Nell’amorosa arringa, a cui l’un l’altro è accinto,
Un pretensore occulto senza parlare ha vinto.
Soffrano i due rivali, se avversa a lor si mostra;
Li ha combattuti amore, e la vittoria è vostra.
(a don Fausto)
Fausto. Gioco di me prendete? (a donna Placida)
Luigia. (Ah, mi palpita il cuore).
(da sè, mortificandosi)
Placida. Prova di quel ch’io dico, mirate in quel rossore.
(a don Fausto, accennando donna Luigia)
Fausto. Ah, se mai fosse vero che ardesse ai lumi miei,
Della gentil donzella più molto arrossirei;
Arrossirei scorgendomi indegno del suo cuore,
Di renderle incapace amore per amore.
Luigia. (Dunque l’impresa è vana). (da sè)
Placida. Perchè cotanto ingrato?
(a don Fausto)
Fausto. Perchè ad amor più tenero mi vuol costante il fato.
Il cuor serba gli affetti, serba gl’impegni suoi,
E dubitar potriane ognun fuori di voi.
Luigia. (Si amano, a quel ch’io sento. Non m’ingannò
il pensiero).
(da sè)
Placida. Ella di voi lusingasi. (a don Fausto)
Luigia. No, signor, non è vero.
Non ho di donna Placida lo spirito e il talento;
Ma semplice qual sono, so dir quello ch’io sento.
Certo che più d’ogni altro vi stimo e vi rispetto,
Per voi però non giunsi a accendermi d’affetto,
E quel che far potrebbe l’amabile catena,
Fare non pon quegli occhi che ho contemplati appena.
Gli accenti e i dolci sguardi veggo e conosco anch’io,
Non cedo alla germana un cuor che non è mio.
Ma lasciola in possesso, ed il mio cuore inclina
Ad accettar lo sposo che il cielo a me destina. (parte)