Le Fenicie (Euripide - Romagnoli)/Primo episodio
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parodo | Primo stasimo | ► |
Entra Polinice, tutto chiuso nell’armi, guardando cauto da ogni parte.
polinice
Delle porte le sbarre agevolmente
mi dischiusero il passo entro le mura:
ond’io temo, che, preso entro le reti,
non mi lascino uscir, ma qui m’uccidano.
Per questo, l’occhio tutto in giro volgere
mi convien qua e là, se qualche insidia
contro me non è tesa. In questa mano
il ferro io stringo, e sicurezza a me
con l’ardir mio procaccio. — Ehi! Chi va là?
Forse un timor mi sbigottisce? Tutto
all’uom che si cimenta appar terribile,
quando in terra nemica il piede inoltra.
Di mia madre mi fido e non mi fido,
che patteggiato, a qui venir m’indusse.
Ma presso è qui la mia salvezza: vedo
questi altari e quest’ara; e questa casa
mi par deserta. Orsú, nel buio anfratto
della vagina riporrò la spada,
e a queste donne chiederò chi siano,
che stanno presso alla magione. Ditemi,
da quale patria, o stranïere donne,
siete venute a quest’Ellena reggia?
coro
Mia terra patria è la Fenicia: in quella
nutrita fui. D’Agènore i nepoti
qui m’inviâr, votiva offerta a Febo
d’una vittoria. E mentre il figlio illustre
s’apprestava d’Edípo ad inviarmi
di Febo all’ara e ai venerandi oracoli,
strinser l’assedio alla città gli Argivi.
E adesso, dimmi chi sei tu, che giungi
ai sette valli del Tebano suolo.
polinice
Edípo il padre mio: Giocasta, figlia
di Menecèo, la madre: Polinice
me chiama tutto il popolo di Tebe.
coro
O dei figli d’Agènore parente,
dei miei regi, ond’io qui mandata fui!
A te dinanzi. Signor, mi prostro,
serbando il patrio costume nostro.
Dopo sí lungo tempo, alla terra
patria sei giunto!
Si volgono verso l’interno della reggia.
Ehi là,
ehi là, Signora, gli usci disserra,
e corri corri. Che indugi? Udito
non hai? Tu, pure, l’hai partorito,
tu gli sei madre! Lascia il tuo tetto,
presto ed il figlio tuo stringi al petto.
Dalla reggia esce Giocasta.
giocasta
Entro la reggia, o vergini,
giunse un fenicio grido,
e venni: al mio pie’, tremulo
per vecchiaia, m’affido.
Vede il figlio.
O figlio, O figlio!
Alfine, dopo il transito
di mille giorni e mille,
vedo le tue pupille.
All’amplesso abbandónati
delle materne braccia,
ch’io tocchi la tua faccia,
e i riccioluti boccoli
delle tue negre chiome
la mia canizie ombreggino.
Ahimè! Ahimè!,
dopo quanto, in che punto,
fra le materne braccia alfin sei giunto!
Che devo dire? Come,
con le mani e coi detti,
la mia gioia molteplice,
vagando qua e là,
la gioia degli antichi miei diletti
sazïare potrà?
O figlio mio, per la paterna ingiuria
orbi lasciasti i tuoi paterni Lari,
profugo errasti sopra estranee glebe,
bramato dai tuoi cari,
e bramato da Tebe.
Perciò recido questo crin bianco,
a calde lagrime sfogo gli affanni,
gitto le vesti candide, e al fianco
cingo questi atri funerei panni.
E nella casa, orbo degli occhi, il vecchio
che brama nutre lagrimosa eterna
della coppia fraterna
che la casa lasciò, sopra il suo brando,
per trafiggersi il petto,
s’avventa, sopra il laccio
stretto al colmo del tetto.
Ed ai figli imprecando,
nel buio che lo fascia,
leva querele ed ululi d’ambascia.
Figlio, e di te mi dicono
che nuzïali nodi
ti stringono, e del talamo
lecite gioie godi
in estranei Lari,
ed estranei parenti a te son cari.
Ma per tua madre queste
nozze, per Laio, l’avolo
remoto, son funeste.
Non io, com’è costume
delle madri felici, accesi il raggio
per te del sacro lume.
Al nuovo parentaggio
non die’ l’Ismèno l'acque
dei suoi lavacri: il nuzïale cantico
pel giunger della sposa, in Tebe tacque.
Oh maledetti questi eventi! O causa
le contese ne siano, oppur le spade,
o tuo padre, o che un mal Dèmone invasa
d’Edípo abbia la casa:
ché tutto questo mal su me ricade.
corifea
Che cosa sono per le donne i frutti
delle lor doglie! È tutto quanto amante
il sesso femminil dei propri figli.
polinice
Madre, venendo fra nemiche genti,
ebbi senno e non l’ebbi. Eppure, è forza
che tutti amin la patria; e chi lo nega,
s illude a ciance, eppur sempre a lei pensa.
A tal sospetto, a tal timore io venni
che non volesse il mio fratello uccidermi
con qualche trama, che la spada in pugno
strinsi, ed entrai nella città, volgendo
gli sguardi in giro. Un punto sol m’affida:
il patto, e la tua fede, ond’io son giunto
fra le mie patrie mura. E molte lagrime
versai, vedendo la paterna casa,
dopo sí lungo tempo, e l’are sante,
ed i ginnasî ove cresciuto fui,
e la fonte di Dirce, ond’io bandito
iniquamente, una città d’estranei
abito, e il volto mio, sempre dagli occhi
lagrime versa. E, doglia a doglia aggiunta,
con le chiome recise ora te veggo,
cinta di negre vesti. O mia sciagura!
che orribil cosa è fra parenti, o madre,
la nimicizia: arduo quant’è placarla!
Che fa mio padre, immerso nelle tenebre,
dentro la reggia? E le mie due sorelle?
Gemono forse pel mio tristo esilio?
giocasta
Alcun dei Numi tristamente stermina
la progenie d’Edípo. E cominciò
ch’empio fosse il mio parto, e di tuo padre
empie le nozze, e ch’io ti partorissi.
Ma di che parlo? Sopportar conviene
il voler degli Dei. Ma non so come
chiedere ciò che bramo, senza offendere
l’animo tuo: pur, molto lo desidero.
polinice
Parla: di ciò che vuoi nulla tacermi:
a me le brame tue, madre son care.
giocasta
Questo saper, questo vo’ prima chiedere.
Esser privo di patria, è male grande?
polinice
Grandissimo: a patir, piú che a narrarlo.
giocasta
Come? Qual’è questo gran mal dell’esule?
polinice
Questo sommo: non ha parola libera.
giocasta
È da schiavi non dir ciò che si pensa.
polinice
Poi, patir deve i grandi, anche se stolidi.
giocasta
Fare lo stolto con gli stolti, è triste.
polinice
Servi il bisogno fa, pur contro l’indole.
giocasta
Ma, dicono, speranza nutre gli esuli.
polinice
Con lusinga li guarda; e sempre indugia.
giocasta
Né svela il tempo quanto erano fatue?
polinice
Nei mali pur qualche dolcezza porgono.
giocasta
Dove, pria di sposar, trovavi il pane?
polinice
Un giorno lo trovavo, un altro no.
giocasta
Non t’aiutavan gli ospiti, gli amici?
polinice
Cerca d’esser felice; o tu li perdi.
giocasta
Te la tua nobiltà non estolleva?
polinice
Non mi nutría: gran male è la miseria.
giocasta
Dunque, la patria è il primo ben per gli uomini?
polinice
Quanto sia cara, non può dir parola.
giocasta
Come, con quale idea giungesti ad Argo?
polinice
Febo ad Adrasto1 le sue figlie impose....
giocasta
Che mai? Che dici? Non ti posso intendere.
polinice
Dare per mogli a un apro e ad un leone.
giocasta
E a quelle fiere, in che, figlio, eri simile?
polinice
Non so: me trasse a quella sorte un Dèmone.
giocasta
E saggio il Dio. La sposa, or come avesti?
polinice
Era notte. D’Adrasto all’atrio giunsi....
giocasta
Errando in fuga, o d’un giaciglio in cerca?
polinice
Tu l’hai detto. E poi, giunse un altro profugo.
giocasta
Chi era? certo un infelice anch’esso.
polinice
Tidèo, che figlio è, dicono, d’Enèo.
giocasta
A fiere, Adrasto in che v’assomigliò?
polinice
Perché venimmo, pel giaciglio, a lotta.
giocasta
E cosí Adrasto interpretò l’oracolo?
polinice
Ed a noi due le due fanciulle diede.
giocasta
Son felici le tue nozze, o infelici?
polinice
Non posso, fino a questo dí, lagnarmene.
giocasta
E qui come adducesti un tanto esercito?
polinice
Il figlio di Talào, giurato aveva
ai due generi suoi, che ricondotti
li avrebbe in patria, e me per primo. E Dànai
meco son molti, e Micenèi signori,
che a me soccorso recano; ma tristo,
per quanto necessario, è tal soccorso:
ch’io muovo contro la mia patria. Ma,
per i Numi lo giuro, a mal mio grado
io muovo l’armi contro i miei congiunti
che a grado hanno il mio male. Adesso, a te
sciogliere questi mali, o madre, spetta,
comporre in pace i due figli a te cari,
me liberare dagli affanni, e te,
e tutta la città. Da tempi antichi
ricantato è quel detto, eppur lo replico:
piú d’ogni cosa pregio han le ricchezze:
esse il piú gran potere hanno fra gli uomini.
Ond’io qui giungo, e schiere innumerevoli
guido, a cercare i beni miei: ché nulla
è l’uomo poveretto, anche se nobile.
coro
Ecco, agli accordi Etèocle giunge. Or devi
tali parole dir, madre Giocasta,
che conciliare i tuoi figliuoli possano.
Entra Etèocle.
eteocle
Eccomi, o madre. In grazia tua qui venni.
Che devo far? Chi vuol parlare, parli.
Io desistei dall’ordinar le schiere
intorno ai carri ed alle mura, e i patti
udrò per cui venir costui facesti
qui patteggiato, e v’inducesti me.
giocasta
Non aver fretta; la fretta è nemica
della giustizia; ed a piú saggi avvisi
le parole pacate i cuori ispirano.
Ai truci sguardi poni freno, ai turbini
del cuore tuo: non miri della Górgone
il capo tronco: il tuo fratello miri
a te dinanzi. Ed anche tu, rivolgi
a tuo fratello, o Polinice, il viso.
Meglio potrai, guardandolo negli occhi,
a lui parlare, e intendere i suoi detti.
E un mio saggio consiglio offrirti io bramo.
Quando un amico, di rancore acceso
contro l’amico, insiem con lui si trova,
gli occhi negli occhi suoi figge, pensare
deve a ciò solo per cui venne, e nulla
piú ricordare delle offese antiche.
O mio figliuolo, o Poliníce, parla
per primo tu. L’esercito dei Dànai
tu guidi qui, perché, dici, sei vittima
d’un’ingiustizia. Or, qualche Nume giudice
sia della lite, e ponga fine ai mali.
polinice
Son della verità semplici i detti:
necessità di chiose e d’artifizi
non ha giustizia: ha la sua forza in sé:
l’ingiusta causa, invece, insito ha il morbo,
ed ha bisogno di sottili farmachi.
Della casa paterna, io, per me stesso
e per costui, provvidi al bene: io volli
da noi stornare il mal ch’Edípo un giorno
imprecato ne avea: per questo, uscíi
concedendo a costui che per un anno
la città governasse, in guisa ch’io
a mia volta l’impero indi ne avessi,
senza lotta né strage, e senza danni,
come avviene, patire, e senza infliggerne.
E questi, i patti accolse, e giuramento
fece ai Celesti; ed or, nulla mantiene
delle promesse, ed il comando ei solo
tiene, e la mia parte dei beni. E adesso
io sono pronto, quando il mio recuperi,
a ritirar l’esercito da Tebe,
a rimaner nella mia casa il tempo
che a me si spetta, e per un tempo uguale
consegnarla a costui, senza la patria
mettere a sacco, e soverchiar le torri
coi gradi della scala; ove giustizia
poi mi si neghi, farlo io tenterò.
E di ciò testimonî invoco i Numi
ch’io secondo giustizia in tutto oprai,
e che privato contro ogni giustizia,
fui della patria, empissimo sopruso.
Senza rigiri di parole, tutto
esposi, o madre mia, sí che ben chiaro
e saggi e inculti il mio buon dritto vedano.
coro
A noi sembra, sebben la terra d’Ellade
non ci nutrí, che tu chiaro favelli.
eteocle
Se belle e giuste fossero per tutti
le stesse cose, alcun dissenso ambiguo
mai non sarebbe fra i mortali. Invece,
niun punto v’ha per tutti uguale o simile,
tranne a parole; ma di fatti, no.
Tutto, o madre, dirò quello che sento,
e nulla occulterò. Sin dove sorgono
le stelle, in aria andrei, sin nelle viscere
della terra, se ciò fosse possibile,
per avere il Poter, che fra i Celesti
occupa il primo posto. Un tanto bene
cedere, o madre mia, non voglio ad altri,
ma serbarlo per me. Viltà sarebbe
se, rinunciando al piú, pigliassi il meno.
Ed onta inoltre avrei, se, quando questi
viene con l’armi a saccheggiar la terra,
quanto brama ottenesse. Anche per Tebe
vituperio sarebbe, ove, per tema
dell'armi di Micene, io concedessi
il mio scettro a costui. Non già con l'armi
egli cercar dovea l’accordo, o madre.
Tutto risolve la parola, quanto
risolver può nemico ferro. Ed ora,
se di viver s’appaga in questa terra,
bene lo può. Ma di buon grado mai
consentirò ch’egli comandi, quando
serbar posso l’impero, ed io servirlo.
Venga ora il fuoco, vengano le spade,
i cavalli aggiogate, il piano empiete
dei vostri carri. Mai non cederò
il mio scettro a costui. Seppure è lecito
vïolar la giustizia, ottimo avviso
è vïolarla per un regno: in tutte
l’altre vicende, essere pii conviene.
coro
A tristi opre i bei detti mal s’addicono:
non bello è questo, e amaro alla giustizia.
giocasta
La vecchiaia non ha sol di malanni
retaggio, Etèocle; e può meglio dei giovani
saggi consigli offrir l’esperienza.
Figlio, perché d’ambizïone vago
sei tu, che trista è piú d’ogni altro Dèmone?
Figlio, non farlo! Ingiusta è quella Diva,
e in molte case ed in molte città
felici, entrò, ne uscí, per la rovina
di chi l’accolse. E tu per lei deliri?
Onorar l’uguaglianza assai piú giova,
o figlio mio, che stringe le città
con le città, gli amici con gli amici,
coi federati i federati. È legge
naturale, uguaglianza; ed è nemico
il da meno al da piú, sempre; ed origine
hanno di qui le dïuturne lotte.
Vedi, misure e numeri partí
fra i mortali uguaglianza, e pesi e scrupoli,
e della notte il tenebroso ciglio,
e la luce del sole, uguale compiono
l’annüo giro, e niuno è sopraffatto
dall’altro, e non l’invidia. Ora, se agli uomini
servon la notte e il sole, e tu rifiuti
uguale parte aver dei beni, e a questo
la sua contendi? E la giustizia ov’è?
Perché mai tanto onori la tirannide,
ch’è l’ingiustizia fortunata, e reputi
che sia gran cosa esser d’invidia oggetto
agli sguardi di tutti? È vana pompa.
Hai tanti beni, e vuoi tanto affannarti
per averne di piú? Che cosa è mai
questo di piú? Non è che un nome. Basta
per l’uom di senno, il necessario. I beni
dei mortali non son loro dominio:
li abbiam dai Numi, e noi li amministriamo;
e quando piace a lor, ce li ritolgono;
e la fortuna non è cosa stabile,
ma dura un giorno. Or via, questo dilemma
voglio proporre a te: che preferisci:
tenere il regno, oppur salvare Tebe?
Che mi dirai? Tenere il regno? — E se
costui ti vince, e l’armi degli Argivi
vincon le schiere dei Cadmèi, vedrai
questa rocca di Tebe al suolo eversa,
molte vedrai fanciulle schiave, tratte
via dai nemici. Fonte di cordogli
pei Tebani sarà quella ricchezza
che vai cercando. Ambizïon t’acceca.
A te questo sia detto. Or, Poliníce,
a te mi volgo. A te prestava Adrasto
dissennato favore; e dissennato
anche tu fosti, che venisti a struggere
la tua città. Via, dimmi, ove tu giunga,
mai non avvenga, a conquistar la terra,
come a Giove potrai levar trofei,
e vittime immolar, come, se avrai
la tua patria distrutta? E sulle spoglie
scriver potrai, vicino ai rivi d’Inaco:
«Questi scudi agli Dei, poich’ebbe Tebe
data alle fiamme, Poliníce offerse?».
Deh, questa gloria non t’avvenga mai
di conseguir presso gli Ellèni, o figlio.
Se invece tu sarai vinto, e costui
trionferà, tornar di nuovo ad Argo
come potrai, se mille e mille morti
avrai lasciati qui? Tutti diranno:
«Che tristi nozze strinse Adrasto! Tutti
per una donna siam perduti». Un rischio
duplice, o figlio mio, tu corri: o privo
restar del loro aiuto, o qui cadere.
Bandite, via, la troppa ira bandite.
È di due la follia, se le lor brame
convergono ad un punto, infesto male.
corifea
D’Edípo i figli fate che s’accordino.
Questi malanni, o Dei, lungi tenete:
eteocle
Madre, invano il tempo qui si consuma: non è prova
di parole, questa; e il tuo buon volere, a nulla giova.
Pace avremo solo al patto ch’io già dissi: che in mia mano
rimaner debba lo scettro, che di Tebe io sia sovrano.
Perciò, tu, madre, rispàrmiati ogni lungo ammonimento;
e la rocca tu abbandona, se non vuoi cadere spento.
polinice
Da chi dunque? Invulnerabile chi tanto è, che, la sua spada
nel mio petto insanguinando, meco ucciso anch’ei non cada?
eteocle
Ti sta presso, non ir lungi: la mia man guarda.
polinice
La guardo;
ma la vita troppo ha cara l’uomo ricco, ed è codardo.
eteocle
E perché con tanta gente vieni qui, se l’avversario
non vai nulla?
polinice
Un duce cauto meglio val che un temerario.
eteocle
Tu millanti per il patto che protegge la tua vita.
polinice
A te ancor, per la mia parte, chieggo e scettro e terra avita.
eteocle
Io non chiedo; ed in mia casa resto.
polinice
Ciò che non ti tocca
usurpando anche?
eteocle
Sicuro. Esci or tu da questa rocca.
polinice
O dei Numi altari...
eteocle
A struggerli vieni.
polinice
niun di voi m’udrà?
eteocle
E chi mai, se vuoi con l’armi saccheggiar la tua città?
polinice
Numi, voi dai corsier candidi...
eteocle
L’odio sei di questi Numi.
polinice
Dalla patria io son bandito.
eteocle
Né bandirci tu presumi?
polinice
Dei, mi fan torto.
eteocle
A Micene invocar devi gl’Iddei.
polinice
Empio sei!
eteocle
Ma non nemico della patria, qual tu sei.
polinice
Tu mi spogli, e vuoi bandirmi.
eteocle
Ed ucciderti, di piú.
polinice
Padre, vedi ciò ch’io soffro?
eteocle
Vede pur ciò che fai tu.
polinice
Madre!
eteocle
A te non è concesso invocar pietà materna.
polinice
O città!
eteocle
Vattene in Argo, l’acque invoca ivi di Lerna.
polinice
Non temer, vado. A te grazie, madre mia.
eteocle
Vattene!
polinice
Vo’:
ma concedi almen ch’io possa riveder mio padre.
eteocle
No.
polinice
Ch’io riveda almen le vergini mie sorelle!
eteocle
Neppur questo.
polinice
O sorelle!
eteocle
A che le chiami? Non sei forse ad esse infesto?
polinice
O mia madre, a te fortuna!
giocasta
Di fortune sono piena!
polinice
Piú non sono il tuo figliuolo.
giocasta
Nata io sono ad ogni pena.
polinice
Mio fratel m’offende.
eteocle
E offeso sono.
polinice
A quale delle porte
tu sarai schierato?
eteocle
A che lo domandi?
polinice
A darti morte
quivi anch’io voglio piantarmi.
eteocle
Nutro anch’io la brama stessa.
giocasta
Me tapina! Che farete, figli miei?
polinice
L’evento appressa.
giocasta
Deh, schivate il mal ch’Edípo v’imprecò.
eteocle
Tutta in rovina
vada pur la casa.
polinice
Poco resterà nella guaina
questa spada, che di sangue non si bagni. E invoco testi
questa terra che per me fu nutrice, ed i Celesti,
ch’io bandito son, d’offese, d’ingiustizie sono oppresso,
come un servo, quando invece figlio son d’un padre stesso.
Or, se mai qualche sciagura su te, patria, piomberà,
a costui, non a me devi dame colpa: ch’io di qua
contro voglia parto, come contro voglia son venuto.
Febo, a te, signor dei tramiti, a te, casa, il mio saluto,
ed a voi, dei Numi statue, ed a voi che in gioventú
foste a me compagni: ignoro se parlarvi io potrò piú.
Pur, non morta è la fiducia; ma costui spengere io spero
con l’aiuto dei Celesti, e di Tebe aver l’impero.
eteocle
Esci fuor di questa terra. Bene il padre, Poliníce
ti chiamò: nome fatidico, che a riotte ben s’addice.
Escono.
Note
- ↑ [p. 338 modifica]Adrasto, figlio di Talao, re d’Argo, aveva avuto dall’oracolo di Apollo il responso di maritare le due figliuole, Deipile ed Argia, ad un leone e ad un cinghiale. È disaccordo fra gli autori come Adrasto rilevasse in Polinice e in Tideo il leone e il cinghiale profetati; forse fu perché si presentarono a lui il primo coperto dalla pelle di un leone, l’altro da quella di un cinghiale, quando egli accorse alla lite sorta fra i due che s’erano rifugiati nell’atrio della reggia.