Le Allegre Femmine di Windsor/Atto terzo
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
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ATTO TERZO
SCENA I.
Un campo vicino a Fregmore.
Entrano sir Ugo Evans e Simple
Ev. Pregovi, buon domestico di messer Slender, il di cui nome è Simple, qual via avete tenuta per andar da Cajus, che da se stesso si chiama dottor di medicina?
Sim. In verità, signore, la via della città, la via del parco, ogni via, la via dell’antico Windsor e qualunque altra, fuorchè quella dei casolari.
Ev. Desidero molto veementemente che guardiate da questa parte.
Sim. Così farò, signore.
Ev. Benedizione sulla mia anima! Come pieno di collera io sono, e come trepido di mente! Godrei mi avesse ingannato..... oimè me! — Gli romperò il capo col suo vaso da notte, se ne ho l’opportunità. Benedizione alla mia anima! (canta) Alla sponda dei ruscelli, deliziati dal canto dei rosignuoli, intreccieremo letti di rose, e con cento nomi di fiori allieteremo..... Misericordia! È grande il desiderio che ho di piangere. Dove melodiosi uccelli cantano; intuoneremo le glorie d’Israello spargendo lagrime e gigli.....
Sim. S’avanza da questa parte egli viene.
Ev. È il ben venuto: alla sponda dei ruscelli, le cui onde..... Il Cielo faccia prosperare il giusto! Quali armi porta?
Sim. Non parlo d’armi, signore. Il mio padrone e messer Shallow escono da Frogmore con un altro gentiluomo. Eccoli che passan la siepe, dietro le querele, vengono a noi.
Ev. Ve ne prego, datemi la mia sottana o piuttosto tenetela fra le braccia. (entrano Page, Shallow e Slender)
Shall. Come va, messer parroco? Buon giorno, ottimo sir Ugo. Sorprendete un giuocator senza dadi, e uno studente senza libri, e griderete miracolo.
Slen. Ah, dolce Anna Page!
Pag. Il Ciel vi guardi, sir Ugo!
Ev. Iddio, nella sua misericordia, ne impartisca a tutti la sua benedizione!
Shall. Ma che è quello ch’io veggo sotto il vostro braccio? la spada? Studiate voi forse l’oratoria e la scherma, ottimo parroco?
Pag. Sempre giovine, sir Ugo. In giubboncello e brache corte in dì sì umido?
Ev. Sonvi cagioni per ciò.
Pag. Siam venuti da voi, degno parroco, per compiere un’opera buona.
Ev. Quale opera?
Pag. Un uomo che lasciammo testò lagnavasi di grave insulto patito; egli esciva dai limiti della moderazione, oltre quanto potreste credere.
Shall. Sono passati settanta inverni e più sopra questa mia lesta canuta: e nondimeno non ho mai veduto un uomo della sua gravità e della sua scienza obbliare così ciò ch’ei deve a se medesimo.
Ev. Chi è egli?
Pag. Credo che lo conosciate; è messer Cajus, il celebre medico francese.
Ev. Pel regno di Dio! vorrei piuttosto che mi parlaste di una minestra di patate.
Pag. Perchè?
Ev. Ei non conosce sillaba d’Ippocrate, nè di Galeno, ed oltre ciò è un malandrino; un codardo malandrino, quanto potreste imaginarlo.
Pag. Io ve ne assicuro, questi è l’uomo che doveva combattere con lui.
Slen. Oh, dolce Anna Page!
Shall. Infatti le sue armi lo dichiarano. — Gettatevi fra di loro; s’avanza il dottor Cajus. (entrano l’oste, Cajus e Rugby)
Pag. Su, buon parroco, riponete la vostra arma.
Shall. Fatene altrettanto, buon dottore.
Ost. Disarmiamoli e lasciamoli contendere; conservino le membra intere, e mutilino il nostro idioma.
Ev. Vi supplico di darvi pace. Io venni in tempo.
Caj. Pel Cielo! siete un codardo, un cane, una scimmia.
Ev. Ve ne supplico, non diveniamo la pietra dello scandalo, nè lo zimbello altrui: desidero la vostra amicizia, e in un modo o nell’altro vi farò fare ammenda. Vuo’ rompervi il capo col mio bastone per insegnarvi ad essere esatto.
Caj. Diable! Rugby..... mio oste della Giarrettiera, non l’ho io aspettato per ucciderio? Non andai io nel luogo indicato?
Ev. Quant’è vero che sono cristiano, questo era il luogo indicato; ne chiamo a testimonio il mio oste.
Ost. Pace, dico, Gallia e Galles, curator d’anima e di corpo.
Caj. Ah, in verità, la cosa è eccellente!
Ost. Pace, dico; ascoltate il vostro oste della Giarrettiera. Son io politico? son io sottile cherco? son io un Machiavelli? Dovrei io perdere il mio dottore? No; ei mi dà le medicine e la salute. Debbo confondere il parroco? il mio prete? il mio sir Ugo? No; ei mi amministra le assoluzioni e le dispense. — Dammi la tua mano terrestre; così..... Tu la tua celeste; bene sta. — Ora, miei figli, debbo dirvi che vi ho ingannati entrambi; ho assegnato ad entrambi nn luogo differente; ma i vostri cuori son fieri; la vostra pelle intatta, e il vino darà termine a tanta contesa. — Venite, datene le vostre spade in pegno: seguitemi, figli di pace, seguitemi, seguitemi.
Shall. Ecco un oste gioviale. Ite, gentiluomini, avanti.
Slen. Oh dolce Anna Page! (esce con Shall., Page e l’Oste)
Caj. Ah! veggo io chiaro? Avrebbe egli fatto due sciocchi di noi?
Ev. Sì, sì; ne ha trattati da fanciulli. Desidero che diveniamo amici, onde ci adopriamo insieme per vendicarci del miscredente, sciagurato, atroce oste della Giarrettiera.
Caj. Pel Cielo! con tutto il cuore; ei mi condusse qui, dandomi speranza di vedervi Anna Page, e in questo ancora mi deluse.....
Ev. Bene, io scioglierò i suoi nodi: venite con me. (escono)
SCENA II.
La strada di Windsor.
Entrano mistress Page e Robin.
Miss. Page. Continuate per la vostra via, bel gentiluomo; solevate star di dietro, ed ora volete farla da guida. Preferite piuttosto il fissare i miei occhi, al guardare le calcagna del vostro padrone?
Rob. Vorrei prima, in verità, andare innanzi a voi come uomo che seguirlo come nano.
Miss. Page. Oh! siete un fanciullo adulatore; veggo che diverrete un cortigiano. (entra Ford)
Ford. Ben trovata, mistress Page; dove andate?
Miss. Page. A veder vostra moglie. È essa in casa?
Ford. Sì, ed è tanto infastidita di vedersi sola, che credo che se i vostri mariti fossero morti, vi sposereste insieme.
Miss. Page. Siate certo di ciò; ella ha un altro marito.
Ford. Dove acquistaste questo bel garzone?
Miss. Page. Non potrei dirvi come si chiami quegli a cui serve. Garzone, qual è il nome del cavaliere?
Rob. Sir Giovanni Falstaff.
Ford. Sir Giovanni Falstaff!
Miss. Page. Appunto; non ne potrò mai apprendere il nome. Vi è molta amicizia fra mio marito e lui. — Vostra moglie è dunque in casa?
Ford. Sì, sì, vi è.
Miss. Page. Con licenza, signore. Ardo dal desiderio di vederla.(esce Rob.)
Ford. Ha Page il cervello? ha gli occhi? pensa? Certo dorme; degli occhi non usa. Quel garzone porterebbe una lettera a venti miglia colla sicurezza con cui il cannone manda una palla a dieci passi, e il mio imbelle amico francheggia la inclinazione di sua moglie, dà campo al suo soddisfacimento; talchè essa se ne va ora dalla mia sposa col famiglio di Falstaff di dietro. Oh! odo il vento che annunzia la tempesta. Il servo di Falstaff è con lei! — Ottima trama! Tutto è ordinato; e le nostre consorti ribelli parteciperanno insieme alla dannazione. Or bene, io lo prenderò e torturerò quindi mia moglie per strappare il velo di modestia dall’ipocrita mistress Page, e divulgarne il marito per un sicuro e volente Atteone; a tal acre procedere tatti i vicini plandiranno. (suona l’orologio) La squilla mi dà il segnale e la sicurezza del fatto adonesta le mie indagini. Troverò Falstaff: sarò più lodato che schernito di ciò; poichè è certo che egli è ora sotto il mio tetto. Si vada. (entrano Page, Shallow, Slender, l’Oste, sir Ugo Evans, Cajus e Rugby)
Shall. Ben trovato, messer Ford.
Ford. Ottima compagnia: ho cena a casa, e vi prego di venir con me.
Shall. Convien che me ne dispensiate, messer Ford.
Slen. E me pure, signore; dobbiam pranzare con miss Anna, e non vorrei mancare per tutto l’oro del mondo.
Shall. Abbiam cercato di conchiudere un matrimonio fra Anna e mio cugino Slender: oggi dobbiamo aver la risposta.
Slen. Spero che avrò il vostro assentimento, padre Page.
Pag. Lo arete, messer Slender: mi dichiaro interamente per voi: ma mia moglie, dottore, s’interessa alla vostra sorte.
Caj. Sì, pel Cielo! e la fanciulla mi ama: la mia governante Quickly me ne assicura.
Ost. Che diverrebbe allora il giovine Fenton che danza, verseggia, spira aprile e maggio, ha occhi gai e vispi? Egli l’avrà, l’avrà; il fiore non può essere che suo.
Pag. Non col mio consenso, ve lo prometto. Quel gentiluomo è povero: era della compagnia del principe; è di sfera troppo elevata, e sa troppo. No, ei non intreccierà le sue fortune colle mie: s’ei la prende l’avrà senza dote; le ricchezze che io le do saranno unite al mio assenso, e da questa parte il mio assenso non v’è.
Ford. Ve ne prego di cuore, qualcuno di voi venga meco a pranzo: oltre il buon pasto avrete un diporto; vi farò vedere un mostro. — Dottore, voi verrete; voi pure, messer Page. e voi anche, Ugo.
Shall. Ebbene, addio: amoreggieremo più liberamente Miss Anna. (esce con Slend.)
Caj. Va a casa, Giovanni Rugby: verrò fra poco. (Rug. esce)
Ost. Addio, dolci cuori: vuo’ correre dal mio onesto cavaliere Falstaff, per bere Canarie in sua compagnia. (esce)
Ford. (a parte) Credo che prima berrò succo di bastone con lui; vuo’ farlo danzare. Volete venire, signori?
Tutti. Volontieri, andiamo a vedere il mostro. (escono)
SCENA III.
Una stanza nella casa di Ford.
Entrano mistress Ford e mistress Page.
Miss. Ford. Ebbene, Giovanni! Ebbene, Roberto!
Miss. Page. Presto, presto: è preparato...
Miss. Ford. Sì, sì: dunque, dico, Robin!
(entrano alcuni domettiei con un cesto)
Miss. Page. Venite, venite, venite.
Miss. Ford. Ponetelo qui.
Miss. Page. Date gli ordini ai vostri uomini; il tempo incalza.
Miss. Ford. Ricordatevi quello che vi ho detto. Voi Giovanni, e voi Roberto, siate pronti nella stanza vicina; e quando vi chiamerò, venite e prendete senza indugi questo cesto in spalla; ciò fatto, correte in fretta verso il luogo del bucato, e cacciatelo nella poltiglia che imbratta la fossa rasente al Tamigi.
Miss. Page. Farete ciò?
Miss. Ford. L’ho detto e ridetto; non abbisognano di altre ripetizioni; ite, e venite quando sarete chiamati. (escono i domestici)
Miss. Page. S’avanza il piccolo Robin. (entra Robin)
Miss. Ford. Ebbene, mio piccolo delatore, quali novelle?
Rob. Il mio padrone sir Gioranni sta alla porta di dietro, mistress Ford, e chiede la vostra compagnia.
Miss. Page. Ditemi, mariuolo, ci siete toì stato fedele?
Rob. Sì, lo giuro. Il mio padrone non sa che siate qui, e mi ha minacciato di pormi per sempre in libertà, se vi dicevo questo suo amore.
Miss. Page. Sei un buon fanciullo, e tal segretezza ti farà guadagnare un bell’abito e belle calze. Vado a nascondermi.
Miss. Ford. Fatelo. — Di’ al tuo padrone che son sola. Mistress Page, ricordatevi della vostra parte. (Rob. esce)
Miss. Page. Non la dimenticherò; se non la compio, fischiatemi. (esce Miss Page)
Miss. Ford. Andate dunque; trarrem diletto dall’indurito peccatore, da quel ventre pieno di vino: gl’insegneremo a distinguer le tortore dalle cornacchie. (entra Falstaff)
Fal. T’ho io trovato, mio celeste gioiello? Ora lasciate ch’io muoia, che sono visse abbastanza: questo è il dì della mia gloria; ho fortunato giorno!
Miss. Ford. Oh dolce sir Giovanni!
Fal. Mistress Ford, non posso esprimere, non so dir quello che sento. Ora m’è forza esternare un desiderio peccaminoso. Vorrei che vostro marito fosse morto: ciò direi in faccia al più grande dei lórdi, creandovi milady.
Miss. Ford. Io vostra sposa, sir Giovanni! Oimè! sarei una sposa ben da compiangere.
Fal. La Corte di Francia me ne mostri un’altra eguale; io veggo come i vostri occhi ecclissino lo splendore dei diamanti: voi avete due sopraccigli arcuati come la luna di maggio; una fronte a cui si addirebbe la pettinatura più lussureggiante, ogni specie di pettinatura veneziana.
Miss. Ford. Una semplice pezzuola, sir Giovanni; alla mia fronte non si conviene null’altro e ciò mi sta male ancora.
Fal. Sei una traditrice a dir così: vuoi far di me un assoluto cortigiano? Il piede che nascondi, con quanta grazia non coronerebbe le tue forme eleganti, se fosse calzato di raso! Veggo ciò che sei, se la fortuna non ti fosse nemica; ma ti è amica la natura: questo non puoi nascondere.
Miss. Ford. Credete, non vi è nulla in me.
Fal. Qual cosa adunque mi fa amarti? Lascia che ti persuada che è in te qualcosa di divino. Ma io non posso esprimerti, nè dirti qual sei: io non posso somigliare a quei zerbini odorosi che han dovizie di belle frasi, come i farmacisti di semplici. Io non posso che amarti, e amarti sola e immensamente.
Miss. Ford. Non m’ingannate, signore; temo che amiate anche mistress Page.
Fal. Puoi dire ancora ch’io amo di dimorare nelle prigioni di Stato, che più odiose mi sono che il fumo di un calderaio.
Miss. Ford. Bene, il Cielo sa come io vi ami; e un di voi pure lo saprete.
Fal. Conserva tali sensi; io li merito.
Miss. Ford. Io vi dico che così facciate voi pure; altrimenti non persevererò in essi.
Rob. (dal di dentro) Mistress Ford, mistress Ford, vi è mistress Page anelante e sudata, che con occhi feroci chiede di parlarvi tosto.
Fal. Ella non mi vedrà; mi asconderò dietro gli arazzi.
Miss. Ford. Pregovi, fatelo; è donna molto maledica... (Fal. si nasconde. Entrano mistress Page e Robin) Ebbene? ebbene?
Miss. Page. Oh mistress Ford, che avete voi fatto? Siete disonorata, siete perduta per sempre.
Miss. Ford. Perchè, buona mistress Page?
Miss. Page. Oh sciagurato giorno, mistress Ford! Come avendo sì onesto marito dargli tal cagione di sospetto?
Miss. Ford. Quale sospetto?
Miss. Page. Quale sospetto? Arrossitene! Me pure avete ingannata!
Miss. Ford. Perchè, oimè! perchè?
Miss. Page. Vostro marito vien qui, donna, con tutti gli ufficiali di Windsor per cercarvi un gentiluomo, che egli dice essere ora in questa casa col consenso vostro, per trarvi turpe profitto della sua lontananza. Siete perduta.
Miss. Ford. (a parte) Parlate più forte. — Spero che non sia così.
Miss. Page. Piaccia al Cielo che non sia vero che qui stia un uomo; ma è certo che vostro marito viene con la metà di Windsor alle calcagne, per cercarvelo. Io venni innanzi per dirvelo se siete innocente, ne avrò sommo diletto: ma se avete qui un amante, fatelo fuggir tosto: non impallidite; richiamate i vostri sensi; difendete la vostra riputazione, o dite addio per sempre alla vostra buona vita.
Miss. Ford. Che debbo io fare? Vi è, è vero, una buona anima, un gentiluomo in questa casa, nè temo tanto pel mio onore quanto pel suo pericolo. Darei mille lire perch’ei fosse lontano.
Miss. Page. In nome dell’onore non dite vorrei, darei. Vostro marito è alla porta; pensate a qualche mezzo per farlo evadere: in casa non potete nasconderlo. — Oh come mi avete ingannata! — Guardate, colà sta un cesto; s’egli è di corporatura umana, potrà celarvisi, e coperto di lini passerà come un cesto di bucato. Valendovi dì tal mezzo, mandatelo alla lavandaia.
Miss. Ford. Oimè! è troppo pingue per capirvi. Che debbo io fare? (rientra Falstaff)
Fal. Lasciate che vegga, lasciate che vegga, ho lasciate che vegga! V’entrerò, v’entrerò; seguite il consiglio della vostra amica; v’entrerò.
Miss. Page. Che! sir Giovanni Falstaff! Son queste le vostre lettere, cavaliere?
Fal. Io ti amo, ed amo solo te; aiutatemi: lasciate che mi nasconda; non mai... (entra nel cesto ed è coperto dalle donne con panni sudici)
Miss. Page. Aiutatene a coprire il vostro padrone, fanciullo; chiamate i vostri uomini, mistress Ford. — Perfido cavaliere!
Miss. Ford. Giovanni, Roberto, Giovanni! (esce Robin; rientrano i domeatici) Prendete queste lenzuola, presto; introducete la pertica nei manichi. — Come vacillate! Portatele alle lavandaie di Datche, presto presto. (entrano Ford, Page, Cajus, e sir Ugo Evans)
Ford. Avvicinatevi, ve ne prego: se ho sospettato senza motivo, avrete diritto di beffarmi: i vostri schemi cadano su di me; li avrò meritati. — Ebbene! Dove portate quel cesto?
Dom. Alla lavandaia.
Miss. Ford. Che cosa vi cale ciò? Entrerete anche nelle lavature?
Ford. Lavature? Così potessi lavare il mio onore! Lavature? Sì, in verità; il mare a ciò non basterebbe, (escono i dom, col cesto) Gentiluomini, sognai stanotte, e vi dirò mio sogno. Ma prima le mie chiavi: salite nelle mie camere, cercatevi, trovatevi la volpe. Lasciate prima che chiuda quest’uscio: poscia cacciate.
Pag. Buon messer Ford, calmatevi: vi fate troppa onta.
Ford. Veramente, messer Page? Su, gentiluomini, se volete godere: seguitemi. (esce)
Ev. Sono umori balzani, le son gelosie.
Caj. Pel Cielo! non è moda di Francia: non v’è gelosia in Francia.
Pag. Seguitelo, gentiluomini; vedete il fine delle sue indagini.
(esce con Ev., Caj. e Ford)
Miss. Page. L’avventura non è doppiamente piacevole?
Mis. Ford. Non so se mi allieti più l’inganno di mio marito, o quello di sir Giovanni.
Mis. Page. Qnal ansia dovè provare allorchè vostro marito colle ragione del cesto.
Mis. Ford. Credo che avrà bisogno di essere lavato; onde il gettarlo in acqua gli sarà benefico.
Mis. Page. Maledizione su tai ribaldi! vorrei che tutti provassero sì fatte angoscie.
Mis. Ford. Penso che mio marito avesse qualche sospetto sulla venuta di Falstaff, poichè non lo viddi mai così acceso di gelosia.
Mis. Page. M’adoprerò per saperlo, e ciò ne darà maggior materia di riso, a spese del cavaliere, la cui dissolutezza non verrà però sanata da questa medicina.
Mis. Ford. Manderemo la pazza mistress Quickly da lui per scusarci della sua cacciata in acqua? Gli daremo altre speranze, per poscia di nuovo punirlo?
Mis. Page. Sì, sì; mandiamogliela dimani alle otto per tessere le nostre apologie.
(rientra Ford, Page, Cajus e sir Ugo Evans)
Ford. Non posso trovarlo: forse il malandrino si gloriava di cose che non erano in poter suo.
Mis. Page. Lo udite?
Mis. Ford. Sì, sì; tacete. — Voi mi trattate assai bene, messer Ford, non è vero?
Ford. Sì, così fo.
Mis. Ford. Il Cielo vi renda migliore dei vostri pensieri.
Ford. Amen.
Mis. Pag. Voi fate a voi stesso gravi oltraggi, messer Ford.
Ford. Saprò tollerarli.
Ev. Se si trova un cristiano nelle camere, o negli armadii, il Cielo non mi perdoni i miei peccati nel dì del giudizio!
Caj. Pel Cielo! dico così anch’io; qui non vi è nessuno.
Pag. Vergogna, vergogna, messer Ford! Non arrossite? Qual demonio v’ispirò tali pensieri? Non vorrei m’entrassero siffatti umori per tutte le ricchezze di Windsor.
Ford. Son colpevole, messer Page, e ne porto la pena.
Ev. Voi sofferite a motiro della vostra cattiva coscienza: vostra moglie è una donna illibata e quale io vorrei trovarne fra mille o cinquecento.
Caj. Pel Cielo! io pur reggo che è una donna onesta.
Ford. Bene, io vi promisi un pranzo. — Venite, venite nel parco: vi prego di perdonarmi; dipoi vi farò conoscere ciò che mi spinse a questo passo. — Venite, moglie; venite, mistress Page; vi prego di perdonarmi; cordialmente vi prego di perdonarmi.
Pag. Andiamo, gentiluomini; (a parte a Mis. Ford) lo vogliamo punire. — Vi invito tutti, signori, dimani mattina in mìa casa ad asciolvere; dopo di che se lo volete ce ne andremo a caccia, possedendo io un ottimo falco da boschi. Vi piace il disegno?
Ford. Vi aderisco di buona voglia.
Ev. Se uno va io gli terrò compagnia.
Caj. Se uno o due vanno io sarò il terzo.
Ford. Messer Page, andiamo, ve ne prego.
Ev. Ed io pure tì prego di ricordarvi dimani dello scaltrito oste che ne ha beffati.
Caj. Sta bene, pel Cielo! con tutto il cuore.
Ev. Scorto malandrino, che se la prende anche con noi. (escono)
SCENA IV.
Una stanza nella casa di Page.
Entrano Fenton e miss Anna.
Fen. Veggo ch’io non potrò mai ottenere l’amore di tuo padre; cessa perciò, mia dolce Anna, d’inviarmi a lui.
An. Oimè! e come dunque fare?
Fen. Adopera le tue forze, allorchè è necessario. Ei mi oppone la mia troppo illustre nascita; dice che il mio amore non è che arte; che indirizzo i miei voti alle sue ricchezze, per riparare le mie finanze sdrucite; cerca per tutto armi contro di me; mi rimprovera antichi errori, rammenta il mio consorzio con uomini libertini; e assevera, impossibile a credersi, ch’io non ti amo che per il tuo oro.
An. Forse ei dice il vero.
Fen. No, lo giuro dinanzi al Cielo, su tutta la mia felicità ventura. È vero, lo confesserò, che le ricchezze di tuo padre furono il primo motivo che m’attirarono vicino a te: ma imparandoti ad amare, ti trovai di ben maggior prezzo di tutti i suoi tesori. Sei tu stessa che ora io ricerco, e a cui anelo con tutta l’anima.
An. Gentile Fenton, continuate ad adoprarvi per ottenere la benevolenza di mio padre: a questo intendete sempre, signore. Se la sommissione e le più umili preghiere non possono nulla conseguire, allora... Viene qualcuno. (continuano a parlare in diparte; entrano Shallow, Slender e mistress Quickly)
Shall. Interrompete il loro dialogo, mistress Quickly; il mio parente deve perorar la sua causa.
Slend. Vuo’ tirare un colpo o due. Andiamo alla ventura.
Shall. Non siate timido.
Slend. No, ella non mi atterrisce, io non la temo; ma pure mi sento un brividio per tutto il corpo.
Quick. Ascoltate voi? messer Slender vorrebbe dirvi una parola.
An. (a parte) Questi è l’uomo scelto da mio padre. Quanti difetti sono nascosti ed anche abbelliti da trecento ghinee di rendita!
Quick. Come sta, il buon Fenton? Ve ne prego ho una cosa da dirvi.
Shall. Ella s’avanza; andate incontro a lei, cugino; oh garzone, tu avesti un padre...
Slend. Ebbi un padre, miss Anna; mio zio potrà dirvi mille belle cose di lui. — Ve ne prego, mio zio, dite a miss Anna in qual modo mio padre rubò due oche senza che nessuno se ne accorgesse.
Shall. Miss Anna, mio cugino vi ama.
Slend. Sì, vi amo al pari d’ogni altra donna della contea di Glocester.
Shall. Ei vi manterrà da gentildonna.
Slend. Così farò; nè alcun scudiere, dalla coda lunga o corta, potrà vincervi in magnificenza.
Shall. Vi darà centocinquanta lire di dote.
An. Buon messer Shallow, lasciatelo fare l’amore da se stesso.
Shall. In verità, vi ringrazio di ciò; vi ringrazio di questo buon consiglio. Ella vi chiama, cugino: io vi lascio.
An. Dunque, messer Slender?
Slend. Dunque, buona miss Anna?
An. Qual è il voler vostro?1
Slend. Il mio volere? È una leggiadra burla infatti! Non per anco espressi la mia volontà, grazie al Cielo, nè mi sento tanta infermo da volerlo fare per ora.
An. Intendo, messer Slender, quel che volete da me.
Slend. Veramente poco o nulla io voglio di voi. Vostro padre e mio zio hanno accordato insieme qualche negozio: se riescono, bene; se no, me ne consolo. Essi possono dirvi, meglio di me, come vanno le bisogne. Volete chiederne a vostro padre, che s’avanza? (entrano i coniugi Page)
Page. Ebbene, messer Slender? Amatelo, figlia Anna. — Che fai qui, messer Fenton? Voi mi oltraggiate, signore, frequentando così la mia casa: io già vi dissi che mia figlia non era per voi.
Fen. Calmatevi, messer Page.
Miss. Page. Buon messer Fenton, non venite da mia figlia.
Pag. Ella non è per voi.
Fen. Signore, volete ascoltarmi?
Pag. No, signor Fenton. — Andiamo, amico Shallow: andiamo, figlio Slender. Conoscendo le mie disposizioni, voi mi oltraggiate, signor Fenton. (esce con Shall. e Slend.)
Quick. Parlate a mistress Page.
Fen. Buona mistress Page, l’amore ch’io porto a vostra figlia, e le intenzioni onorevoli che nutro per lei, m’insegnano a tollerare così cattivi trattamenti. Persevererò nel mio amore, checchè me ne avvenga. Voi pietosa, degnatevi aiutarlo!
An. Ottima madre, non mi accoppiate a quel giovine sciocco.
Mis. Page. Non è mio intento; vi troverò un miglior marito.
Quick. Questi è il mio padrone, l’ottimo dottore.
An. Oimè! vorrei prima esser sepolta viva, che sposarlo.
Mis. Page. Venite, calmatevi. Buon messer Fenton, io non vi sarò nè amica, nè nemica: interrogherò mia figlia sui suoi sentimenti, e le sue inclinazioni influiranno non poco sulla mia scelta. Per ora, addio, signore: ella deve entrare per non far andar in collera suo padre. (esce con Anna)
Fen. Addio, gentile mistress; addio, mia Anna.
Quick. Ora tocca a me. — Come! gli dirò io, vorrete voi vendere vostra figlia a un medico, o ad uno stolto? Scegliete messer Fenton. — Così dirò.
Fen. Te ne ringrazio; e ti prego di dar stassera questo anello alla mia dolce fanciulla. — Eccoti per le tue opere. (esce)
Quick. Il Cielo ti faccia felice! Che buon cuore egli ha! una donna correrebbe fra il fuoco e l’acqua per ottenere un cuor sì buono. Nondimeno vorrei che il mio signore avesse miss Anna, o se non lui, messer Slender; o se non Slender, Fenton. Farò quanto posso per tutti e tre; perchè così ho promesso, e voglio osservar la mia parola; ma adopriamoci sopra tutto in favore di quest’ultimo. Ah! ah! debbo recare un altro messaggio a sir Giovanni Falstaff per parte delle dame, e sto qui da bestia cianciando fra di me! (esce)
SCENA V.
Una stanza nell’albergo della Giarrettiera.
Entrano Falstaff e Bardolfo.
Fal. Bardolfo, dico...
Bard. Eccomi, signore.
Fal. Va a cercarmi un fiasco di vino e due capponi arrosto. (Bard. esce) Son io vissuto tanto tempo per dover entrare in un cesto come carne da beccaio, e per esser gettato nelle fosse del Tamigi? Bene; se mai più servirò a cotal beffa vuo’ mi si facciano saltare le cervella, e siano date a’ cani per strenna. I malandrini mi cacciarono nell’acqua con così poca mansuetudine con quanta vi avrebbero gettato i parti novelli di una bestia: dalla mia persona si può argomentare fino a quale profondità io sia giunto: se l’imo di quella pozzanghera fosse stato in giù come l’inferno, l’avrei toccato. Fortunatamente trovai uno sterpo, senza di cui mi sarei annegato; morte che abborro; avvegnachè l’acqua gonfi l’uomo, e non si possa imaginar quello ch’io sarei divenuto, se mi fossi gonfiato! Io allora sarei sembrato la mummia di un alto monte. (rientra Bardolfo col vino)
Bard. Vi è mistress Quickly, signore, che vorrebbe parlarvi.
Fal. Lascia prima che mescoli un po’ di vino all’acqua del Tamigi; perchè il mio ventre è freddo, come se avessi inghiottite palle di neve per farmaco, onde rinfrescarmi le reni. Ora chiamala.
Bard. Entrate, donna. (entra mistress Quickly)
Quick. Con vostro permesso vi chiedo misericordia. — Do il buon giorno a Vostra Signoria.
Fal. Porta via questi calici: recami un altro fiasco.
Bard. Con uova, signore?
Fal. No, da sè; non vuo’ germi di pollo fra le mie bevande. (Bard. esce) Ebbene?
Quick. Tengo, signore, per parte di mistress Ford.
Fal. Di mistress Ford! Ne ebbi abbastanza di tali ford2; mi tuffai in essi e ne ho il ventre fracido.
Quick. Oimè, giorno sciagurato! Non fu colpa della povera signora: ella ne rimproverò i suoi uomini che intesero tanto male i di lei comandi.
Fal. Io pure m’ingannai, fidandomi alle promesse di una femmina.
Quick. Ah, signore, ella ne è desolata. Suo marito va questa mattina a caccia; ella vi scongiura di venire un’altra volta da lei fra le otto e le nove: mi ha commesso di dirvelo, e intende di ricompensarvi di tutto il male patito.
Fal. Bene, andrò a lei: diglielo, e fa che mediti sulla dignità dell’uomo: fa che consideri la sua fragilità, e giudichi quindi il mio valore.
Quick. Così farò.
Fal. Sta bene. Fra le nove e le dieci, dicesti?
Quick. Fra le otto e le nove, signore.
Fal. Non mancherò.
Quick. Pace sia con voi! esce)
Fal. Stupisco di non vedere messer Brook: ei m’aveva detto d’aspettarlo, ed ho molta affezione al suo denaro. Oh! eccolo appunto. (entra Ford)
Ford. Vi saluto, signore!
Fal. Ebbene, messer Brook? Voi venite per saper quello che è accaduto fra me e madonna Ford, non è vero?
Ford. Appunto, sir Giovanni, per ciò vengo.
Fal. Messer Brook, non vi ingannerò; io ero in casa sua all’ora prescritta.
Ford. E come riesciste, signore?
Fal. Molto male, messer Brook.
Ford. Come mai? Mutò ella proposito?
Fal. No, ser Brook; ma quel lepre che la gelosia tien desto, quel suo marito, sopravvenne appunto un istante dopo che ci eravamo abbracciati e protestato scambievolmente il nostro affetto. Terminato appena tal prologo, giunse l’Atteone con una frotta di malnati da lui raccolti, che venivano in traccia dell’amante di sua moglie.
Ford. Come! mentre voi eravate là?
Fal. Mentre io era là.
Ford. E vi cercò egli senza potervi trovare?
Fal. Uditemi. Per buona fortuna alcuni minuti prima era giunta mistress Page, che ne aveva prevenuti dell’arrivo di Ford, ond’io per di lei consiglio, mentre l’altra era tutta turbata, entrai in un cesto da biancheria.
Ford. In un cesto!
Fal. Sì, pel Signore! in un cesto: e dopo essere stato coperto di camicie, calze, mantili e lenzuola sucide e brutte, lui.. non se ne parli altro.
Ford. E quanto rimaneste là?
Fal. Udite, messer Brook, quel che ho sofferto per indurre, per ben vostro, quella donna al male. Essendo così soffocato in nel cesto, una coppia di furfanti di Ford furono chiamati dalla loro signora, onde trasportarmi come biancheria immonda alle fosse dell’imbianchitrice: essi mi presero in spalla, e non avevamo ancora varcata la soglia, allorchè il geloso marito ci si fa incontro, e chiede parecchie volte che cosa si contenesse nel cesto: io tremava a verga a verga, imaginando che il bizzarro sospettoso non volesse frugarvi; ma il fato, che lo vuole coperto di disonore, gli rattenne la mano: quindi egli inoltrò da una parte per le sue ricerche, io esciì dall’altra. Ora seguite il filo, messer Brook. Io soffrivo le angoscio di tre morti differenti: prima un’intollerabile tema di essere scoperto dal nostro animale geloso; poi l’agonia di un cruciato, rattorto dalla testa ai piedi come una lama di Spagna; infine il pericolo di restare affogato sotto l’impuro fardello che mi opprìmea. Imaginate un uomo della mia pinguedine posto sotto tal torchio: imaginatelo; e ditemi se non fu miraci che io escissi a salvamento. Poi nell’istante del massimo calore, allorchè come burro e neve mi disfacevo, sento un movimento... ed eccomi gettato nel Tamigi, sommerso in un fiume agghiacciato, e ciò nel momento proprio in cui il mio corpo fumava come una fornace! Pensate a questo, messer Brook.
Ford. In verità, signore, son dolente che per mia cagione abbiate patito tanto; le mie preghiere, lo veggo, son disperate: e voi non intraprenderete più nulla.
Fal. Messer Brook, vorrei essere gettato entro l’Etna, come lo sono stato nel Tamigi, prima di abbandonare siffatta impresa. Suo marito è andato questa mattina a caccia: ho ricevuto da lei un’altra ambasciata, e fra le otto e le nove dobbiamo vederci.
Ford. Le otto son già passate, signore.
Fal. Veramente? Mi appresterò dunque pel mio ritrovo. Venite da me con vostro agio, e saprete qual esito ho ottenuto: la conchiusione di tutto ciò sarà il vostro possedimento di lei. Addio voi l’otterrete, messer Brook; messer Brook, voi disonorerete Ford. (esce)
Ford. Oh! è questa una visione? è questo un sogno? Dormo io? Ford, svegliati; svegliati, Ford; il tuo miglior abito, Ford viene cincischiato. Ecco cos’è il matrimonio! Veh! cosa possono nascondere anche i cesti! — Bene, io dichiarerò me stesso per quello che sono: sorprenderò l’adultero che ora sta in mia casa: ei non potrà sfuggirmi; ciò gli sarà impossibile; quand’anche entrasse in una borsa o in una tazza da caffè, saprei rinvenirlo, e per tutto cercherò. Il diavolo che lo condusse potrebbe soccorrerlo. Poichè non posso evitare di essere quello che sono, la certezza di esserlo non mi farà umano: se il toro è feroce, io che gli assomiglio diverrò furioso. (esce)