Atto V

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Atto IV Appendice
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ATTO QUINTO.

SCENA PRIMA.

Donna Placida e donna Luigia; poi don Isidoro.

Luigia. Non si sa nulla ancora di quel che abbiano fatto?

Placida. Senza l’assenso vostro è vano ogni contratto.
Se anche per don Anselmo fosse soscritto il foglio,
Basta che voi diciate: signore, io non lo voglio.
E se vi manca il cuore, temendo i sdegni suoi,
Io vi sarò in aiuto, io lo dirò per voi.
Non crederei....
Luigia.   Chi viene?
Placida.   Don Isidoro.
Luigia.   Io spero
Ci darà delle nuove.
Placida.   Basta che dica il vero.

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Isidoro. M’inchino a queste due degnissime sorelle.

Luigia. Vi è novitade alcuna?
Isidoro.   Ne porto delle belle.
L’istoria è graziosa; udir se la volete,
Porgetemi l’orecchio e non m’interrompete.
Dopo che don Anselmo ebbe con voi quel certo
Battibuglio rissoso, corse a trovar don Berto.
Disse che donna Placida volea darvi marito,
Ch’era don Sigismondo un pessimo partito,
Che alfine una nipote dal zio dovea dipendere,
E che l’arbitrio in questo vi si dovea contendere.
Don Berto che in sua vita non disse mai di no,
Dissegli: Sì signore, io lo contenderò.
Soggiunse don Anselmo: Alla figliuola audace
Si vede che lo stato di libera non piace.
Onde di collocarla dee accelerarsi il dì;
Don Berto, maritatela. Ed egli: Signor sì.
Per se voleva chiedervi il celebre volpone,
Ma avea nello scoprirsi non poca soggezione.
Disse: Lasciate fare, che il ciel provvederà;
Ritroverò un partito che a lei si converrà.
Per zelo d’amicizia di faticar prometto.
Mi permettete il farlo? Ed ei: Ve lo permetto.
In questo, a noi si vede venir don Sigismondo;
Appena ci saluta, pareva un furibondo.
Rivolgesi a don Berto, gli chiede la fanciulla.
Egli confuso al solito, restò senza dir nulla.
Pretende don Anselmo di dir la sua ragione;
Quell’altro arditamente parla, contrasta, oppone.
Si scaldano i rivali. Uno ha il bastone in mano,
L’altro una sedia, e in questo arriva il capitano.
Trema il vecchio in vederlo; quell’altro prende fiato;
Don Berto si confonde; io tiromi da un lato.
Il capitan chiamato a dare il suo giudizio,
Dice che non è cosa da farsi a precipizio.

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Vuol che si prenda tempo, e tutti han consigliato

Di mettere la cosa in man di un avvocato.
Don Berto, che cercava d’avere un qualche aiuto,
Mandò a cercar don Fausto. Don Fausto è alfin venuto.
Ed ei ch’è buon legale, disse in una parola:
Sentiam prima di tutto l’idea della figliuola.
Allora don Anselmo, gli occhi levando al cielo,
Disse: Per lei m’ispira la caritade, il zelo.
Prima che mal si perda la giovane amorosa,
Don Berto, il ciel m’aiuti, ve la domando in sposa.
Fuori di sè il buon zio, quando tal cosa udì,
Prese la penna in mano, e disse: Signor sì.
Ma tutti a lui si opposero, e l’avvocato allora
Replicò: Che si senta l’idea della signora.
Ebb’io la commissione di rendervi avvisata,
E siete dal consesso in camera aspettata.
Però quel vecchio astuto, tiratomi in disparte,
Mi pregò di adoprare con voi l’ingegno e l’arte,
Per persuadervi a scegliere lui sol per vostro sposo,
Dicendovi che l’altro è sciocco e difettoso.
Ma sono un galantuomo, e dicovi col cuore,
Che s’uno è mal partito, quest’altro è ancor peggiore.
Placida. Affè, don Isidoro, bizzarra è la novella;
E degna di un teatro codesta istoriella.
Luigia. Anzi che don Anselmo, ch’è l’uom più rio del mondo,
Certo son io disposta pigliar don Sigismondo.
Ma per dir schiettamente quel che ho nel cor celato,
Darei la man di sposa piuttosto all’avvocato.
Placida. (Questo poi no, lo giuro). (da sè)
Isidoro.   Certo saria un bel scherzo,
Che or fra i due litiganti vi guadagnasse il terzo.
L’idea non mi dispiace. Voglio provarmi, affè.
Vo’ parlare a don Fausto, fidatevi di me.
(in atto di partire)
Placida. No, non v’incomodate. (a don Isidoro, trattenendolo)

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Luigia.   Lasciate ch’egli vada.

(a donna Placida)
Isidoro. Con due parole buone vi spianerò la strada.
Gli parlerò in disparte. Son galantuomo onesto.
Principierò il negozio, voi compirete il resto.
Placida. Eh, che don Sigismondo...
Isidoro.   Eh, che va ben così.
Gli dico due parole, e ve lo mando qui.
Don Sigismondo alfine di mente è difettoso.
(Don Fausto è più corrente, più ricco e generoso).
(da sè, e parte)

SCENA II.

Donna Placida e donna Luigia.

Placida. (Questa ci mancherebbe!) (da sè)

Luigia.   Sorella, a quel ch’io vedo,
Preme a voi pur don Fausto. L’amate? io ve lo cedo.
Placida. Me lo cedete? infatti grand’obbligo vi devo!
Che fosse cosa vostra don Fausto, io non credevo.
Luigia. Don Fausto cosa mia? Voi mi mortificate.
Placida. Ei non è cosa vostra, e cederlo vantate?
Luigia. Lo dissi all’impazzata, senza pensarvi su.
Lo so che dissi male, non parlerò mai più.

SCENA III.

Paoluccio e dette.

Paoluccio. Signore, tutte due vi aspettano di là.

Placida. È lo zio che mi cerca?
Paoluccio.   Per dir la verità,
Chiamar donna Luigia ei sol mi ha incaricato;
Ma quel che vi desidera, signora, è l’avvocato.
Placida. Andate voi, germana, non serve ch’io ci venga;
Senza di me, puol essere da voi che più si ottenga.

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Dite che siete libera nell’accettar partito:

Tre sono i concorrenti. Sceglietevi il marito.
Luigia. Son tre? Don Isidoro teste mi ha rinonziato.
Placida. Eh, son tre, sì signora; il terzo è l’avvocato.
Paoluccio. Cosa ho da dir, signore?
Placida.   Dirai ch’ella verrà,
E se don Fausto chiede...
Paoluccio.   Don Fausto, eccolo qua.
Placida. Sentendo il genio vostro, ei viene a bella posta.
(a donna Luigia)
Paoluccio. Dunque al signor don Fausto darete la risposta.
(parte)

SCENA IV.

Donna Placida, donna Luigia, poi don Fausto.

Placida. Accelera don Fausto per voi la sua venuta;

Mi rallegro che siate la bella combattuta.
Luigia. Non so che dir, germana; perchè non vi lagniate,
Parto senza vederlo.
Placida.   No, no, vo’ che restiate.
Luigia. E poi?...
Placida.   Fate ogni sforzo, che farlo io vi permetto.
(Vedrò se sia quel core volubile in affetto). (da sè)
Fausto. Eccomi d’ambedue sollecito al comando.
Placida. Cercavi mia germana; per me non vi domando.
Fausto. Due pretensor discesi nell’amoroso agone,
Attendon della pugna da voi la decisione.
D’ambi vi è noto il merto, d’ambi l’amor vi è noto:
Arbitra di voi stessa, date al più degno il voto.
(a donna Luigia)
Placida. Via, rispondete ai detti del mediatore, amico.
(a donna Luigia)
S’ella per rossor tace, io il suo pensier vi dico.

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Nell’amorosa arringa, a cui l’un l’altro è accinto,

Un pretensore occulto senza parlare ha vinto.
Soffrano i due rivali, se avversa a lor si mostra;
Li ha combattuti amore, e la vittoria è vostra.
(a don Fausto)
Fausto. Gioco di me prendete? (a donna Placida)
Luigia.   (Ah, mi palpita il cuore).
(da sè, mortificandosi)
Placida. Prova di quel ch’io dico, mirate in quel rossore.
(a don Fausto, accennando donna Luigia)
Fausto. Ah, se mai fosse vero che ardesse ai lumi miei,
Della gentil donzella più molto arrossirei;
Arrossirei scorgendomi indegno del suo cuore,
Di renderle incapace amore per amore.
Luigia. (Dunque l’impresa è vana). (da sè)
Placida.   Perchè cotanto ingrato?
(a don Fausto)
Fausto. Perchè ad amor più tenero mi vuol costante il fato.
Il cuor serba gli affetti, serba gl’impegni suoi,
E dubitar potriane ognun fuori di voi.
Luigia. (Si amano, a quel ch’io sento. Non m’ingannò
il pensiero).
(da sè)
Placida. Ella di voi lusingasi. (a don Fausto)
Luigia.   No, signor, non è vero.
Non ho di donna Placida lo spirito e il talento;
Ma semplice qual sono, so dir quello ch’io sento.
Certo che più d’ogni altro vi stimo e vi rispetto,
Per voi però non giunsi a accendermi d’affetto,
E quel che far potrebbe l’amabile catena,
Fare non pon quegli occhi che ho contemplati appena.
Gli accenti e i dolci sguardi veggo e conosco anch’io,
Non cedo alla germana un cuor che non è mio.
Ma lasciola in possesso, ed il mio cuore inclina
Ad accettar lo sposo che il cielo a me destina. (parte)

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SCENA V.

Donna Placida e don Fausto.

Placida. (Sotto i placidi sdegni cela d’amore il foco). (da sè)

Fausto. (L’amor della germana mi somministra un gioco).
(da sè)
Placida. Miraste, come facile al suo destin s’accheta?
Quanto è di me Luigia più docile e discreta?
Di lei ditemi franco quello che il cuor vi dice.
Fausto. Dicemi che fia d’essa il possessor felice.
Placida. Tanta felicitade perder non vi consiglio.
Fausto. Amor dalla sua reggia condannami all’esigilo.
Placida. Qual Proteo amor sicangia, e regna in più d’un petto:
La reggia ha del piacere, ha quella del dispetto.
Se vi esiliò da un cuore, ove tiranno impera,
V’invita alla sua sede più dolce e men severa.
Fausto. Siano le antiche leggi dure, penose e gravi,
Mi tiene alla catena chi ha del mio cuor le chiavi;
E libertà quest’alma invan cerca e pretende,
Finchè un amor tiranno al mio piacer contende.
Placida. Poss’io nulla a pro vostro?
Fausto.   Ah, sì, tutto potete.
Placida. Ite a miglior destino, che libero già siete.
(s’allontana, e in distanza siede)
Fausto. Ho in libertade il piede? grazie, pietoso amore.
Ma dove andar io spero, se ho fra catene il core?
Veggo chi mi discaccia. Conosco a che m’invita.
Sarà del laccio il fine il fin della mia vita.
Ma o non intendo il bene che amor farmi destina,
O vuol l’ostinazione formar la mia rovina.
Scuotasi il giogo alfine che amor m’impose al dosso.
Fuggasi il crudel regno. Ah, che fuggir non posso.
(mostra voler partire, si allontana, ed abbandonasi sopra una sedia distante.

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Placida. (Non sa partir l’ingrato). (guardandolo sott’occhio)

Fausto.   (Parmi che in cuor patisca).
(da sè, guatandola)
Placida. (Non me lo tolga amore). (da sè, con passione)
Fausto.   (Amor l’intenerisca).
(da sè, con passione)
Placida. Sì lento si va incontro a un dolce amor che invita?
(a don Fausto)
Fausto. Eccomi ad incontrare quel ben che amor mi addita.
(s’alza impetuosamente, e corre da donna Placida)
Placida. Amor non è più meco; è in sen della germana.
Fausto. Quanto a ingannare è pronta una lusinga insana!
(si scosta)
Placida. Via, perchè non correte a porgerle la destra?
Fausto. Siete voi, donna Placida, d’infedeltà maestra?
Placida. Sì, son io che v’insegna a superar del cuore
Gli stimoli importuni, l’inutile rossore.
Fausto. L’insegnamento è dubbio, l’eseguirò allor quando
Voi me lo comandiate.
Placida.   Andate, io vel comando.
Fausto. Deggio obbedir la legge. (si allontana a poco a poco)
Placida.   (Mi lascia il traditore).
(da sè)
Fausto. Vuol obbedirvi il piede, ma nol consente il core.
(volgendosi a lei, e ponendosi smaniosamente a sedere)
Placida. (Ah no, mi ama davvero). (da sè, guardandolo un poco)
Fausto.   (Par che sereni il ciglio).
(da sè, guardandola)
Placida. (Ah, che pur troppo io vedo la libertà in periglio).
(da sè)
Fausto. Chi mai di donna Placida, chi mai l’avria creduto,
Che ad altri mi cedesse? (in maniera di farsi sentire)
Placida.   Come? v’ho io ceduto?
(alzandosi verso di lui)
Fausto. Non è ver? (alzandosi, ma fermo al suo posto)

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Placida.   Non è vero. (facendo qualche passo)

Fausto.   Dunque quel cor mi adora.
(tenero, e fermo al suo posto)
Placida. Gli arcani del mio core non vi ho scoperto ancora.
(torna a sedere)
Fausto. (Cederà a poco a poco). (da sè, sedendosi)
Placida.   (Amore, ah sei pur tristo!)
(da sè)
Fausto. (Tentisi un nuovo assalto). (da sè)
Placida.   (Se dura, io non resisto).
(da sè)
Fausto. Il mio dover mi chiama, esige il mio rispetto,
Che a riferire io vada qual sia lo sposo eletto.
Placida. Ite da mia germana. Ella che il può, lo dica.
Fausto. Rassegnata è al destino. D’obbedienza è amica.
L’arbitrio è in vostra mano. Partendo il confermò.
Placida. Ch’ella don Fausto ha scelto, manifestar si può.
Fausto. Lo comandate voi? (alzandosi lentamente)
Placida.   Non vel comando, ingrato.
(alzandosi con dell’impeto)
Fausto. Se voi mel comandaste, sarei pur sfortunato!
Placida. Però vi adattereste ad obbedir tal cenno.
Fausto. Non ho sì falso il core, non ho sì corto il senno.
Placida. Lodaste pur mia suora.
Fausto.   Dovea lingua villana
Sprezzar donna Luigia in faccia a una germana?
Placida. Barbaro! discortese!
Fausto.   Or perchè m’ingiuriate?
Placida. Perchè la libertade di togliermi tentate.
Fausto. Se amore ai labbri miei tanto poter concede
Per meritar gli insulti, eccomi al vostro piede.
(s’inginocchia)
Placida. Alzatevi.
Fausto.   Non posso.
Placida.   Alzatevi.

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Fausto.   La mano.

Placida. (Misera me!) Lasciatemi.
(dopo averle data la mano per sollevarlo, don Fausto seguita a tenerla stretta.
Fausto.   Voi lo sperate invano.
Placida. Per pietà!
Fausto.   No, mia vita.
Placida.   Lasciami, traditore.
Fausto. Se questa mano io lascio, mi donerete il cuore?
Placida. Oimè!
Fausto.   Sì, mio tesoro, vedo che amor mi aiuta.
Placida. Prendi la mano e il cuore: misera! io son perduta.
Fausto. Perdite fortunate, che vagliono un tesoro.
Placida. Vien gente a questa volta. Si salvi il mio decoro.
Fausto. Cedere un cuore onesto vi par sia riprensibile?
Placida. Dunque ho il mio cor ceduto? ancor parmi impossibile.

SCENA VI.

Don Berto, don Sigismondo, don Ferramondo, don Anselmo, don Isidoro e i suddetti.

Berto. Voi ci avete piantati per non tornar mai più.

(a don Fausto)
Fausto. Parlai colla fanciulla.
Berto.   E ben, che cosa fu?
Fausto. Ella a voi si rimette.
Anselmo.   Egli a me la concede.
(a don Fausto, parlando di don Berto)
Sigismondo. Parli donna Luigia; a lei si presti fede.
Ferramondo. Dica liberamente la figlia il suo pensiero.
Fausto. Pria la maggior germana si può sentire.
Berto.   È vero.
Dite l’opinion vostra. Il punto lo sapete.
(a donna Placida)
Placida. So tutto, signor zio. Dirò, se il permettete.

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Venga donna Luigia, vengano i servitori, (verso la scena)

Berto. Vengano tutti quanti.
Placida.   Uditemi, signori.
Sempre fra due rivali vi è quel che merta più.
Abbia la sposa in dono colui che ha più virtù.
Far non pretendo un torto: sono di tutti amica.
Chi ha più virtù e più merito, vo’ che la prova il dica.
So che don Sigismondo è un cavalier perfetto,
Degnissimo, malgrado a un picciolo difetto.
Soggetto è alle astrazioni, ma questa è poca cosa.
È il cuor che fortunata può rendere una sposa.
Don Anselmo per altro a gloria sua conviene
Dir che nessun l’eguaglia nell’essere dabbene,
Nella virtù esemplare che gli uomini governa,
E nell’usare a tutti la carità fraterna.
Eccovi un chiaro esempio dell’opere sue belle;
Impiega ogni suo studio a maritar donzelle.
Don Berto più di tutti può dir se a questo inclini,
Ei che gli diè per una teste cento zecchini.
Berto. È vero, io non lo dico altrui per vanità:
Sia detto a gloria sua, questa è la verità.
Placida. Che dice don Anselmo?
Anselmo.   Per me non dico nulla.
Placida. A noi lo potrà dire la povera fanciulla.
Venga avanti, signora. (verso la scena)

SCENA VII.

Clementina, Paoluccio e detti.

Clementina.   Sono io la chiamata?

Placida. Ecco, signor don Berto, la sua beneficata:
La semplice zitella, ch’era in un gran pericolo
D’essere rovinata.
Clementina.   Piano su questo articolo.
Non sono una sfacciata.

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Berto.   La dote a Clementina?

(a don Anselmo)
Anselmo. Se non si soccorreva, era a perir vicina.
Clementina. Il danar non l’ho avuto.
Placida.   Deesi svelar perchè;
E s’altri non lo dice, si ha da saper da me.
La caritade, il zelo ch’anima l’impostore,
È di donna Luigia il mascherato amore.
Il perfido per questo offre a costei la dote,
E fa pagar dal zio le insidie alla nipote.
Ecco l’uomo dabbene...
Anselmo.   Quel labbro è menzognero.

SCENA VIII.

Donna Luigia e detti.

Luigia. Sì, don Anselmo è un perfido, è innamorato, è vero.

Ecco chi può saperlo. (a Clementina)
Clementina.   Ma il danar non l’ho in mano.
Berto. Cosa ho da far, signori?
Placida.   Lo dica il capitano.
Anselmo. Non signor, non s’incomodi di dar la sua sentenza.
Confesso che ho fallato, farò la penitenza.
Ecco i cento zecchini. Non ho pretensioni.
Ah, voi mi rovinaste! Il ciel ve lo perdoni, (parte)
Berto. Ma io resto di sasso.
Ferramondo.   Passarsela non speri.
Lo farò bastonare da quattro granatieri.
Fausto. No, signor capitano; domani dallo stato
Farò che dal governo sia colui esiliato.
Berto. Povero don Anselmo!
Placida.   Il falso bacchettone
Ancor vi sta sul cuore? (a don Berto)
Berto.   No, no, avete ragione.

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Placida. Vada le mille miglia l’empio lontan da noi,

E vada anche la serva a fare i fatti suoi.
Berto. Vada la serva ancora.
Clementina.   Pazienza. Paoluccio,
Di’, mi vorrai più bene?
Paoluccio.   Eh, non son così ciuccio.
(parte)
Clementina. Domandovi perdono. Povera Clementina!
Venuto è un impostore a far la mia rovina.
Tardi averò imparato a spese mie, signori:
La dote guadagnarla dobbiam con i sudori.
Quando è male acquistata, il ciel così destina.
In semola va tutta del diavol la farina. (parte)
Berto. Cose, cose... son cose da perdere il cervello.
Placida. Che fa don Sigismondo? Si perde in sul più bello.
Eccolo astratto in guisa che pare un insensato.
Dico: don Sigismondo.
Sigismondo.   Son qui. Chi m’ha chiamato?
Placida. In mezzo a tanti strepiti siete in distrazione?
Sigismondo. Di rimanere estatico non ho forse ragione?
Pieno di tristi è il mondo. In che stagion mai siamo?
Appunto. Che risolve la giovane ch’io bramo?
Placida. A voi, donna Luigia.
Luigia.   Germana, io non dispongo.
Placida. Il signor zio che dice?
Berto.   Figliuola, io non mi oppongo.
Placida. Dunque la man porgete al cavalier che vi ama.
Luigia. Ecco la man.
Sigismondo.   Sì, cara, contenta è la mia brama.
Berto. Alfin voi mi lasciate, nipote mia carissima;
Siete contenta almeno?
Luigi.   Signor, son contentissima.
Berto. Ed io resterò solo? Voi pure abbandonarmi?
Voi nel ritiro andrete? (a donna Placida)
Placida.   Non penso a ritirarmi.

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Berto. Che? vi è venuto in mente qualche miglior partito?

Placida. Non so. (guardando don Fausto)
Berto.   Cosa ha risolto? (a don Fausto)
Fausto.   Di prendere marito.
È ver?
Placida.   Potrebbe darsi.
Ferramondo.   Ed è meco impegnata,
Quando amor la consigli.
Placida.   Mi avete innamorata?
(a don Ferramondo)
Ferramondo. Tempo non ebbi a farlo; ma di arrivarvi io stimo.
Placida. Dissi, vel rammentate, chi m’innamora è il primo.
Di conseguir tal forza un altro ebbe la sorte.
M’innamorai, son vinta, don Fausto è mio consorte.
Ferramondo. Come! a me sì gran torto?
Placida.   Di un torto vi dolete?
Che colpa han gli occhi miei, se voi non mi piacete?
Dovea forse più a lungo soffrire un tal cimento?
Vi è noto, che si accendono le fiamme in un momento?
Lo sa chi mi possiede, lo sa quanto ha costato
Alla sua sofferenza l’avermi innamorato;
E quel che non poterono lunghi sospiri e duolo,
Non vi saprei dir come potuto ha un punto solo.
Se la ragion vantate, se cavalier voi siete,
Perdono, a chi vi stima, concedere dovete;
E rilevando il vero che puramente io dico,
Esser di me qual foste, e di don Fausto amico.
Ferramondo. Non so che dir, conosco che mi vien fatto un torto
Da una donna di spirito, l’ammiro e lo sopporto.
Placida. (Poco non è, che il fiero siasi a ragion calmato)
(da se)
Luigia. (Ora sarà contenta, alfin se l’ha pigliato.) (da sè)
Berto. Eccovi spose entrambe, io povero sgraziato
Eccomi solo in casa da tutti abbandonato.
Cospetto! se mi salta, anch’io prendo una moglie.

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Placida. Signor, se l’aggradite, nol stiamo in queste soglie.

Don Fausto avrà piacere di rimanervi allato.
Fausto. In me, signore, avrete un servo e un avvocato.
Berto. Bene, restate meco; alla minor nipote
Darò, qual si conviene, giustissima la dote.
E voi che siete stata, e siete una gran donna,
Di tutta casa mia vi fo donna e madonna.

SCENA ULTIMA.

Don Isidoro e i suddetti.

Isidoro. Che vivano gli sposi. So tutto e mi consolo.

Mandai otto pernici a comperar di volo.
Il pane abbrustolito stamane andò in malora,
A cena questa sera sarà più buono ancora.
Placida. Signor, son maritata. Anch’io, come vedete,
Resto padrona in casa col zio, se nol sapete.
Scrocchi non ne vogliamo. Vi venero, vi stimo;
Ma voi di questa casa ve n’anderete il primo.
Isidoro. Don Berto, cosa dite?
Berto.   Oh, lascio fare a lei.
Isidoro. Non mancano le case, signora, ai pari miei.
M’avrà don Sigismondo amico e servitore.
Sigismondo. Sì, un servitor trovatemi, mi farete favore,
Un braccier per la sposa.
Isidoro.   Io, io la servirò.
Luigia. Scrocchi per casa mia? Rispondo, signor no.
Isidoro. Tavola a me non manca, non manca compagnia.
(Dove comandan donne, vi è troppa economia.
Lo troverò ben io, lo troverò sì certo
Un altro baccellone, compagno di don Berto).
(da sè, e parte)
Placida. A compiere le nozze andiam col rito usato.
L’amore e la concordia a noi conservi il fato.

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Lungi dai tetti nostri gli scrocchi e gl’impostori,

Che son delle famiglie nemici e seduttori.
Grazie alla sorte amica, la casa ha ben ridotta
Un poco di buon spirito, un poco di condotta.
In una sola cosa lo spirto mi è mancato;
Volea la libertade, e alfin mi ho innamorato.
Questo è quel passo forte, a cui gli spirti umani
Resistere non possono che standovi lontani.
Io coraggiosa e forte, costante e prevenuta,
Fidando di me stessa, coll’altre son caduta.
Spero però felice non meno il mio destino:
Godo di aver per sempre tal sposo a me vicino;
E goderò più molto, se chi mi ascolta e vede,
A noi degli error nostri grazia e perdon concede.

Fine della Commedia.

Note