mangiartelo. Mangiane adunque! — Il Racsaso, come ebbe udito queste parole della scimia, ripigliò la sua forma e tutto sgomento e con passo vacillante si allontanò. Ma il ladro, che aveva inteso la raccomandazione della scimia, addentò con ira la coda di lei in giù pendente e fortemente cominciò a morderla; e la scimia che s’avvisò che colui fosse un essere assai superiore al Racsaso, per paura non disse nulla, ma soltanto si stette questa serrando gli occhi e stringendo i denti, appunto come ora fai tu. Il Racsaso, vedendola in quell’atto, recitò questi versi: [p. 225 modifica]
Di questa guisa, o scimia, il tuo sembiante
Mostrasi a noi, che Vespro t’ha acchiappata.
Scampa quei che al fuggir lievi ha le piante. —

E così fuggì via. —

Ma l’uom dell’oro ritornò a dire: Lasciami andare perchè io torni a casa mia. Tu intanto resta qui a goderti del frutto dell’albero della tua mala condotta. — L’uom della ruota disse: Oh! ciò è contro ragione! La buona e la mala condotta vengono da sè, perchè sol per il volere degli Dei toccano agli uomini il male e il bene. Perchè è stato detto:


Ebbe un giorno re Ravano
Per fossato l’Oceàno,
Il Tricuta35 per fortezza,
Da Coverà36 la ricchezza,


Per guerriero ogni Racsaso,
La dottrina da Usanaso37.
Pure, in forza del destino,
Finì misero e tapino.


E poi:


Un cieco, un gobbo e una regal fanciulla
Che a sommo il petto avea mammelle tre,


D’ogni regola in onta fùr sanati,
Poi che il fato propizio a lor si fe’. —


L’uom dell’oro disse: Come mai cotesto? — L’uom della ruota disse:

Racconto. — Nella regione settentrionale è una città di nome Madupura, dov’era già un re di nome Madusena. Un giorno, gli nàcque una figlia che aveva tre mammelle. Il re, come intese che la bambina aveva tre mammelle, chiamò a sé l’eunuco e disse: S’abbandoni la bambina in qualche bosco in modo che nessuno lo sappia. — Udendo ciò, l’eunuco disse: Gran re, sappiasi che una bambina che ha tre mammelle, è cagione di sventura. Devonsi perciò convocare i Bramini e interrogarli perché non s’incontri alcun malanno in questa vita e nell’altra. Perchè è stato detto:


Di quei che interroga
Sempre ed ascolta
E nota e medita
Con cura molta,
Come del loto


Il vago fiore
Cresce del sole
Allo splendore,
Assiduamente
Cresce la mente.


E poi:


Uom che ha senno, ognor dimandi.
Un Bramino un dì fu preso


Da un Racsàso e sciolto andò
Sol perchè l’interrogò. —


Disse il re: Come mai ciò? — L’eunuco incominciò a raccontare:

Racconto. — C’era una volta in una selva un Racsaso di nome Ciandacarna, il quale un giorno, andando qua e là, s’incontrò in un Bramino. Gli saltò sulle spalle e gli disse: Oh tu! va innanzi! — Il Bramino, tutto sgomento, se lo tolse in collo e s’incamminò. Ma poi, vedendo ch’egli aveva i piedi molli come fiori di loto, gli domandò: Come mai hai tu i [p. 226 modifica]piedi così molli? — Il Racsaso disse: lo non soglio mai toccare il suolo coi piedi bagnati. È questo un voto mio. — Udendo questo, il Bramino, intanto che pensava a qualche spediente per liberarsi, giunse ad un grande stagno. Il Racsaso allora disse: Ohè! finchè io non ritorni dallo stagno come avrò fatto le abluzioni e onorato gli Dei, tu non devi andartene altrove di qui. — Allora, il bramino si mise a pensare: Ora costui, come avrà fatto l’adorazione agli Dei, mi divorerà. Io perciò me n’andrò via subito, né costui mi correrà dietro avendo bagnati i piedi. — Così avvenne, perchè il Racsaso, per timore d’infrangere il voto, non gli corse dietro. Perciò io dico:


Uom che ha senno, ognor dimandi.
Un Bramino un dì fu preso


Da un Racsaso e sciolto andò
Sol perchè l’interrogò. —


Il re allora, avendo inteso quel racconto di lui, convocati i Bramini, così parlò: O Bramini, mi è nata una bambina che ha tre mammelle. A tutto questo c’è rimedio o non c’è? — E quelli risposero: O signore, si ascolti.


Ove nasca donzella quaggiù
Che abbia un membro di meno o di più,

Del marito la morte sarà,
Di sè stessa gran guasto farà.

Se una ragazza
Che ha tre mammelle


Sotto a’ suoi occhi
Capiterà,
Indubbiamente
Al genitore
Di presta morte
Cagion sarà.


Si guardi perciò nostro signore dal vederla, e se qualcuno la sposerà, nel dargliela in isposa gl’imponga altresì d’abbandonare il paese. Così facendo, sarà evitato ogni danno per questa e per l’altra vita. — Come ebbe inteso le parole dei Bramini, il re, a suon di tamburo, fece udir da per tutto questo bando: A quello che dovrà sposare la figlia del re che ha tre mammelle, il re, dandogli una gran somma d’oro, farà che lasci questo paese. — Essendosi fatto il bando, molto tempo passò, ma nessuno volle sposar la fanciulla, ed essa, standosi in luogo nascosto, s’avvicinava a maturità di nozze. Ora, in quella città era altresì un cieco a cui faceva da guida, camminandogli innanzi e tenendolo per il bastone, un gobbo di nome Mantaraca. Questi due, avendo udito un giorno il romor del tamburo, si dissero l’un l’altro consigliandosi: Si tocchi il tamburo38. Se mai per volontà del destino avremo la fanciulla e l’oro, toccando l’oro si passerà da noi felicemente il tempo. Se poi per colpa della ragazza ci toccherà di morire, si avrà anche il fine di quest’uggia che ci viene dalla povertà. Perchè è stato detto:


Amore e verecondia e bel parlare,
Sapïenza e fortuna in gioventù,

Convegni con l’amanza, folleggiare,
Onor ne’ sacrifizi e di quaggiù
Ogni sventura più trista evitare,

Buon costume, dottrina, chi è dappiù
E con seco i celiceli onorare,
Governare il costume, aver virtù,
Tutta è roba che in uom trovasi intatta
Quand’ei piena del ventre ha la pignatta. —

[p. 227 modifica]Come si furono consigliati in questa maniera, il cieco andò e toccò il tamburo, dicendo: Io sposerò la fanciulla se il re me la darà. — Le regie guardie allora andarono dal re e gli dissero: O signore, un cieco ha toccato il tamburo. Nostro signore comandi. — Il re disse: Oh!


Sia cieco, sia sordo,
Ignobile o abietto,
Si prenda la figlia


Dell’or col sacchetto,
E vada lontano
In paese estrano. —


Come il re ebbe fatto questo decreto, le guardie regie, dopo aver menato il cieco sulla sponda di un fiume, postagli in mano la somma dei denari d’oro, gli diedero la fanciulla dalle tre mammelle. Fecero salir tutti sopra una nave e dissero ai rematori: Come voi li avrete menati in paese straniero, là voi rilascierete liberi la sposa, suo marito e il gobbo. — Così fu fatto. Venuti a un certo luogo in quel paese straniero, i tre, per denaro, si comprarono una casa e là passarono felicemente il tempo; soltanto il cieco sfavasi sempre disteso sul suo lettuccio, intanto che il gobbo attendeva alle faccende di casa. Coll’andar del tempo la donna dalle tre mammelle s’innamorò del gobbo. Ora, giustamente si suol dire:


Quando la fiamma
Fredda sarà,
Quando la luna
Caldo farà


E quando il mare
Dolce parrà,
Onor di donne
Si mostrerà.


Però un giorno essa gli disse: Mio caro, se cotesto cieco in qualche modo potrà essere ammazzato, noi due passeremo felicemente il nostro tempo. Cerchisi perciò qualche veleno, per il quale, quando avremo ucciso il cieco col darglielo, io possa esser contenta. — Un giorno, il gobbo, mentre andava attorno qua e là, trovò un nero serpente morto. Lo raccolse e tornando tutto contento a casa disse alla donna: 0 cara, io ho trovato questo nero serpente. Tu lo farai in pezzi, e come l’avrai condito con molto zenzero e con altro, dàllo a mangiare al cieco dicendogli ch’essa è carne di pesce ed egli muoia subito. La carne di pesce gli è sempre stata gradita. — Come ebbe detto ciò, il gobbo Mantaraca uscì di casa, e la donna, acceso il fuoco, fatto a pezzi il nero serpente, lo cacciò in una padella ov’era del burro, e posta la padella su di un treppiede, mostrando d’esser tutta occupata nelle faccende di casa, s’accostò al cieco e gli disse: O nobil uomo, poiché sempre ne vai chiedendo, io oggi t’ho, procacciato della carne di pesce che tanto ti piace. Intanto i pesci stanno già a cuocere al fuoco. Ora tu, mentre io attendo alle faccende di casa, prenditi il mestolo e rimestali nella padella. — MI cieco, come ebbe inteso questo discorso, si leccò le basette e levandosi in gran fretta si prese il mestolo e incominciò a rimestare i pesci. Ma intanto ch’egli così rimestava, ecco che la pellicola violetta de’ suoi occhi, toccata da una bollicina di veleno, adagio adagio incominciò a diradarsi. Allora, pensandosi che quelle bollicine avessero virtù molteplici, del tutto ne volle ricevere con gli occhi. [p. 228 modifica]Come potè vedere con vista chiara, ecco che là, in mezzo al burro, erano soltanto i pezzi del serpente nero. Allora pensò: Oh! che è mai questo? M’è stato parlato di carne di pesci, ma questi sono pezzi d’un serpente nero! Io intanto starò a vedere se questa è opera di mia moglie dalle tre mammelle, ovvero è qualche macchina del gobbo Mantaraca per farmi morire, ovvero è un tiro di qualchedun altro. — Così avendo divisato, nascondendo il suo disegno, attese al lavoro suo nella guisa che fa un cieco, come prima. Intanto il gobbo Mantaraca, essendo di ritorno, incominciò senza sospetto a sollazzarsi con la donna dalle tre mammelle abbracciandola, baciandola e facendo seco anche dell’altro. Ma il cieco che vedeva tutto ciò, poiché in nessun luogo rinveniva un’arma, fatto cieco dall’ira come prima si avventò a Mantaraca e afferratolo per i piedi e facendoselo rotar sul capo con tutta la destrezza e la forza della persona, lo cacciò contro il petto della donna dalle tre mammelle. Allora, colpita cosi dal corpo del gobbo, la terza mammella le entrò nel petto, mentre il gobbo, colpito dalla mammella nella regione della gobba, d’un tratto si raddrizzò. Perciò io dico:


Un cieco, un gobbo e una regal fanciulla
Che a sommo il petto avea mammelle tre,


D’ogni regola in onta fûr sanati
Poi che il fato propizio a lor si fe’39. —


L’uom dell’oro disse: Oh! è pur vero tutto ciò che tu vai dicendo. Col favor della sorte si può conseguir la felicità dovunque. Vuolsi tuttavia che l’uomo eseguisca il precetto dei più savi. Chi, invece, si comporta in maniera diversa, incontra come te il suo malanno. Intanto,


Quelli c’hanno un ventre solo
Ma fra lor disgiunti i gozzi,
Di cui l’uno avvien che il frutto


Del compagno suo s’ingozzi,
Vanno a male in lor bordello40
Come già Baranda augello. —


L’uom della ruota disse: Oh! come mai cotesto? — E l’altro disse:

Racconto. — Sovra la sponda dell’oceano abitava una volta un uccello di nome Baranda che aveva un ventre solo e due teste. Mentre egli un giorno andava errando sulla riva del mare, trovò un frutto dolce come l’ambrosia, che le onde avevano gettato sul lido. Egli nel mangiarlo andava dicendo: Oh! io ho mangiato ben molti frutti di sapor d’ambrosia che le onde del mare avevano gettati al lido, ma un sapore come questo non l’ho mai sentito prima d’ora! O è qualche frutto dell’albero Parigiata o della pianta Hariciandana41, ovvero è qualche altro frutto del sapor dell’ambrosia che per qualche caso è caduto. Io intanto me lo vado assaporando. — Intanto ch’egli parlava così, l’altra testa disse: Oh! se è cosi, dammene tu un pezzetto perché anch’io ne possa gustare. — L’altra testa [p. 229 modifica]ridendo gli rispose: Noi due abbiamo un solo ventre e però il riempirsene sarà in comune. Perchè adunque mangiarne l’uno e l’altro? È ben meglio che con questo poco che me ne resta, io consoli la mia carissima moglie. — In così dire porse alla moglie sua, la Barandia, quel resto di cibo, perché essa, come n’ebbe gustato, tutta contenta si diede ad abbracciarlo, a baciarlo, a stargli accanto, a fargli carezze. La seconda testa da quel giorno restò crucciata e malinconosa. Ma poi, un giorno, essa rinvenne un frutto velenoso. Al vederlo gridò: 0 vile e crudele! ecco che io ho trovato per caso un frutto velenoso. Io, per farti dispetto, lo mangerò. L’altra testa disse: 0 sciocca, non far così! Se tu farai così, morremo tutt’e due. Perdonami tu il mio errore, lo non ti farò mai più nulla di male. — L’altra, mentre questa così parlava, ingoiò il frutto velenoso. Ora, a che tante parole? L’una e l’altra morirono. Perciò io dico:


Quelli c’hanno un ventre solo
Ma fra lor disgiunti i gozzi,
Di cui l’uno avvien che il frutto


Del compagno suo s’ingozzi,
Vanno a male in lor bordello
Come già Baranda augello.


L’uom della ruota disse: Oh! così appunto! Tu hai detto il vero. Ritorna a casa tua; ma guarda di non andar solo. Perchè è stato detto:


Solo non gusti alcun d’alcuno intingolo,
Solo non vegli fra gli altri che dormono;


Solo non vada alcun per alcun vicolo,
Da solo i suoi vantaggi alcun non mediti.


Ancora:


S’anche dappoco,
Dà sicurtà
Ogni compagno
Che nosco va.
Un vïandante


Da una cerasta
Salvo restò
Sol perchè un granchio
L’accompagnò. —


L’uom dell’oro disse: Come mai cotesto? — E l’altro disse:

Racconto. — Una volta, abitava in un certo paese un Bramino di nome Brahmadatta. Costui, un giorno, doveva recarsi ad un villaggio per certa sua faccenda. Sua madre allora gli disse: Figlio mio, perché vai tu solo? Cèrcati alcun altro che li sia compagno nel viaggio. — Ma il Bramino rispose: Madre mia, non temere! la via è senza pericoli, e poi io devo andar solo per un affare d’importanza. — La madre allora, come ebbe inteso questo divisamento di lui, togliendo fuori un granchio che sfavasi in un buco d’una cisterna vicina, così disse al figlio: Figlio mio, poiché tu devi andare a qualunque costo, questo granchio sarà il tuo compagno. Tienlo adunque con ogni cura e va. — Il Bramino, per rispetto della madre, si tolse il granchio con ambedue le mani, lo ravvolse in un foglio pieno di canfora, lo ripose nella sua bisaccia da viaggio e partì. Ma poiché nell’andare si senti oppresso dal caldo estivo, venuto presso un albero vicino alla via, là sotto si addormentò placidamente. Subito allora un nero serpe, uscito da una cavità dell’albero, gli si strisciò vicino; ma, eccitato nel senso dall’odore della canfora, lasciando stare il Bramino, lacerò la tela della [p. 230 modifica]bisaccia e ingoiò con avidità il foglio pieno di canfora che v’era dentro. Il granchio allora, ingoiato e venutogli nella strozza, lo soffocò. Il Bramino, come il sonno cessò, si gurdo attorno, ed ecco che vicino a lui, dopo che aveva lacerato la tela della bisaccia e ingoiato il foglio di canfora, stava morto il nero serpente, e presso il serpente, il granchio. Al vederlo, egli pensò: Oh! mia madre ha pur detto il vero, cioè che si deve prendere un altro per compagno e che non si deve mai andar soli in viaggio! Ecco, perchè io con mente fiduciosa ho seguito il suo consiglio, questo granchio mi ha salvato dall’essere ucciso da un serpente. Perciò si suol dire bene a proposito:


Scema la luna
Che sola sta,
Ma cresce il mare
Allor che al sole
Congiunta va.
Altri compagni
Son nel malanno,
Altri dei ricchi


La sorte lieta
Sfruttando vanno42.
In medici e maestri,
In preti ed in stregoni,
In santi, in preci, in rive43,
Qual tu fiducia poni,
Tal ne verrà dipoi
Fortuna ai fatti tuoi. —


Così dicendo, sollecitamente se n’andò. Perciò io dico:


S’anche dappoco,
Dà sicurtà
Ogni compagno
Che nosco va.
Un vïandante


Da una cerasta
Salvo restò
Sol perchè un granchio
L’Accompagnò. —


Quand’ebbe inteso cotesto, l’uomo dell’oro, fatto all’altro un saluto, ritornò a casa.


Così nel Panciatantra, opera del felice Visnusarma, è finito il libro quinto che piglia il nome dalle opere fatte inconsideratamente.


Note

  1. Nel senso religioso del liberarsi da ogni dolore o desiderio o dall’eventualità del dover rinascere.
  2. L’inverno che è la stagione più gradita agli Indiani.
  3. L’albero favoloso del paradiso indiano che rende pago ogni desiderio che gli viene manifestato.
  4. Vuol dire: Se il mare, re delle acque, è in tempesta e fa danni e rovine, la gente non ne fa caso, perchè è potente. Così ogni potente e danaroso, al mondo, può fare ciò che più gli pare e piace.
  5. Nome di uno dei tesori di Cuvera (Kuvera) che è il dio delle ricchezze.
  6. Vuol dire che l’amore non produceva alcun effetto in loro come il seme gettato in terreno salmastro.
  7. Il prevosto dei monaci.
  8. Chi parla è un monaco buddista. I Bramini, che son d’altra religione, accettano volentieri inviti.
  9. Albero indiano.
  10. Non avendo scodella si serve delle mani per bere, e, non avendo di che vestirsi, veste d’aria, cioè sta nudo.
  11. Del suono sgradevolissimo di questi quattro versi disgraziati, non ha colpa il traduttore. Chi vuol persuadersene, vegga il testo sanscrito che non può esser reso con fedeltà in italiano se non in questa maniera.
  12. Cioè è l’uomo che fa, non il destino.
  13. Quando gli Dei agitarono l’oceano per far l’ambrosia, l’uccisor di Madu, cioè Visnù, dopo che fu stanco dell’agitar con gli altri, ebbe in isposa, come premio, la dea Lacsmi, cioè la dea della Fortuna.
  14. Il fuoco infernale che si crede essere in fondo al mare nella regione australe.
  15. Cioè la via buona da percorrere.
  16. Padrone dell’asino.
  17. Pare che, leggendo il suo volume da lui consultato, il Bramino sciocco abbia preso abbaglio, scambiando pâtra, dignità, forza, persona di gran virtù, come era scritto, con patra, foglia, fronda.
  18. Nel senso di perdita totale di una cosa.
  19. Se pure così va inteso, perchè i nomi di queste pietanze sono difficilissimi da interpretare e non si trovano in tutti i vocabolari.
  20. Cianachya, ministro del re Ciandragupta, autore di precetti morali.
  21. Il dio della morte.
  22. Figuratamente per un mortaio sospeso al collo, come si vedrà dal racconto che segue.
  23. In notte autunnale, secondo il testo.
  24. Con le loro belle.
  25. Nettare, secondo il testo.
  26. Barata (Bharata) è un sapiente leggendario a cui si attribuisce l’invenzione dell’arte scenica. — Quanto alla traduzione dei termini musicali, fatta da me come meglio ho potuto, non posso risponder nulla. Non si sa, quei termini, a quali nostri possano corrispondere. Il Fritze omette di tradurli. Il Commentatore indiano sarà chiaro per gl’Indiani, ma per noi è più oscuro del testo. Il Benfey stesso dice di non esser sicuro della sua traduzione.
  27. Le corde d’uno strumento musicale.
  28. Re di Lanca (Ceylan). Vedi Ramayana.
  29. L’acqua lustrale nella consacrazione dei re.
  30. I Racsasi erano demoni e mostruosi abitatori dell’isola di Lanca (Ceylan) ed erano raffigurati con più teste. Vedi il Ramayana.
  31. Piantato nella parete come un cavicchio.
  32. Antichi e favolosi sapienti. Vedi le note alle precedenti novelle.
  33. Favoloso autore d’un’opera di veterinaria.
  34. In forma di cavallo, come s’intende da ciò che segue. I Racsasi avevano facoltà di trasformarsi come volevano.
  35. Monte dell’isola di Lanca o Ceylan di cui Ravano (Ravana) era re. V. il Ramayana.
  36. Dio delle ricchezze.
  37. Antico e mitico sapiente.
  38. In segno che acconsentivano alle nozze proposte.
  39. Questa novella, come molte altre di questo libro quinto, non potrebbe essere nè più sciocca nè più triviale.
  40. Nel senso di discordia intestina.
  41. Alberi favolosi del paradiso indiano.
  42. Se pure così va inteso il testo. Il senso, tuttavia, è tale, e lo conferma il Commento indiano, che pure ha una lezione diversa e, come pare, erronea.
  43. Le sacre rive dei fiumi, meta di devoti pellegrinaggi.