La testa della vipera/VII
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VII.
Emilio contava ventidue anni e aveva preso la laurea in medicina. Frequentava con bastevole diligenza l’ospedale a cui era stato addetto assistente, ma con più assiduità sempre le sale d’armi e i tiri a segno, viveva sceverato da ogni godimento, tenuto a corto com’era dalla malavoglia paterna.
I soccorsi scarsi che con umiliante insistenza egli riusciva a strappare alla Marianna, non bastavano a gran pezza e si rodeva maledettamente nel paragonarsi a’ suoi coetanei e sopratutto al cugino Cesare, fattosi uno dei giovani più eleganti, il quale godeva i vantaggi che in società si danno alla ricchezza.
Ah! questa sì era una potenza; questa una forza nel mondo: e quando egli potesse averla, oh come ne avrebbe saputo trarre profitto! Qualche cosa del nonno materno, egli l’aveva intesa: era un avaro, usurajo, e di certo aveva lasciato morendo un vistoso patrimonio. Sapeva pure che il padre aveva giuocato e giuocava, ma non era possibile che avesse consumato sì grossa parte, che ne dovesse rimanere a lui la povertà: dei capitali ci dovevano essere ancora, fra i quali e lui non istava di mezzo che la vita del padre, d’un padre che lo aveva sempre maltrattato, che l’aveva sempre odiato e odiava nè celava il suo odio, e cui egli non amava, come non poteva stimare. Ah! no certo ei non avrebbe mosso un dito perchè quella vita si troncasse, ma se il caso avvenisse!... Egli pensava senza ripugnanza a siffatto caso: domandava alle cognizioni mediche acquistate di chiarirlo se e quando quel caso potesse avverarsi, e scrutava nella faccia del padre i segni del progresso di un male interno, che in realtà ne minacciava i giorni.
La tumefazione delle guancie, l’impaccio della parola, l’accasciamento della persona, la incertezza del passo, rivelavano una lenta paralisi cerebrale, che poteva di colpo avere una fatale risoluzione.
Lorenzo s’accorgeva di questo affissarlo del figliuolo, per quanto i falsi occhî di lui sfuggissero ratti, appena quelli paterni facessero a incontrarli, e se ne irritava, quasi indovinandone il segreto motivo.
— Che cos’è che mi guardi con quel tuo occhio di serpe? gli gridava incollerito. Hai paura che io stia troppo bene?
Emilio non rispondeva; arrossiva un poco e si allontanava a capo basso.
Pensava:
— Una buona cura dietetica, un cambiamento assoluto di vita, qualche rivulsivo varrebbero ad allontanare il pericolo. Guarirlo, impossibile; ma prolungargli resistenza chi sa per quanti anni, sì... Ma egli non mi crederebbe, nè mi darebbe retta, farebbe peggio... È lui che sel vuole... Ciascuno è padrone della sua vita... Faccia a suo senno.
Una notte Lorenzo Lograve tornò a casa con passo più vacillante del solito, gli occhî pieni di sangue, la lingua grossa, le labbra livide. Secondo il solito, nessuno lo aspettava; giunse nella sua camera inciampando nei mobili, urtando colle spalle nelle pareti e negli stipiti; si spogliò a stento con mano quasi convulsa, strappando quasi i bottoni, lacerando i panni, e quando fece per salire sul letto, ruzzolò e diede un tonfo per terra. Marianna che dormiva nella camera vicina, svegliò Emilio che le venisse in ajuto. Quando ebbero tirato su e coricato in letto il caduto, che rantolava sempre senza dar segno di cognizione, il giovane medico si accorse subito della gravità delle condizioni di suo padre. Un’orgia maggiore e più prolungata, l’emozione del giuoco, fatta più violenta dalla vistosa entità delle perdite, avevano prodotto quell’insulto apoplettico, che il figlio già da tempo aveva preveduto.
La vecchia Marianna si affannava intorno all’infermo, fregandolo, scuotendolo, coprendolo di pannicelli caldi; inumidendogli di acqua e aceto fronte e labbra, lamentandosi, invocando santi e madonne, chiamandolo disperatamente per nome.
— Sor Lorenzo, dica che cosa ha?... Non mi sente! Non mi vede?... O Dio buono! Santa Madonna del Carmine, non l’ho mai visto in questo stato!
E, dimenticando, nello spavento di quell’istante, le forme rispettose ch’egli pretendeva da lei in presenza d’altri, anche del figlio, si lasciò scappar detto:
— Rispondimi, Lorenzo... non lasciarmi in tanta inquietudine.
S’accorse in quella della presenza di Emilio e del sogghigno mefistofelico cui gli metteva sulle labbra quella famigliarità della vecchia serva verso suo padre.
— E tu che fai? gli disse con ira: non sei buono che a star lì impalato?... È pur inutile che tu abbia studiato da medico, se non hai nemmeno appreso a soccorrere tuo padre.
Il giovane la guardò freddamente.
— Nè io, nè altri ha mezzo da soccorrerlo... Non c’è nulla da fare.
— Come, nulla da fare?... Credi che il male passerà da sè?
— No; credo che non passerà più.
— Non passerà più?... Vuoi dire?...
— Ch’egli è condannato.
— E lo dici con quella calma!... Ma gli è che non sai quello che dici... Sei un ignorantaccio con tutto il tuo studio... Io, sì, io so quello che gli farà bene.
E sollecita andò ad un armadio e ne tolse una bottiglia di rum.
— Gli volete dare di quella roba?
— Sì, un bicchierino lo rinvigorirà... L’ho già visto altre volte.
Emilio crollò le spalle e la lasciò fare.
Marianna, riempito a mezzo un bicchierino di quel liquore, sollevò il capo del giacente col braccio sinistro e mettendogli colla mano destra il bicchierino alle labbra, gli disse con tono di incoraggiamento e di preghiera:
— Suvvia, sor Lorenzo, beva questo... Le farà bene... Le ha fatto sempre bene!
E si adoperò a mandargli giù in gola il rum.
Lorenzo diede uno scossone, mandò un grugnito, fece un moto convulso come per respingere da sè qualche cosa che lo soffocasse, e giacque più inerte di prima.
Allora Marianna cominciò a persuadersi che il caso era più serio di quel che avesse creduto.
— Ci vuole un medico... Presto un medico... Giacchè tu vali quanto un ceppo... va almeno in cerca d’un dottore... Ma fa presto!... Spicciati!... Santa Madonna!... E sta lì grullo come se si trattasse di un passerotto e non di suo padre.
Emilio non disse nulla: girò sui tacchi, andò a finire di vestirsi, e uscì con tutta calma. Prima ch’egli fosse di ritorno era passata un’ora, che parve un secolo alla Marianna, e in cui l’infermo, sempre più assopito, cessò a poco a poco di gemicolare rantolando solamente in molto penosa maniera.
Il medico sopraggiunto non potè che ripetere quanto già Emilio aveva detto: che non v’era nulla da far più e soggiunse che a momenti l’infermo sarebbe entrato in agonìa. La Marianna si mise a strillare disperatamente, cacciandosi le mani nei capelli.
Il medico si volse ad Emilio.
— Qualche ora fa si sarebbe dovuto liberargli il ventricolo con un buon vomitivo. Forse avrebbe ancora potuto riaversi.
Emilio chinò gli occhî.
— Sì, certo, disse tranquillamente, è quello che penso ancor io... Ma quando fui chiamato era già troppo tardi.
Tutte le grida e la disperazione della Marianna non valsero a trattenere un minuto di più in questo mondo lo spirito di Lorenzo Lograve: e sul far del giorno, in quel letto, dove avevano coricato l’ebbro giuocatore, non c’era più che un cadavere.
Una sola persona ne accompagnò la bara al cimitero: la vecchia Marianna.
I Danzàno padre e figlio, udita appena la notizia della morte di Lorenzo, erano accorsi presso l’orfano figliuolo, e avevano voluto condurselo con sè, per torlo alla dolorosa vista delle funebri cerimonie. Avevano trovato Emilio immerso in una tacita cupezza quasi distratta che parve loro un profondo accoramento. Nessun argomento, nè preghiera aveva potuto smuoverlo dal proposito di non abbandonare la casa. Nel momento, così terribile, quando si è perduta una persona cara, del trasporto del cadavere, Cesare venne per sollevare colla sua compagnìa all’orbato figliuolo la crudeltà di quell’eterno distacco; ma Emilio avevagli detto, con una risolutezza da sconsigliare ogni replica, che preferiva esser solo, che ne aveva bisogno; e il cugino se n’era andato ammirando quel figliuolo dall’animo così forte, la potenza di un tanto dolore per un padre che sempre lo aveva maltrattato. Emilio, rinchiusosi solo in casa, mentre Marianna, tutta in lagrime, accompagnava sino al cimitero la salma del padrone, prese le chiavi di suo padre ed esaminò accuratamente i forzieri, la scrivanìa, i cassettoni, i mobili tutti della camera del morto, in cui vedevasi ancora disfatto il letto. A mano a mano ch’egli procedeva in questo esame, il suo viso giallognolo prendeva un’espressione sempre crescente di disappunto, di rabbia, da ultimo quasi di furore. Strinse i pugni, minacciò nell’aria qualche persona lontana, bestemmiò; poi a un tratto con passo risoluto andò nella camera di Marianna. L’uscio n’era chiuso a chiave. Emilio stette un momento esitante colla mano sulla gruccia della serratura; pensava se gli convenisse scassinare quella porta. Si risolvette pel no: tornò in camera sua a capo basso, ma colla impronta dei più nequitosi propositi nei contratti lineamenti del viso.
Passarono due giorni, in cui Emilio sfuggì accuratamente la presenza di Marianna; il che gli fu facile, perchè anche la donna da parte sua non aveva una gran voglia di trovarsi con lui. La mattina del terzo giorno dopo i funerali del padre, Emilio con qualche pretesto mandò fuor di casa la persona di servizio e rimase solo nel quartiere con Marianna: dalla soglia della sua camera egli chiamò forte la vecchia, la quale, o non udisse o non volesse udire, non si fece viva. Il giovane ripetè la chiamata con tal voce e una bestemmia che la donna, atterrita, si affrettò a venir fuori.
— Che cosa c’è? domandò con qualche apprensione.
— Venite qui, rispose burbero l’erede di Lorenzo, chè abbiamo da discorrere.
Marianna col passo pesante s’avviò lenta e di mala voglia verso la camera del giovane. Questi la fece entrare, e dietro lei chiuse l’uscio; la qual cosa non piacque di molto alla donna, che guardò inquieta tutt’intorno, come cercando un’altra uscita da potere scappare: ma non ce n’era.
Emilio entrò subito in argomento.
— Ho visitato cassa, scrigno, canterani, scrivanìa e non ho trovato nè carte di valore, nè crediti, nè denari, sì invece delle obbigazioni di debiti, delle note da pagare. Parte dei beni è venduta; i restanti sono gravati da ipoteche... L’eredità paterna, per me, invece della ricchezza, non mi porterebbe che fastidî e penuria.
Marianna fece una faccia compunta, e con voce che voleva parere afflitta e commossa, rispose:
— Ah, caro il mio ragazzo, so troppo bene che tuo padre...
Ma Emilio la interruppe bruscamente.
— Io non sono il vostro ragazzo, e non permetto più che mi trattiate col tu.
La vecchia si confuse, balbettò:
— Scusate... scusi... Sono così affezionata alla famiglia... da tanto tempo!... Lei l’ho visto a nascere.
Ed egli, troncandole di nuovo la parola con un malvagio sogghigno:
— E, grazie a Dio, con me non ci avete le vergognose ragioni d’intimità che aveste col nonno e col babbo.
Marianna volle parlare, ma non seppe che cosa dire; aprì la bocca e la richiuse senza mandare un suono; chinò la faccia più confusa che mai.
Emilio riprese:
— Mentre le sostanze di mio padre si assottigliavano, s’accrescevano le vostre... di voi che siete entrata in questa casa povera e nuda come un verme. Voi avete un cassetto ripieno di cartelle del debito pubblico, di azioni della Banca Nazionale, di obbligazioni ferroviarie...
— Che bugìa! sclamò Marianna, ritrovando il coraggio di rialzare il capo e di riprendere un po’ di petulanza.
— Lo so di sicuro, affermò recisamente il giovane. Conosco il cambista da cui vi fate pagare gl’interessi, e potrei dirvi la cifra a cui ammontano.
Marianna capì che era una lotta, che le bisognava difendersi e rientrava sempre più nella sua petulanza.
— Ebbene, e con ciò che volete dire? Se vostro padre ha sciupato il suo, e io con risparmî, con privazioni, ho saputo mettere in serbo quel poco che mi sono guadagnato co’ miei santi sudori...
— Lasciamo stare i sudori, interruppe malignamente Emilio, chè, se ce ne furono, non si possono dir santi... Il vero è che tutto quanto voi possedete l’avete rubato al patrimonio che doveva esser mio...
La vecchia mandò un grido indignato di protesta.
— Rubato!... O Santa Madonna della Consolata! Che osate dir mai? Rubato! Ma io non tollero...
— Stai zitta! gridò minacciosamente il giovane. E lasciami dire in tua malora, vecchia strega!
— O Dio buono!... O Santa Vergine dei dolori!... O santi tutti del paradiso! esclamò Marianna levando le mani al cielo. Cosa mai ho da sentire?... Come ho da essere trattata!... E da voi, che ho sempre difeso contro vostro padre, che ho sovvenuto tante volte de’ miei denari...
— Che!... Erano denari di mio padre e quindi miei... Ma non perdiamoci in ciancie... Date ben retta: ora son io il padrone; e quello che è mio lo voglio, capite?... tutto lo voglio!
Marianna lo guardò spaventata.
— Che cosa volete dire?... In fede mia, non vi capisco... Cosa volete dire?
— Che voi mi darete la chiave di quel cassetto dove tenete rinchiusi i valori rubati perchè io possa andare a prendermeli senz’altro.
La donna si pose la mano sulla tasca, quasi a ripararvi quella chiave che portava sempre con sè, e ritornata in tutto il suo coraggio per difendere la ricchezza con tanto e sì lungo studio acquistata, disse risoluta e sprezzante:
— Voi siete matto, sor Emilio; e questo è proprio un perderci in inutili ciancie.
E senz’altro voltò la grossa persona verso la porta per andarsene dalla stanza.
Emilio d’un balzo le fu innanzi, la respinse brutalmente indietro e chiuse la serratura dell’uscio a doppia mandata.
— Voi non uscirete, disse con una freddezza più minacciosa della collera, non uscirete prima di avermi dato quella chiave.
— Mai! esclamò essa, vacillante tuttavia per la spietata violenza ricevuta.
Egli levò dalla serratura la chiave dell’uscio, e se la mise in tasca.
— La vedremo! disse colla medesima freddezza.
Marianna fu presa da un accesso di furore; si slanciò colle mani levate verso il giovane, come per graffiargli il viso, per istrappargliene gli occhî.
— Lasciatemi uscire! gridò. Voglio uscire... aprite quell’uscio!
Emilio l’afferrò ai due polsi, e stringendoli con tutta la sua forza le abbassò le mani, poi chinando verso di lei la faccia scialba, la guardò con tali occhî pieni di ferocia da incutere paura a chicchessìa.
E la vecchia ebbe paura.
— Usereste violenza? balbettò con voce tremante.
E lui facendo piombare viepiù minaccioso quel suo sguardo di belva negli occhî smarriti di lei, rispose con voce cupa, concentrata, feroce:
— Sì!
E dopo averla scossa violentemente per le braccia, la rigettò in là, sì che la misera andò a cadere mezzo sbalordita sopra una seggiola.
— O Vergine santissima!... O Madonna del Carmine! gemicolava la vecchia coprendosi con le mani gli occhî per non vedere la faccia spaventosa del padrone. Ma questo sarebbe un assassinio!... Tanto varrebbe togliermi addirittura la vita... Sì, un assassinio!... Ma lei non è capace d’un sì gran delitto... No, non è possibile... Lei mi vuol far paura...
Guardò di sottecchi: vide lui, sempre con quella freddezza di carnefice che la guardava con occhio cattivo.
— Ma c’è una giustizia... Ricorrerò alla giustizia.
— Benone!... E io le dirò, alla giustizia, che quei valori, voi li avete sottratti all’eredità di mio padre... Vi buscherete la condanna alla reclusione per giunta.
Marianna si raumiliò.
— No, no, voi non farete sì gran torto a una povera donna, che da trent’anni serve la vostra famiglia...
— E la ruba!
La vecchia si diede a piangere, a supplicare: tutto quanto essa possedeva, lo avrebbe lasciato, morendo, a lui, Emilio; e già, la non poteva mica vivere più lungamente; la lasciasse dunque finire in pace que’ pochi giorni che le rimanevano; e scongiuri e proteste e promesse; e poi di nuovo invettive e ingiurie e minaccie. Il giovane, sempre pallido in faccia, coi lineamenti tirati, con un cinico sogghigno sulle labbra, con quel tristo bagliore negli occhî feroci, la lasciò dire e dire: e poi freddo freddo, facendo un passo verso di lei, sempre accasciata sulla seggiola, e tendendole aperta la mano destra:
— Ne abbiamo già fatte troppe parole, disse; è tempo di finirla... Qui la chiave!
Marianna tornò alla rivolta.
— No, no! urlò essa. Mi toglierete prima la vita.
E fattasi pavonazza in volto, gli occhî lampeggianti, digrignando i denti, la schiuma alla bocca, si slanciò di nuovo contro Emilio, gridando:
— Apritemi... aprite quella porta... Voglio uscire, lo voglio!
Egli la respinse con un forte pugno nel petto.
— Non vuoi darmela quella chiave?... Ebbene, io ne farò senza.
E approfittando dello sbalordimento prodotto nella vecchia dal colpo ricevuto, egli fu all’uscio, lo aprì in tutta fretta, e stava per isgusciar fuori. Marianna accorse, s’aggrappò a lui, lo strinse, lo graffiò, lo morse, soffiando, gemendo, imprecando, gridando; fu un’ignobile lotta, che l’uomo finì per vincere, liberandosi dalla stretta di quella furia e ricacciandola vivamente entro la stanza. La vecchia andò a cadere lunga e distesa sul pavimento, e il giovane, uscito sollecito, la rinchiuse dentro a giro di chiave.
Marianna rimase un poco immobile, mezzo svenuta, poi, risensando di colpo e pensando a quello che poteva succedere nella sua camera, sorse con impeto, si gettò contro l’uscio percotendolo, tentando staccarne la serratura, gridando ajuto, soccorso, piangendo, bestemmiando, arrovesciandosi le unghie, scorticandosi le mani, poi stracciandosi i capelli nella disperazione della sua impotenza. Nessuno accorse alle sue grida, ai suoi clamori: e, stanca, senza più voce, senza forze, la meschina dovette, dopo forse un’ora e più, acchetarsi, divorata dalla rabbia, dall’odio, dalla paura. Dopo quella prima di furore, di spasimo, di tormentosa angoscia, passarono altre ore, che la disgraziata non seppe numerare, che le parvero eterne, ma che furono penosissime tutte, e vennero frangendola, macerandola, limandone la vita. Nella sua testa era un tumulto. Che cosa fare per salvare la sua roba? Correre subito a denunciare il latrocinio al procuratore del re? Ma se Emilio accusasse lei a sua volta? Ben sapeva essa come tutti l’odiassero e in casa e fuori di casa; quanti avevano avuto e avevano attinenza colla famiglia sarebbero stati testimonî a carico di lei. Ma si sarebbe vendicata, anzi ricattata. Oh! se Emilio avesse osato!... Avrebbe trovato ben essa il modo di fargliela pagare: accarezzò senza orrore anche l’idea d’un delitto... Ma no, Emilio non avrebbe osato; egli aveva voluto spaventarla, sarebbe tornato ad assalirla, a minacciarla, ma essa non avrebbe ceduto a nessun patto. E intanto, appena avesse potuto uscire, ella avrebbe portato fuori di casa i titoli, li avrebbe affidati all’agente di cambio, depositati presso una banca, posti in qualsiasi modo al sicuro. L’importante, il necessario, l’urgente era di uscire di là... Uscire, uscire!... Il giorno passava e non si veniva a liberarla; si provò a chiamare di nuovo all’uscio, ma le sue mani non avevano più forza: ricascava, accasciata, sempre più smarrita d’animo.
Sopravvenne la notte; l’oscurità si fece tormentosamente paurosa per quella disgraziata che nelle tenebre credeva vedere, udire terribili fantasmi e voci, e sentiva l’anima sempre più gravata da un’indicibile oppressura. La realtà, anche la peggiore, parevale da preferirsi a quello stato d’angoscia nell’oscurità e nel silenzio che la circondavano. Mancavale il respiro, la testa le tenzonava, dicevasi con ispavento: «Io sto per morire qua sola come un cane». A un tratto udì lo scricchiolìo della chiave nella serratura e il rumore dei battenti dell’uscio che venivano spalancati: non vide nessuno, nessuno le parlò.
Volle alzarsi di scatto e correre alla porta, ma le forze le mancarono. Sorse a stento, camminò trascinandosi: la pinguedine le pesava ora come una cappa di piombo. Andò a tastoni fuor della camera; entrò a tastoni nella sua; colle mani tese innanzi si diresse verso il cassettone, ci arrivò, lo toccò tremando; il cassetto era aperto, e le mani frementi affondatevi trovarono il vuoto. La disgraziata non ebbe nemmeno più la forza di mandare un grido; non fu che un gemito ad uscire dalle sue labbra. Un tonfo sordo per terra annunziò che la infelice era caduta lunga e distesa. Due giorni dopo sotterravano anche lei, morta d’un colpo apoplettico.
Emilio Lograve, diventato ricco ad un tratto, mostrò di saper godere dei suoi denari senza sciuparli e senza lasciarsene mangiare. Abbandonò l’alloggio paterno, e prese un allegro quartierino in una delle più belle case della parte più nuova ed elegante della città; lo arredò con gusto senza eccedere nello sfarzo. Si provvide di due cavalli che potevano servire da tiro e da sella, frequentò feste, conviti e teatri. Ebbe numerosi duelli nei quali diede sempre prova della sua invincibile superiorità nel trattare le armi; fu temuto e quindi rispettato in società: non ebbe amici e non ne cercò; dal cugino Cesare in fuori, sul quale conservava e anzi veniva accrescendo quell’autorità, quell’influenza che gli aveva posto addosso fin dalle prime prove del suo coraggioso sangue freddo nel pericolo e della sua abilità di armeggiatore. Una sola casa frequentava Emilio, ed era quella dei Danzàno. Al padrino erano dispiaciuti e dispiacevano i diportamenti da accattabrighe del figlioccio; e severamente aveva rimbrottato Cesare che in quasi tutti gli scontri era stato testimonio e padrino di Emilio; ma questi sapeva trovare sì speciose ragioni per difendere sè stesso e scusare il cugino, che il vecchio Danzàno finiva per tacersi, non persuaso, ma vinto.
— La natura, diceva il giovane Lograve, non ha voluto darmi nessun vantaggio nel mondo; non mi ha fatto bello, nè potente per nascita, neppur forte di muscoli; mi ha fatto per essere zimbello e vittima di tutti, se io non sapessi col coraggio e coll’ingegno difendermi. Nella vita mondana ha pur luogo una lotta nella quale colui che ha la debolezza della pecora è divorato dal lupo, che è il dileggio, il ridicolo e il disprezzo. Preferirebbe lei, caro padrino, di vedermi il bersaglio dei motti arguti dei bellimbusti, pascolo alla malignità delle signore? Quando sarà bene accertato, ben conosciuto da tutti, che un epigramma sulla mia trista figura, o sulla fama di mio nonno, o sulla vita di mio padre, frutta una buona palla di pistola, o due dita di lama in qualche parte del corpo, io sarò sicuro di poter presentare la mia brutta faccia in mezzo alle più belle signore, ai crocchî più eleganti, senza ch’essa susciti pure una smorfia... Quanto a Cesare, egli fa anzi tutto opera da buon amico e da buon parente, assistendomi, mi presta un gran servizio curando coi più delicati riguardi l’interesse del mio onore, e può inoltre, con prudenti avvisi, concorrere a rendere meno gravi le conseguenze delle sfide che mi sono fatte: perchè, badi bene, caro padrino, che, salvo casi rarissimi, sono sempre stato io lo sfidato dai miei avversarî.
Ed era il vero; ma era il vero altresì che quando Emilio Lograve voleva cimentarsi con qualcheduno, sapeva così accortamente provocarlo, tormentarlo, inasprirlo, che per finirla onorevolmente quell’altro credevasi obbligato a chiamare il suo persecutore sul terreno.
Il signor Danzàno opponeva che quei duelli erano già stati omai tanti da bastare all’uopo che Emilio diceva; e, quanto all’intervento di Cesare, notava non apparire esso troppo efficace a rendere meno funeste le conseguenze degli scontri, perchè ognuno di essi aveva sempre procurato agli avversarî del figlioccio qualche ferita più o meno grave. Del resto un certo effetto sull’animo del severo padre di Cesare lo producevano pure la meravigliosa abilità, il valore e le continue vittorie del figlioccio, il quale presso il padrino sapeva eziandìo, in parole, apparir mite, modesto, buono.
Aveva così il vecchio Danzàno posto un po’ d’affezione per quel giovane cui ricordava la povera di lui madre, morendo, aver voluto raccomandargli, a quanto gli aveva detto la monaca che aveva assistito a quell’agonìa; lo aveva compianto vittima della trascuranza, peggio, del disamore e dei vizî del padre; e si lasciava illudere dalla ipocrisia dei discorsi di quel soppiattone.
Chi non se ne lasciava ingannare era Matilde, divenuta un fior di ragazza. Bella essa era davvero e più che mediocremente: ma più ancora della bellezza poteva in lei una grazia, un incanto, un non so che, onde ne veniva ad ogni suo atto e movenza, ad ogni parola e sorriso e sguardo, tale seduzione che impossibile non rimanerne vinti. Nè questa grazia era menomamente intinta d’artificio e di civetterìa; si accompagnava colla più ingenua semplicità e modestia, e riusciva di tanto più cara ed efficace: conquideva i giovani, s’ingraziava i vecchî, vinceva persino la gelosìa e l’invidia delle donne. Una malìa speciale poi era nella voce soave, melodiosa, insinuante, che alle cose dette, sempre giuste, e ingegnose, e gentili, dava un pregio, un rilievo, un’efficacia inesprimibile.
A subire tal fascino era stato de’ primi Emilio; e lo aveva provato potente fin da principio e lo sentiva crescere ogni giorno più e con sempre maggior forza. Quella stessa ripulsione che la fanciulla aveva per lui, ch’egli sentiva e cui essa non si curava molto di nascondere; quella stessa ripulsione era come una provocazione, un irritamento all’animo, al cervello, all’amor proprio, ai sensi di Emilio: il quale con rabbia si accorgeva che la imagine della sprezzante cuginetta era giorno e notte presente al suo pensiero, che ne occupava le sue fantasticaggini, che gli compariva ne’ sogni, che gli aveva stampato, per così dire, nella polpa cerebrale quel suo sorrisetto così buono per altri, così malizioso, ironico per lui, sempre così affascinante. Una vera ossessione! Di pronunciare pure una parola che svelasse a Matilde i suoi sentimenti per lei, non aveva l’ardire, e nemmeno, quei sentimenti, di lasciarli apparire dal contegno, dagli sguardi; essa gl’inspirava sempre una suggezione cui non poteva vincere quando si trovava sotto il raggio di quei limpidi occhî. Ma egli era terribilmente, dolorosamente geloso di quanti accostassero la ragazza e paressero non tornarle sgraditi. Avido d’un tesoro, di cui temeva pur troppo non avrebbe potuto mai impadronirsi, non voleva, si struggeva dalla rabbia al solo pensiero che altri potesse toccarlo.
Una sera a teatro, dove egli era andato a far visita in palchetto alle Danzàno madre e figlia, Emilio s’accorse che un giovane dalla platea fissava con insistenza il suo sguardo ammiratore sulla bellezza di Matilde, la quale pareva non accorgersene affatto. Era un bel giovane di aspetto nobile e piacente, con espressione di risoluzione e di franchezza segnata in fronte — una fronte piana ed aperta da una cicatrice verso la tempia destra. Naturalmente Emilio lo trovò subito antipatico, e si pose a guardarlo a sua volta, con occhio tutt’altro che benigno; e guardandolo, s’accorse che quella non era una figura affatto sconosciuta, che l’aveva già vista altre volte; finchè a un tratto balzò nella sua memoria l’imagine di quel suo compagno di collegio, più forte degli altri, che a lui aveva dato parecchie volte le pacche, e dal quale egli s’era vendicato di poi con quella brava sassata sulla testa.
Sicuro! Era proprio quel tale; e quella cicatrice che riusciva a dare un certo interessamento alla elegante di lui fisionomia, era il segno appunto della ferita fattagli dal sasso lanciato da Emilio.
Questa scoperta rese ancora più spiacevole la figura di quel giovane al cugino di Matilde, il quale, non sapendo dissimulare il suo dispetto, colla imprudenza della gelosìa, domandò alla fanciulla in tono sprezzante:
— Conosci forse quell’imbecille laggiù che da un’ora ti sta divorando cogli occhî e col cannocchiale?
Matilde fece guizzare di traverso uno sguardo verso il giovane, e rispose freddamente:
— Non lo conosco, ma a vederlo non si direbbe un imbecille.
— Te lo dico io, soggiunse Emilio imbizzito: io che lo conosco bene, perchè è stato mio compagno di collegio.
— Oh guarda! esclamò la fanciulla sorridendo: dal collegio dov’eri tu ce n’escono degli imbecilli?
Emilio si morse le labbra.
— Già! disse poi con un sogghigno da itterico: giudicando da me non l’avresti creduto... Quello là poi era inoltre un prepotente villano, che abusava della sua forza manesca per imporsi ai compagni.
— Ah sì? disse la ragazza con intenzione e guardando bene in faccia il cugino. Allora ei non era mica un imbecille, ma un tristo che, abusando d’una sua superiorità per fare prepotenze, commetteva una cattiva azione.
Emilio non disse più nulla; e dopo un poco scese in platea. Quell’altro aveva pur riconosciuto l’antico condiscepolo, e appena questi comparve sulla porta, gli fu accosto sollecito, chiamandolo per nome.
— Lograve!
Emilio lo guardò freddo.
— Signore?
— Non mi riconosci? Sono Nori... Sai bene. Laggiù al collegio... Alberto Nori... Ero due corsi più innanzi di te.
— Ah! Nori?... Sì, mi ricordo, rispose colla medesima freddezza Emilio. Ci frequentavamo poco...
— Eh sì... Abbiamo avuto anche qualche battibecco insieme... come, del resto, io ne ebbi con quasi tutti... Ero un po’ accattabrighe.
— Un poco! esclamò con un sogghigno; mi pare anzi...
Ma l’altro, completando la frase, con allegra bonarietà:
— Che lo fossi di molto eh? Hai forse ragione. Da ragazzo ero una testa matta di prima classe; ma mi sono cambiato, sai? Son diventato il miglior pastricciano del mondo... Certo non mi lascio soffiare sotto il naso, ma del resto chi mi sa pigliare pel verso mi trova un agnellino.
E rise bonariamente come prima.
— Ah sì? disse Emilio senza dipartirsi menomamente dalla sua riserbatezza.
— Sicuro, riprese quell’altro, che aveva una gran voglia di continuare il discorso e rompere quella crosta di ghiaccio dietro cui Emilio si riparava. La disciplina militare mi ha fatto molto bene... Lo sai che sono stato militare?
— No.
— Uscito dal collegio, entrai nell’Accademia, e ne venni fuori sottotenente d’artiglieria; un anno dopo, superato felicemente l’esame, ero luogotenente...
— E ora?
— Ora non sono più nulla. Ho una vistosa eredità, e ho pensato meglio di venirmela a godere tranquillamente, libero, a casa mia... E tu che carriera hai preso?
— Ho studiato da medico; ma non faccio nulla, perchè anch’io ho avuta un’eredità, quella di mio padre, che mi permette di vivere pienamente a mio capriccio.
— Benissimo; me ne rallegro tanto... Non puoi credere il piacere che mi fa lo averti incontrato. Si ha un bel dire, ma i compagni dei primi anni conservano sempre un posto nel cuore. Mi farò un piacere d’introdurti nella società ch’io pratico...
— Grazie, ma...
— E tu mi procurerai l’onore di frequentare la tua.
— Oh! io...
— Per esempio in casa Danzàno...
Emilio ebbe un’alzata di capo che rivelava poca volontà d’acconsentire.
— Ti ho visto fin adesso in palchetto con quelle signore. So che son tue cugine. Oh, mi sono informato. È la mia buona stella, che mi ti ha fatto incontrare... Sarò schietto con te... È un mese che cerco, invoco l’occasione di essere presentato a quella famiglia...
— Per mia cugina? disse Emilio con riso più itterico che mai.
— Sì... Mi piace alla follìa. Non ho trovato mai figura di donna che mi sembrasse più degna d’amore. E... senti! La mia famiglia è onorata quanto qualsiasi altra; ho ventisette anni e venti mila lire di rendita e...
Lograve lo interruppe bruscamente.
— Cospetto, come ci vai!... Ti pare questo discorso da tenersi qui in piedi, nella platea, d’un teatro?
— Hai ragione... ma ho voluto dirti subito tutto questo, per guadagnarmi il tuo appoggio... Dovresti esser meco tanto buono da presentarmi questa sera, qui stesso...
— Impossibile! esclamò Emilio secco secco. Debbo andare subito per una certa faccenda che non posso trascurare.
— Allora, quando?
— Mah!... ci vedremo, ci parleremo.
— Dove ci vedremo? Diamoci un appuntamento domani. Potremo discorrere a bell’agio... Vuoi ch’io venga a casa tua?
— Che! Troppo tuo incomodo.
— Troviamoci al caffè Centrale. Vuoi? A che ora?
— Che so io?
— Alle dieci domattina... T’invito a colazione... Va bene?
— Va benissimo.
— Siamo intesi... Grazie!
Strinse caldamente la mano ad Emilio e andò ad appostarsi sotto il palchetto di Matilde. Emilio se ne partì con in corpo una rabbia da non dirsi, decisissimo di non recarsi al convegno dato dal Nori.
Il domani, all’ora appunto in cui Alberto Nori stava aspettando al caffè il suo antico condiscepolo e s’arrabbiava maledettamente di non vederlo comparire, Emilio si presentava in casa Danzàno e domandava di parlare a quattr’occhî al padre di Matilde. Senza preamboli gli disse di essere pazzamente innamorato della cugina e di chiedergliela in consorte. Molto si meravigliò il signor Danzàno, che non s’aspettava mai più una simile domanda; e poco disposto come si sentì subito ad accoglierla, cercò delle scappatoje per non dare lì su due piedi una risposta decisiva. Disse che la ragazza era ancor troppo giovane per pensare ad accasarla, che Emilio stesso a soli venticinque anni, colle abitudini che aveva e la vita che menava, non appariva il più atto ad essere un padre di famiglia, e siccome il giovane insisteva affermando ch’ei si sarebbe affatto emendato e ripeteva tutti i vantaggi che presentava il suo partito, lui ricco, solo, indipendente, il padrino finì per dire che, ad ogni modo, in affare che così da vicino la riguardava, egli avrebbe ritenuto per voto decisivo il volere di Matilde e che dunque a lei si sarebbe domandato il tenore della risposta.
Emilio stette un poco a pensarci, e poi disse:
— È giusto... Sia pure... Ma le domando il favore di parlare io con Matilde e di udire io stesso dalla sua bocca la mia sentenza.
Matilde acconsentì, anzi disse che le piaceva meglio esprimere essa stessa, faccia a faccia, i suoi sentimenti al cugino Lograve.
— Possibile, esclamò essa quando ebbe luogo il colloquio, è possibile che ti sia venuta l’assurda idea di sposarci noi due?... Ma non vedi che tutto ci separa, che siamo a due poli opposti per carattere, per umore, per gusti, per idee, per tutto? Sarebbe un disaccordo continuo da impiacevolire veramente la vita comune. Io già non vorrei cedere a’ tuoi modi: cederesti tu a’ miei?
— Sì, rispose Emilio, a cui la emozione rendeva più pallide le guancie, tremanti le labbra, incerti lo sguardo e la voce. Sì, io sarò tutto quello che vorrai tu.
— Sul principio, finchè dureranno i primi ardori: e quanto dureranno?
— Sempre, te lo giuro. L’amore che ho per te sento che sarà il solo e l’inestinguibile nella mia vita.
— A queste affermazioni, a questi giuramenti non può credere nemmeno chi li fa. È così variabile il cuore umano! Forse tu stesso non tarderesti a pentirti, quando, svanito il prestigio della illusione trovassi nella tua compagna ben altra donna che quella che credevi...
— Oh no!... Oh! ti conosco abbastanza... E poi, senti, t’amo tanto, mi sento a te attratto e incatenato da una tal forza che, qualunque tu fossi, anche, lasciami dire, la più triste donna, io ti vorrei mia del pari.
— Grazie tante! Ma codesto, signor mio, non è un vero amore: è un capriccio, è una follìa.
— È una passione! gridò con forza Emilio, è qualche cosa di potente, di prepotente, che supera tutto, che domina tutto... Oh credimi, nessuno ti amerà mai come t’amo io, come seguiterò io ad amarti.
E le prese ambe le mani traendola a sè.
Matilde se ne svincolò con qualche asprezza.
— Lasciami! disse. Codesto tuo affetto mi spaventa più che mi commova. Non sono tali frenesìe che procurano la felicità in un matrimonio, ma un ragionato amore, fondato sulla conoscenza dei reciproci caratteri, una reciproca stima. Non si riesce a comune felicità quando l’amore, per quanto grande, è tutto da una parte sola.
Emilio ebbe una penosa contrazione nei lineamenti del volto e un maligno sguardo negli occhî.
— Tu dunque non hai di me nessuna stima?
La fanciulla fece debolmente un atto di protesta.
— Tu dunque sai che non potresti avere per me neppure un briciolo di amore?... Tu vuoi che sia così, e te ne compiaci?...
— Puoi tu credere che in questo la volontà ci abbia qualche effetto? Avviene quello che ha decretato il destino, la natura delle cose. Due si incontrano, che non si sono mai visti e si sentono attratti a vicenda: si scoprono d’un comune sentire, s’accordano perfettamente, mentre altri, stati insieme anche degli anni, sono dai loro temperamenti, dai difetti, anche dalle qualità, affatto disgiunti.
— Tu ami qualcheduno! proruppe Emilio con voce vibrante di collera.
Matilde sostenne fermamente col suo limpido sguardo quello fieramente torbido del cubino.
— Niente affatto, rispose tranquillamente; ma di certo non isposerò che l’uomo il quale riuscirà a farsi amare.
— E io non potrò mai esser quello?
La fanciulla tacque.
— Senti! riprese Emilio dopo un poco, mite e supplichevole più che seppe. Tuo padre mi diceva che siamo ambedue troppo giovani per accasarci. Forse ha ragione. Che cosa conosci tu del mondo e degli uomini? Qualche anno che passi può persuaderti che è una introvabile chimera quell’ideale che tu vagheggi. Io farò di tutto per accostarmi al modello da te pensato: e se tu m’ajuti, chi sa che non ci riesca. Intanto il tempo, coll’opera della volontà che in me è tenace, varrà a togliere dal mio carattere certe asprezze che ti dispiacciono... Sì, credilo, Matilde, tu puoi fare di me un altro uomo... Lasciami solamente un po’ di speranza: lasciamela, se non per altro, per compassione. Se pure è vero che hai il cuore libero, concedimi un tempo di prova.
Matilde, imbarazzata, malvogliosa, teneva gli occhî a terra, ma nella sua aperta fisionomia lasciava apparire la sua disapprovazione.
— Ti chiedo un anno solo. Promettimi che per un anno tu non darai ad altri il tuo cuore e la tua mano...
Essa lo interruppe con vivacità impaziente.
— È la mia libertà che mi vuoi togliere, la franchigia del mio destino. E con qual diritto? Non comprendi che la tua pretesa è tirannica, e che la mia promessa sarebbe assurda?
Emilio, assalito da un accesso di rabbia, strinse i pugni.
— Non vuoi dunque far nulla per me?... disse coi denti serrati. A un povero che incontri per via dai il borsellino, e il raggio di sole di un tuo sorriso; e a me che soffro, a cui il tuo diniego farà soffrire tormenti indicibili, rifiuti l’elemosina d’una speranza.
— Elemosina più crudele del rifiuto, quando la speranza avesse ad essere fallace.
— Tu ami già qualcheduno, proruppe con nuovo impeto il giovane. Dimmelo francamente, tu ami qualcheduno?
— Ti ho già detto di no: rispose con dignitosa freddezza Matilde; e non so mentire.
— Guai se ciò fosse! Credi tu che io potrei vederti appartenere ad un altro? Ah no, per Dio!
L’aspetto, lo sguardo, la voce di Matilde presero un’espressione di fiera risolutezza.
— Sei in un grande errore, Emilio, diss’ella, se credi che colle minaccie potresti ottenere quello che non puoi altrimenti. Io mi sento tanto coraggio da sfidare il tuo maltalento, e l’uomo che mi amasse, ch’io scegliessi, confido che sarebbe pur tale da affrontare i tuoi sdegni.
Emilio era diventato livido affatto.
— La vedremo! disse con voce soffocata dalla collera. È questa l’ultima tua parola?
— Posso esprimerti il mio rincrescimento; ti auguro di cuore che tu possa più felicemente collocare il tuo affetto; ma d’altro, in verità, non saprei proprio più che cosa dirti.
— E sia!... Chi sa che un giorno tu non abbia a pentirtene! Sarai tu stessa che l’avrai voluto. Non ti darò più fastidio... Aspetto la mia rivincita dall’avvenire... Addio!
E se ne partì col cuore in tempesta, colla febbre nel sangue per la rabbia, per la vergogna, pel desiderio della vendetta.