Atto IV

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Atto III Atto V
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ATTO QUARTO.

SCENA I.

Donna Placida e Clementina.

Clementina. Signora, ho da parlarvi di cosa che mi preme,

E ho piacer non siavi l’altra sorella insieme.
Placida. Che sì, che l’indovino di che parlar mi vuoi?
Clementina. Nessuno indovinarlo potria meglio di voi.
Foste fanciulla un tempo, siam del medesmo sesso:
Quel che per voi bramaste, io per me bramo adesso.
Placida. Marito?
Clementina.   Sì signora; ma non senza quattrini.
Placida. Dicono che di dote avrai cento zecchini.
Clementina. Già so che Paoluccio, senza pensarvi su,
Vi ha detto qualche cosa passata a tu per tu.
Cento zecchini infatti!... e quel che me li dà,
Senza malizia alcuna, lo fa per carità.

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Anzi, nè io conosco quel che li mette fuora,

Nè sa il benefattore qual sia la sposa ancora.
Vi è una persona in mezzo, persona di proposito,
Che ha in mano i cento ruspi tenuti per deposito;
Ma il galantuom nemmeno vuol esser nominato,
Ed io di non parlare promisi, ed ho giurato.
Ora io sono a pregarvi per noi dirlo al padrone,
Perchè senza contrasti ci dia la permissione.
Placida. Sai che don Berto è facile, che accorda ogni richiesta;
Non ti saprà negare cosa sì giusta e onesta.
Io mi rallegro teco della buona fortuna.
È assai trovar la dote senza fatica alcuna.
Bada ben, Clementina, come e con chi t’impicci;
Bada, pria d’impegnarti, che non vi sian pasticci.
Che poi quell’uom da bene che ti ha beneficata,
Non intendesse un giorno d’averti comperata.
Clementina. Eh, semplice non sono; se avesse tal pazzia...
Ma so che vuol comprare un’altra mercanzia.
Placida. Parlami schietto almeno.
Clementina.   Ne avrei tutto il contento,
Ma favellar non posso, il vieta il giuramento.
Voi lo saprete un giorno. Intanto i miei pensieri
Dite al padron, vi prego.
Placida.   Lo farò volentieri.
Clementina. Dov’è donna Luigia?
Placida.   In stanza ritirata.
Clementina. Deggio andare a trovarla, per farle un’imbasciata.
Placida. Per parte di quel tale che offre i zecchini cento?
Clementina. Oh pensate, signora! non ho tal sentimento.
Per parte di donn’Anna, figlia di don Fabrizio...
Deggio, pria ch’io mi scordi, pregarla di un servizio.
Parlar di certi affari... (affè, l’ho fatta grossa.
Diavolo maladetto! mi ha fatto venir rossa).
(da sè, e parte)

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SCENA II.

Donna Placida, poi don Berto.

Placida. Costei fa qualche imbroglio. Dai segni io la ravviso.

Vanta innocenza meco, e poi si cambia in viso.
È troppo scarsa al mondo la pietà, l’amicizia;
Temo che i cento ruspi non sian senza malizia.
Vuol parlare a Luigia, e la ragion mi asconde;
Le dico un mio sospetto, si turba e si confonde.
Ah, queste serve giovani, dove ci son zitelle,
Non son guardie bastanti a custodir agnelle.
Berto. Oh nipote, ho piacere di ritrovarvi qui.
Parliamo un po’ sul serio, pria che tramonti il dì.
Quando risolto avete d’andare a ritirarvi?
Placida. Son pronta ogni momento.
Berto.   Ed io per contentarvi,
Per darvi, qual bramate, consolazione vera,
Son pronto nel ritiro a chiudervi stassera.
Placida. S’è di già ritrovato?
Berto.   Certo, e obbligazione
Abbiamo a don Anselmo. Ei trovò l’occasione.
Placida. Signore, i vostri cenni solo obbedir mi cale;
Anch’io bramo il ritiro, ma non con mezzo tale.
Pace non mi prometto fra incognite persone,
Qualor mi sia di scorta un falso bacchettone.
Berto. Voi di quell’uom dabbene che opinione avete?
Credetemi, nipote, che voi nol conoscete.
Ha un vero amor per tutti, di voi parlò in maniera
Che si conosce in esso la carità sincera.
Pentito ero, il confesso, di chiudervi sì presto;
Che non fe’, che non disse il galantuomo onesto,
Perchè mi risolvessi di non frappor dimora?
Per voi, per persuadermi, ha faticato un’ora.
Placida. Essere non potrebbe l’amor, la carità,
Timor ch’io gl’impedissi l’usata libertà?

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Piacer di veder sola in casa una fanciulla?

Berto. Oh ciel! che avete detto? oibò; non ne sa nulla.
Non vuol donne. Le donne son per lui tante furie.
Quelle del capitano furon calunnie, ingiurie.
Sentirsi a dir tai cose, tanto l’afflisse e tanto,
Che l’ho veduto io stesso a piangere in un canto.
Placida. Mortificarsi e piangere e lamentar si suole
Ciascun, qualor si sente toccar dove gli duole.
Berto. Oh oh, via, donna Placida. Pensar mal non conviene.
Don Anselmo, vi dico, so io ch’è un uom dabbene.
Placida. Quali nuove ne avete?
Berto.   Ne vedo ogni momento.
Sentitene una fresca, che val per più di cento.
Invigila all’onore di semplici donzelle,
Procura l’uom dabbene di maritar zitelle;
E non saran tre ore che a lui de’ miei quattrini,
Per maritarne una, died’io cento zecchini.
Queste son opre buone.
Placida.   (Che sì, che la sposina
Ch’ebbe i cento zecchini, sarà la Clementina). (da sè)
Berto. Di lui direte male? Ah! dubitar potrete?
Placida. Questa buona zitella, signor, la conoscete?
Berto. Non vuol che alla ragazza sia noto il nome mio,
Nè vuol ch’io la conosca.
Placida.   Saggio costume e pio.
Ma che direste voi se io la conoscessi,
E il nome della giovane e il grado vi dicessi?
Berto. Ne avrei piacer, per dirla.
Placida.   Saperlo a me sortì.
Ma non lo dico adesso; voi lo saprete un dì.
Berto. Che dite or del buon uomo? Non ha un cor che
innamora?
Placida. Tutta la sua bontade non conoscete ancora.
Ora discuopro in esso un zelo, una virtù,
Che l’onestà del cuore giustifica di più.

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Pria che tramonti il giorno, pubblicamente io spero

Che lo conosca ognuno, e che si scuopra il vero.
Berto. Via, ritrattate adunque ogni sospetto insano.
Mi preme soprattutti smentito il capitano.
Andrem con don Anselmo, andrem poscia al ritiro.
Vogl’ire a consolarlo. Nipote mia, respiro. (parte)

SCENA III.

Donna Placida, poi don Isidoro.

Placida. Oh perfido vecchiaccio! la carità l’ispira,

La carità vuol dire che a maritarsi aspira;
E vuole una fanciulla, e impiega per averla
Una serva, ch’ei crede capace a persuaderla.
Ma sopra ogn’altra cosa questa mi par più vaga:
Insidia la nipote, e il zio gli dà la paga.
Isidoro. (Eccola. Andarsi a chiudere? Eh, che non ha tai voglie.
Me la vo’ fare amica, se resta in queste soglie).
(da sè)
Placida. (E più che gli si dice, lo zio non sa 1 niente).
Isidoro. Servo di donna Placida.
Placida.   Serva sua riverente.
(Quest’altra buona pezza). (da sè)
Isidoro.   Ecco, signora mia,
Son venuto a tenervi un po’ di compagnia.
Se fuor bramate uscire, se in casa star volete,
La sera e tutto il giorno di me dispor potete.
Con voi verrò in carrozza, quando non siavi alcuno,
Pronto a cedere il posto liberamente a ognuno.
Alla conversazione mi offro di accompagnarvi,
Partir quando vi aggrada, tornare a ripigliarvi;
Darvi la man, se un altro servente non vi sia;
Seguirvi di lontano, se siete in compagnia.

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E se farete mai qualche secreto accordo,

Sappiate ch’io son muto, sappiate ch’io son sordo.
All’opera con voi venire io vi prometto,
E sola, se bisogna, lasciarvi nel palchetto.
E se trattar doveste qualche segreto affare,
Starò, fin che volete, di fuori a passeggiare.
Non sdegnerò, signora, se voi lo comandate,
Recapitar viglietti, portar delle imbasciate.
Saprò nelle occorrenze servir da secretario,
Sarò con voi di tutto fedel referendario.
Portarvi la mattina saprò le novità
Di quello che succede per tutta la città.
Vedrò nella famiglia se nascon degli errori.
Vi saprò dir la vita de’ vostri servitori.
Del zio, della germana, di quei che vi frequentano,
Tutto vi saprò dire allor che non mi sentano.
Di me dispor potete, potete comandare,
Neè vi darò altro incomodo che a cena e a desinare.
Placida. Bravo, don Isidoro. Tai sono i galoppini,
Che diconsi alla moda serventi comodini.
Vi offendete di questo?
Isidoro.   Oibò, liberamente
Dite quel che volete, che non me n’ho a mal niente.
Se mai andaste in collera, quando quel tal non vi è,
Che il dispiacer vi ha dato, sfogatevi con me.
E siete anche padrona di strapazzarmi un poco,
D’esser fastidiosa quando perdete al gioco.
Posso esibir di più? sarò schiavo in catena,
Nè chiedo in ricompensa che un pranzo ed una cena.
Placida. Dirò, signor servente, di voi son persuasa:
Ma credo di restare per poco in questa casa.
E quando vi restassi, sapete chi è il padrone.
Io comandar non posso. Don Berto è che dispone.
Isidoro. Don Berto, per parlarvi con tutta confidenza,
È un uomo che non ha nè spirito, nè scienza.

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Condur da chi lo pratica si lascia per il naso.

Voi col vostro giudizio sareste il di lui caso.
L’altra sorella vostra è giovine, è fanciulla,
Non sa d’economia, di casa non sa nulla.
Solo di frascherie, di mode è sol maestra,
E son le sue faccende lo specchio e la finestra;
La serva è una pettegola, il servitore è peggio,
Non fanno il lor dovere, e rubano alla peggio.
Vi è poi quel don Anselmo, falsario, bacchettone,
Che domina don Berto, che vuol far da padrone;
Che aspira a un matrimonio colla minor nipote,
Non già per vero affetto, ma sol per la sua dote;
Che sotto un finto zelo sa mascherare il vizio,
E manda dell’amico la casa in precipizio.
Tutta gente cattiva; io che son uom sincero,
Dissimular non posso, e vi discopro il vero.
Placida. Per dir la verità, voi pontuale, esatto,
A ognun di questa casa faceste il suo ritratto.
A voi per tal fatica gratissima mi mostro,
Ma avrei piacere ancora che mi faceste il vostro.
Isidoro. A me non appartiene farvi il ritratto mio.
Placida. Verissimo; aspettate che farvelo vogl’io.
Voi siete, a quel ch’io sento, un uomo che convince
A forza di finezze, ma tien da quel che vince.
S’io resto, s’io comando, a me tutta la stima.
S’io parto e mi ritiro, don Berto è quel di prima.
Parlando a don Anselmo, lodate i pregi sui,
A me lo biasimate, parlandomi di lui.
Lo stil della germana voi meco or criticate;
Poi seco ragionando, lo so che la lodate.
Dite dei servitori più mal che non conviene.
Di lor, quando vi servono, non fate che dir bene.
La tavola vi piace; se un dì si mangia poco,
Dite mal del padrone, del spenditor, del cuoco.
Amante del buon tempo, del faticar nemico,

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Sordido internamente, in apparenza amico,

Satirico in distanza, adulator sul fatto;
Scrocco di prima riga. Ecco il vostro ritratto, (parte)

SCENA IV.

Don Isidoro, poi don Sigismondo.

Isidoro. La vedova garbata mi presentò uno specchio;

Ma quel ch’entra per uno, va fuor per l’altro
orecchio.
Vada, che se la porti il diavol maladetto;
Ma s’ella resta in casa, ci verrò a suo dispetto.
Sigismondo. O di casa.
Isidoro.   O di casa, si dice in una stanza?
In sala non si aspetta? È nobile l’usanza.
Sigismondo. La civiltà, signore, la so al pari d’ognuno.
A basso, sulle scale, in sala non vi è alcuno.
È ver che in altro loco dovevasi chiamare;
Ma son venuto innanzi, così, senza pensare.
Chi siete voi per altro, che vuol rimproverarmi?
Isidoro. Sono amico di casa. Vi prego di scusarmi,
Se ho detto quel che ho detto. Signor, chi domandate?
Quando servirvi io possa, chiedete e comandate.
Sigismondo. Cerco di donna Placida.
Isidoro.   Fummo finor qui insieme.
A me svelar potete quel che da lei vi preme.
Io son di donna Placida l’amico, il confidente.
Senza di me la vedova mai non risolve niente.
Anzi con me, per dirvela, poc’anzi ha consigliato
Sulla proposizione di prender nuovo stato.
Fra lo sposo e il ritiro risolta ancor non è,
E può la nuova scelta dipendere da me.
Volete che le parli? per voi posso far nulla?
Sigismondo. (Non è da disprezzarsi la giovane fanciulla), (da sè)

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Isidoro. Via la soggezione. Siam uomini di mondo.

Sigismondo. (Mi pare2 il di lei volto più ilare e giocondo.
Vorrei un’altra volta poterla almen vedere). (da sè)
Isidoro. Volete ch’io la chiami?
Sigismondo.   Mi farete piacere.
Isidoro. La cortesia negli uomini è una virtute umana.
Sigismondo. Vederla non potrei senza la sua germana?
Isidoro. Perchè una donna vedova venir con sua sorella?
Anzi verrà soletta.
Sigismondo.   È vedova ancor ella?
Isidoro. Vi è ignoto il di lei stato? Ah, non sapete nulla.
Sigismondo. Finora ho giudicato che fosse ancor fanciulla.
Isidoro. È stata maritata. È morto suo marito,
Ed or vuol, quanto prima, riprendere partito.
Se voi vi dichiarate, io sono il confidente.
Sigismondo. Vi prego, ma che l’altra or non sappia niente.
Isidoro. Vi servirò da amico. (Un merito così
Mi fo con donna Placida). Donna Luigia è qui.
(a don Sigismondo, con dispiacere)
Sigismondo. Lasciatemi con lei.
Isidoro.   Con lei? colla fanciulla?
Sigismondo. Fanciulla? Non è vedova?
Isidoro.   Voi non capite nulla.
Vedova è donna Placida. Questa è zitella ancora.
Sigismondo. Che è morto suo marito, non mi diceste or ora?
Isidoro. Dell’altra, e non di questa.
Sigismondo.   Sarà; non vi ho capito.
Isidoro. (Oh che testa di legno! Mi pare scimunito), (da sè)
Sigismondo. Dunque dell’altra siete il confidente amico.
Isidoro. Dell’altra, sì signore.
Sigismondo.   (Entrai nel bell’intrico), (da sè)
Isidoro. Ma possovi con questa servir, se il comandate.
Sigismondo. Vi prego, a donna Placida per or non lo svelate.
Dov’è donna Luigia, che non la vedo più?

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Isidoro. L’avrà da noi sottratta pudor di gioventù.

Ma verrà, s’io le parlo.
Sigismondo.   Fatemi la finezza.
Isidoro. Infatti ha la minore più grazia e più bellezza.
La vedova è una donna ch’è assai pontigliosa3,
Questa è ancor giovinetta, è semplice e amorosa.
Vado a servirvi subito. Prometto a voi mandarla.
(Coll’altra mi fo merito, se vado ad avvisarla).
(da sè, e parte)

SCENA V.

Don Sigismondo, poi donna Luigia.

Sigismondo. Come vogliamo credere l’equivoco sia nato?

Sarà distrazione, ch’è il mio difetto usato.
Più che tener procuro raccolto il mio cervello,
La fantasia mi gira siccome un mulinello.
Luigia. Signor, che mi comanda?
Sigismondo.   (Balzami ognor la mente...).
(astratto, senza veder donna Luigia)
Luigia. Chiede di me, signore?
Sigismondo.   Oh, servo riverente.
(avvedendosi di donna Luigia)
Perdonate, signora, l’ardir che mi son preso.
Luigia. Che voi mi ricercate, con maraviglia ho inteso.
Credo però uno sbaglio. Vorrete mia germana.
Sigismondo. (Quanto è vezzosa in fatti, quanto è gentile e umana!)
Luigia. Cercate donna Placida?
Sigismondo.   (Bella fisonomia).
(da sè, osservandola fissamente)
Luigia. (S’egli non mi risponde, megli’è ch’io vada via).
(da sè, in atto di partire)
Sigismondo. Dove andate, signora?

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Luigia.   Se voi non mi badate...

Sigismondo. Ero nel bel confuso. Vi supplico, restate.
Luigia. Sola restar non lice.
Sigismondo.   (Questa onestà mi piace). (da sè)
Luigia. (Più vago è l’avvocato. Ma pur non mi dispiace).
Sigismondo. (Disse ben donna Placida. Ha un’aria che consola).

SCENA VI.

Don Anselmo e detti.

Anselmo. (Un uom colla ragazza? che fan da solo a sola?)

Luigia. (Ecco il vecchio importuno).
Anselmo.   A tempo io son venuto.
(a donna Luigia)
Sigismondo. Cara donna Luigia.... (ah, non l’avea veduto).
(accorgendosi di don Anselmo)
Anselmo. Se voi non mi vedeste, della fanciulla allato,
Ah povero infelice! amor vi avrà acciecato.
E voi, buona fanciulla, sola ad un uom vicina?
Dov’è la suora vostra? dov’è la dottorina?
Quella che sa dir tanto contro chi pensa al bene.
Perchè la pecorella a custodir non viene?
Sigismondo. (Infatti è mia la colpa, e sofferir bisogna
D’un uom che dice bene, gl’insulti a mia vergogna).
(da sè)
Luigia. (Signor, voi che sì saggio e virtuoso siete,
Col mezzo della serva da me che pretendete?)
(piano a don Anselmo)
Anselmo. (Vi parlò Clementina?) (a donna Luigia, dolcemente)
Luigia.   (Mi parlò, sì signore).
(a don Anselmo)
Anselmo. (Sopra di tal proposito cosa vi dice il core?)
(a donna Luigia)
Luigia. (Mi dice il cuor che un uomo tanto lontan dal mondo,
Lo fa per rilevare che penso e che rispondo.

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Tal proposizione esser non può sincera.

A me voi non pensate). (a don Anselmo)
Anselmo.   (Vi sposo innanzi sera).
(a donna Luigia)
Luigia. (Voglia mi vien di ridere). (da sè)
Anselmo.   (Non dice ancor di no).
(da sè)
Sigismondo. (Alfin che può succedere? alfin la sposerò.
Cotanto donna Placida di lei mi disse bene,
Che averla favorevole sperar non isconviene).
(da sè, passando nel mezzo fra donna Luigia e don Anselmo)
Signora, in questa casa per voi non son venuto;
Ma tosto mi piaceste, allor che vi ho veduto.
Se la germana io trovo seconda al desir mio,
Farò quel che conviene con essa e collo zio.
Vi chiederò in isposa, di me se vi degnate.
Anselmo. Ehi padrone... (tirando don Sigismondo per la manica)
Sigismondo.   Va in pace. Oh signor, perdonate.
(a don Anselmo, dopo avergli dato una spinta)
Anselmo. A me simile insulto?
Sigismondo.   Non mi veniste in mente,
E vi ho creduto a un tratto un povero insolente.
Luigia. (Mel disse donna Placida, ch’ha delle astrazioni).
(a don Anselmo)
Anselmo. Per me vi compatisco. Il ciel ve lo perdoni.
(a don Sigismondo)

SCENA VII.

Donna Placida e detti; poi Paoluccio.

Placida. (Certo don Isidoro venne a narrarmi il giusto.

Ma che don Sigismondo ami Luigia, ho gusto), (da sè)
Che fa il vecchio importuno?
Anselmo.   Qui, qui, signora mia;
Vedete il bel profitto di vostra compagnia.
(a donna Placida, accennando donna Luigia e don Sigismondo)

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Luigia. Venni da lui chiamata.

(a donna Placida, accennando don Sigismondo)
Sigismondo.   Domandovi perdono.
Secondo il concertato, da voi tornato io sono.
(a donna Placida)
Anselmo. Concerti fraudolenti!
Placida.   Signor, voi non ci entrate.
A comandar, se piacevi, in casa vostra andate.
(a don Anselmo)
Resti don Sigismondo, resti Luigia ancora, (alli due)
Ci son io; voi partite. (a don Anselmo)
Anselmo.   Non vo’ partir, signora.
Son qui, son vigilante per ordin dello zio.
Dite quel che volete, vo’ fare il dover mio.
Placida. Restate pur, non curo, in faccia a un testimonio,
Per una figlia nubile trattar di matrimonio.
Se un cavalier la brama, s’ella acconsente al nodo,
Tosto lo zio si chiami...
Anselmo.   No, non è questo il modo.
Io mi oppongo al contratto.
Sigismondo.   Signor, con qual ragione?
(adirato, a don Anselmo)
Anselmo. (Non vorrei gli venisse qualche distrazione).
(da sè, ritirandosi un poco)
Placida. Non parlate, sorella? (a donna Luigia)
Luigia.   La cosa a voi rimetto.
(a donna Placida)
Sigismondo. Se voi siete contenta... (a donna Placida)
Anselmo.   Non si farà, il prometto.
Tentate a mio dispetto di superarla invano.
Paoluccio. Signora. (a donna Placida)
Placida.   Chi è venuto?
Paoluccio.   È il signor capitano.
Anselmo. (Oimè!) basta, il vedremo.
(timoroso, in alto di partire, sentendo l’arrivo del capitano)

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Placida.   Spiegatevi più aperto.

(a don Anselmo)
Anselmo. Ah, se ciò succedesse.... (ammazzerei don Berto).
(da sè, e parte timoroso, perchè vede in distanza il capitano)
Placida. Germana, se vien gente, a ritirarvi andate.
Voi, se la pretendete, itene, e al zio parlate.
(a don Sigismondo)
Luigia. (Converrà ch’io lo pigli, se lo destina il fato.
Quanto più fortunata sarei coll’avvocato).
(da sè, e parte)
Placida. Venga don Ferramondo.
Paoluccio.   Vo ad avvisarlo subito.
(parte)

SCENA VIII.

Donna Placida e don Sigismondo; poi don Ferramondo.

Sigismondo. Posso sperar che mi ami?

Placida.   Dell’amor suo non dubito.
Siate di ciò sicuro; ma andate dallo zio,
Prima che seco parli quel tristo vecchio e rio.
Egli, ve lo confido, sopra il suo cuor pretende,
Sa che don Berto è debole, e di sedurlo intende.
Sigismondo. Ora capisco il zelo dell’indiscreto indegno.
Ora di conseguirla vo’ mettermi in impegno.
La chiederò a don Berto. (in atto di partire)
Ferramondo. Eccomi di ritorno.
Sigismondo.   La chiederò a don Berto.
(oa per partire, ed urta forte don Ferramondo)
Ferramondo.   Siete briaco o storno?
(a don Sigismondo, rispingendolo)
Sigismondo. Che impertinenza è questa?
(a don Ferramondo, incalzandolo)

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Ferramondo.   A me? Non sai chi sono?

(si rttira ponendo mano alla spada)
Sigismondo. Non vi avea conosciuto. Domandovi perdono:
Un che fu qui poc’anzi, sdegno mi accese in petto.
Placida. Abbiate sofferenza. Sapete il suo difetto.
Sigismondo. Scusatemi, vi prego. (a don Ferramondo)
Ferramondo.   Basta così, vi scuso.
Con chi conosce il torto, insistere non uso.
(ripone la spada)
Sigismondo. La collera talora fa che d’un vel coperto...
(a don Ferramondo)
Ah, che mi perdo invano. Volisi da don Berto. (parte)

SCENA IX.

Donna Placida e don Ferramondo.

Ferramondo. Che ha don Sigismondo, che l’agita a tal segno?

Placida. Nel di lui sen combatte l’amore collo sdegno.
Par che donna Luigia di conseguire ei brami.
Non so se per impegno, o di buon cor se l’ami.
Appena l’ha veduta, la cerca, la pretende,
Freme perchè un indegno rival gliela contende.
Ferramondo. Che dice la fanciulla?
Placida.   Vuol far la vergognosa,
Ma nulla più desidera che di essere la sposa.
Ferramondo. Siete in ciò favorevole, o pur contraria ad essa?
Placida. Anzi procuro al nodo sollecitarla io stessa.
Ferramondo. Dunque sembra a voi pure codesto il miglior stato.
Placida. Certo, lo sposo è un bene per chi non l’ha provato.
Ferramondo. Per voi che lo provaste, dunque lo sposo è un male?
Placida. So che la libertade ad ogni ben prevale.
Ferramondo. Spiacemi che tal massima fitta vi abbiate in core,
Che siate divenuta nemica dell’amore.
Vi amo, già lo sapete. Sperai costante e fido
Fra i riposi di Marte le grazie di Cupido.
Servirvi eternamente saprò in libero stato.

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Placida. Star libera in eterno, signor, non ho giurato.

Ferramondo. Dunque sperar si puote che amor vi accenda il petto?
Placida. Chi sa ch’io non mi accenda d’amore a mio dispetto?
Ferramondo. Quand’è così, il mio cuore ripiglia i dritti suoi.
Placida. Quale ragion ch’io debbami accendere di voi?
Ferramondo. Sono d’amore indegno?
Placida.   Degnissimo voi siete;
Amor, stima e rispetto voi meritar potete:
Ma delle donne il cuore sapete come è fatto:
Talor senza pensarvi si accendono ad un tratto.
Io sceglierei voi solo, se avessi a consigliarmi,
Ma temo di me stessa, se giungo a innamorarmi.
Ferramondo. Io non sarei capace?
Placida.   Chi sa? può darsi ancora.
Ferramondo. Per me vi punge il core?
Placida.   No, non mi par, per ora.
Ferramondo. Quando vi son lontano, smania provate in seno?
Placida. Quando lontan mi siete, per verità non peno.
Ferramondo. Allor che in campo armato a militare andai,
Piangeste il mio periglio?
Placida.   Oh, io non piansi mai.
Ferramondo. Finor voi non mi amaste.
Placida.   Può darsi anche di no.
Ferramondo. E in avvenir, signora?
Placida.   Io l’avvenir nol so.
Ferramondo. Come poss’io l’amore sperar di meritarmi?
Placida. Può guadagnarmi il cuore chi giugne a innamorarmi.
Bramo di restar vedova, la libertade io stimo.
Ma se legar mi deggio, chi m’innamora è il primo.
Ferramondo. Che far per invaghirvi, dite, che far dovrei?
Placida. Dirvelo a me non tocca.
Ferramondo.   Tutti gli affetti miei,
Tutto il mio cor non basta, che vi consacri in dono?
Placida. Tanto bastar dovrebbe, ma accesa ancor non sono.
Ferramondo. Esser ognor vi piace servita e vagheggiata?

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Placida. Ciò ancor mi annoderebbe, se fossi innamorata.

Ferramondo. Amate divertirvi? Feste, teatri e gioco?
Placida. L’offerta è generosa, ma tutto questo è poco.
Ferramondo. Deggio dolente in viso piangere a voi dinanti?
Placida. No, l’allegria mi piace, ed abborrisco i pianti.
Ferramondo. Posso offerirvi il sangue.
Placida.   Che farne io non saprei.
Ferramondo. Chi mai può innamorarvi?
Placida.   Chi piace agli occhi miei.
Ferramondo. Quello io non son per altro.
Placida.   No, non lo siete ancora.
Una sorte, un incontro, un attimo innamora.
Ferramondo. Attenderò quell’ora per me più fortunata.
Placida. Ma se alcun altro è il primo, non mi chiamate ingrata.
Vivere dolcemente in libertade inclino:
Se cedo a nuove fiamme, sarà per mio destino.
Ed il destin che accende fiamme d’amore in petto,
A suo voler dispone del foco e dell’oggetto.
Fate gli sforzi vostri, la piazza è ancor difesa:
Ha degli assalti, è vero, ma non è vinta e resa.
Un capitan sa bene che, ad onta del valore,
La piazza non resiste al forte assalitore;
Nè basta che il nemico sia poderoso armato:
Delle battaglie il nume è spesse volte il fato.
Ferramondo. Vincere il fato ancora saprò colla mia spada.
Placida. Per un affar vi prego permettere ch’io vada.
Ferramondo. Mi licenziate, ingrata?
Placida.   Io vi rispetto e stimo.
Ferramondo. Posso sperar quel core?
Placida.   Chi m’innamora, è il primo. (parte)
Ferramondo. Non anderò per ora lontan da queste porte.
Sì, per essere il primo, tentar vo’ la mia sorte.
Per vincere la piazza, se l’assediarla è vano,
Tenterà per assalto d’averla un capitano. (parte)

Fine dell'Atto Quarto.

Note

  1. Ed. Zatta: non ne sa ecc.
  2. Zatta: Mi parve ecc.
  3. Zatta: ch’è molto puntigliosa.