La regina delle tenebre/I primi baci
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I PRIMI BACI
Jorgj Preda1, soprannominato Tiligherta (lucertola) stava ritto sopra un ciglione erboso, appoggiato ad una pertica. Da più di un quarto d’ora egli aspettava la sua piccola innamorata Nanìa, la figlia del cantoniere.
Tiligherta e Nanìa facevano l’amore da una ventina di giorni, cioè da appena si erano conosciuti. Ogni giorno verso le due pomeridiane, Nanìa passava nello stradale, andando al ruscello per recar l’acqua alla cantoniera, e Jorgj l’attendeva sul ciglione, facendo vista di guardar le pecore che a quell’ora meriggiavano fra le macchie, al confine del bosco di soveri.
Appena Nanìa spuntava nel desolato biancore dello stradale, Jorgj scendeva giù a precipizio dal suo osservatoio, e riparava all’ombra, dietro il ciglione. E Nanìa con in testa una lunga anfora arabescata, che pareva una anfora etrusca, passando dietro il ciglione si fermava tutta vibrante d’amore e di paura.
Perchè, certamente, se il babbo la scopriva a far l’amore con Tiligherta, le rompeva le costole. A quell’ora zio Gavino Faldedda, schiacciava un sonnellino o si tratteneva a coltivare il campicello attiguo alla cantoniera, ma non c’era da fidarsi.
All’ombra del ciglione, nel gran silenzio del meriggio, sotto il cielo d’un azzurro di pervinca, i due ragazzi chiacchieravano per cinque o sei minuti, scambiandosi delle frasi inconcludenti, e divorandosi con gli occhi, ma senza toccarsi neppure la punta delle dita: poi Nanìa proseguiva pensierosa la sua strada e Jorgj s’internava nel bosco sospirando dolorosamente dal profondo del cuore.
Certo egli si sentiva altero e contento di possedere finalmente una innamorata tutta sua, là, in campagna, lontano dal paese, nella solitudine del suo ovile, ma era tutt’altro che felice.
Prima di tutto c’era quello spasimo di zio Gavino, che certamente non pensava a maritar Nanìa con un ragazzaccio povero, semplice mandriano, e poi... tanti altri poi che non si potevano contare.
Basta, in attesa della leva e di tanti altri malanni, Jorgj si sarebbe contentato di aver un bacio da Nanìa. Ma questo era il guaio che più di tutti lo faceva sospirare; la piccina pareva non avesse alcuna disposizione pei baci, non voleva intenderne a parlare e senza il suo consentimento Jorgj non osava neppure sfiorarle l’orlo della gonnella.
Quel giorno però egli si sentiva un gran coraggio o meglio un insolito ardore, causatogli forse dal calore del sole, quel dì cocente assai, dall’immobilità dell’aria, dal selvaggio profumo che veniva dal bosco.
— Ah — egli pensava, socchiudendo gli occhi neri, un po’ velati — io oggi voglio abbracciarla. Vediamo un po’ cosa fa. Se strilla io le dico: Ma se non si baciano gl’innamorati chi vuoi che si baci, piccola cutrettola? E poi vediamo cosa fa! —
⁂
Ma giusto quel giorno Nanìa non arrivava mai.
Sempre fermo sul ciglione Jorgj cominciava ad inquietarsi, perchè dall’ombra proiettata sull’erba dalla lunga pertica che teneva in mano, egli s’accorgeva che le due erano trascorse.
— Che sia malata? — pensava. — Oh Dio mio, che ella abbia mangiato delle cattive erbe e sia malata? —
Intanto l’ora passava, e Nanìa non veniva.
Jorgj Preda, chiamato comunemente Tiligherta, era nativo del villaggio di Bitti, e poteva aver diciotto anni.
Assieme ad un vecchio pastore nuorese egli guardava le greggie d’un ricco signore: i pascoli ov’erano stazionati si stendevano vicini ad una delle cantoniere della strada nazionale tra Nuoro e Bitti.
Jorgj poteva dirsi un bel ragazzo, ed egli lo sapeva, alto e muscoloso, agile come un gatto selvatico coi capelli nerissimi e lucenti d’olio: aveva uno di quei profili scultori, come se ne vedono solo dalle parti di Bitti, e denti magnifici, ma la sua pelle era annerita completamente dal sole e dal freddo, e i suoi occhi annuvolati erano quasi tetri.
Allevato fra pastori di Nuoro, Jorgj parlava nuorese, ma conservava il costume del suo paese, rozzo e nero, coi calzoni di saja giallognola, stretti, corti, laceri e sporchi.
Dacchè aveva scoperto la cantoniera e s’era innamorato della piccola figlia di zio Gavino, egli si lavava il viso e le mani, e cercava pulirsi le vesti, ma nonostante tutti i suoi sforzi rimaneva nero come il demonio, e la sua berretta ed i suoi scarponi esalavano un odoraccio di mandria. Con tutto ciò, egli sapeva d’essere un bel ragazzo, e Nanìa lo amava come un idolo, egli ne era certo
⁂
E Nanìa non si vedeva ancora. Mille brutti pensieri cominciarono ad agitare il giovinetto, facendosi più dolorosi a misura che l’ombra della pertica si allungava sull’erba del ciglione. Con gli occhi semi-chiusi, più tristi del solito, egli fissava l’estremità dello stradale, ma nessun’anima viva attraversava l’immensità della campagna circostante.
Nel caldo meriggio primaverile, i boschi di soveri, intricati di cisti, di corbezzoli, di vepri tranquilli e silenziosi, avevano nelle foglie fresche e lucide, il riflesso del cielo chiaro e perlaceo, stendendosi a perdita d’occhio sino alle vanescenze, dell’orizzonte.
Dal ciglione Jorgj vedeva la cantoniera, dal cui fumaiuolo sgorgava una spira di fumo diafano, ma non scorgeva la capanna del suo ovile, situato nell’interno del bosco.
Lo stradale bianco coperto di ghiaia correva per la pianura e serpeggiava tra i boschi come un alveo disseccato dal sole, e l’erba cresceva fresca ed alta ai due lati. Una corona di montagne azzurre schiudeva l’orizzonte.
⁂
E Nanìa non veniva, Nanìa non compariva più.
Gli occhi di Jorgj, poco prima insolitamente animati dal pensiero del bacio che, volere o no, avrebbe dato alla sua piccola innamorata ora andavano rabbuiandosi sempre più e quasi si velavano di lagrime. Ah, San Giorgio benedetto, qualche cosa doveva esser successo. Forse Nanìa era malata, forse zio Gavino aveva fiutato qualche cosa e ora non lasciava venir la figliuola alla fontana. Chi sa? forse l’aveva anche bastonata... forse...
Jorgj disponevasi a lasciar il suo posto d’attesa e recarsi con qualche pretesto alla cantoniera, come ci si recava spesso, quando udì il galoppo di due cavalli e vide passare fra un lieve nembo di polvere, due bei signori cavalieri, che naturalmente non si degnarono di guardarlo. Anch’egli, del resto, badò poco a loro, scese dal ciglione e si avviò.
Ma a metà strada si fermò, commosso dalla vista della lunga anfora fiorita che egli conosceva tanto bene. Ma non era Nanìa che la portava, non era Nanìa che s’avanzava nella triste bianchezza dello stradale, col fazzoletto giallo cadente disteso sulle spalle fiammeggiante al sole.
Era la sua sorella Arrosa (Rosa).
— Perchè vai tu all’acqua, oggi? — le gridò Jorgi quasi adirato.
Invece di rispondergli, Arrosa che appena l’aveva riconosciuto aveva incominciato a far delle smorfie, si mise a strillare:
Traduz.: Lucertola, lucertola, |
Ma egli non si stizzì, non gli conveniva; anzi s’avvicinò alla piccina e ripetè meno duramente la sua domanda. Allora Arrosa temendo la picchiasse, gli fece un bel sorriso e gli rispose:
— Perchè Nanìa sta lavorando.
— E cosa sta lavorando?
— Sta lavorando a pulire, perchè vengono l’impresario e l’ingegnere. Non li hai veduti a passare?
— Ah, quei due signori? Ci vengono spesso alla cantoniera?
— Delle volte spesso e delle volte niente. Vengono quando vogliono. Cosa te ne importa? —
E passò oltre. Ma Jorgj, pensò bene di accompagnarla alla fontana per sapere qualche cosa su quei due signori, che già lo ingelosivano e indispettivano, perchè causa loro Nanìa non era venuta. Passando dietro il ciglione egli sospirò; poi indicò ad Arrosa, le pecore meriggianti e le disse graziosamente:
— Lo vuoi un agnellino? Un agnellino bianco come dente di cane?
Arrosa credette la prendesse in giro, e per vendicarsi ripetè la battorina (quartina) della lucertola; ma Jorgj l’aiutò a riempir l’anfora più lunga di lei, gliela mise sul capo, e le ripetè tanto seriamente la proposta dell’agnellino che riusci ad aver qualche particolare sui due signori.
L’impresario dello stradale era nuorese; l’ingegnere, quello della barba bionda, era continentale, ma Arrosa lo conosceva da molto, molto tempo. Ogni volta che egli veniva alla cantoniera regalava del bel danaro a Nanìa; ed essa un po’ ne dava al babbo, un po’ lo nascondeva entro un sacchettino, sotto i materassi. Ed a lei, ad Arrosa, l’ingegnere non dava mai nulla, perciò essa non lo poteva vedere.
— Come si chiama? — chiese Jorgj facendo una smorfia.
— Il signor Guglielmo...
— Restano lì a dormire?
— Sì. —
Ad un tratto Jorgj piantò la piccina, e se ne andò via, cupo in viso.
— Tiligherta — gridò Arrosa — ricordati l’agnellino, l’agnellino... —
Egli non rispose e in breve scomparve nel bosco. Una terribile gelosia cominciò a tormentarlo. Tornò all’ovile ma sentivasi così contrariato, così di malumore che si bisticciò con zio Concafrisca, l’altro pastore, e per poco non lo bastonò. Poi riprese a battere il bosco trascinando la sua tristezza per le macchie odoranti, vagando nel tramonto di rosa, senza poter far nulla per tutto il resto del giorno.
All’imbrunire s’avvicinò alla cantoniera, ma non ebbe il coraggio d’entrarvi. Per lung’ora si aggirò intorno, come un’anima dannata, ma solo di notte potè accostarvisi.
Benché dal fumaiolo s’innalzasse ancora una sottile striscia di fumo perdentesi nella limpida serenità del cielo chiaro, un gran silenzio regnava nella cantoniera. La porta e le finestre erano chiuse: solo una finestra a pian terreno era illuminata, e proiettava un quadrato di luce gialla sullo stradale.
Jorgj Preda s’avvicinò a quella finestra, e dentro la cameruccia poveramente arredata vide il signore dalla barba bionda, quello che Arrosa aveva detto esser l’ingegnere, a testa nuda ed in maniche di camicia. Forse si preparava ad andar a letto. Era alto e magro, con piccoli occhi azzurrastri, stretti agli angoli in un modo assai strano che dava una espressione simpatica, come sorridente, a tutta la fisonomia. Un bell’uomo, infine, né vecchio né giovane; ma ad ogni modo un bell’uomo.
Jorgj lo divorava con gli occhi allorché vide entrare Nanìa. Un fremito agitò il giovinetto alla vista della fanciulla; e come per timore d’esser veduto da lei, egli indietreggiò con un balzo serpentino. Un cupo presentimento lo teneva sospeso e angosciato, e la vista di Nanìa gli causava un fremito di tenerezza, di desiderio, di gelosia.
Ah, era ben lei, la piccola streguccia sottile e melanconica! Che veniva a fare nella camera del bel signore continentale? Nel suo visino di quindici anni aleggiava una serietà quasi tragica: il fosco pallore della sua carnagione veniva accresciuto dall’aureola dei foltissimi e crespi capelli d’un biondo cinereo.
Ella curvava un po’ il capo verso l’omero sinistro, quasi la massa di quei capelli chiari pesasse sulla sua testa di donnina cresciuta innanzi tempo. Ah sì, ella era cresciuta innanzi tempo; da due anni, infatti, dopo la morte della mamma era la padrona di casa, la massaia e la serva di quella cantoniera perduta nella solitudine della selvaggia pianura.
Nanìa faceva di tutto e non perdeva un minuto di tempo: puliva la farina, cuoceva il pane, allevava le galline ed il porchetto, cucinava e cuciva: solo da qualche settimana pareva distratta, trascurava le faccende domestiche e si assentava troppo a lungo quando andava alla fontana. A momenti, invasa da insolita allegria, cantava come un’allodola, correva e rideva pazzamente; poi cadeva in tristezza, taceva, spesso piangeva segretamente. E zio Gavino, occupato nel suo eterno stradale, non si accorgeva di nulla.
⁂
Dallo stradale Jorgj Preda fremente e cupo, fissava gli occhi attraverso i vetri della piccola finestra, seguendo ogni movimento dell’ingegnere e della piccola strega che lo aveva ammaliato.
Nanìa indossava un corsetto di broccato molto consunto, allacciato sul davanti da una molteplice incrociatura di nastro rosso, sulla camicia dalle larghissime maniche abbottonate ai polsi. Intorno al sottile collo rosseggiava una rozza collana di corallessa: ella era scalza, a testa nuda, e recava un boccale d’acqua nella camera dell’ingegnere.
E Tiligherda vide dapprima la sua piccola innamorata sorridere melanconicamente al bel signore, e questi avvolgerla tutta in uno sguardo ed un sorriso amabilissimi.
Fin qui niente di male, sebbene non ci fosse da stare contenti. Graziosa e svelta Nanìa depose il boccale accanto al rozzo lavabo, poi si fermò vicino all’ingegnere che le diceva qualche cosa. Perchè si fermava quella fraschetta? Perchè non se ne andava via subito? Perchè parlava col signore? Jorgj Preda non udiva nulla; d’altronde le orecchie gli zufolavano e anche fosse stato dentro la camera non avrebbe udito niente, tanto la gelosia e la collera lo stordivano.
Ah, non v’era più dubbio, non v’era più dubbio!.. Nanìa lo tradiva, a Nanìa piacevano i bei signori puliti e ricchi, anche se non tanto giovani...
Jorgj sentiva il sangue montargli alla testa; voleva gittarsi sui vetri, romperli coi pugni, e gridare: son qui io! voleva correre alla sua capanna, armarsi d’archibugio, tornare, ammazzare quel signore che gli rubava la vita, l’anima, ma non si muoveva.
Ah, ciò che egli vedeva, ciò che egli vedeva! Credè d’impazzire, si torse tutto, d’un balzo fu nuovamente vicinissimo alla finestra. L’ingegnere accarezzava Nanìa con le sue bianche e delicate mani, le sfiorava i capelli, le sorrideva, le parlava, la baciava! Capite, la baciava! Ed ella lasciava fare, e sorrideva e piangeva nello stesso tempo.
Jorgj gemè come una bestia ferita. L’ingegnere dovette sentire qualche cosa perchè s’accostò alla finestra; ma Jorgj s’era bruscamente tirato indietro e non fu veduto. Egli vide il quadrato di luce sparire dallo stradale, s’accorse che gli sportelli della finestra erano stati chiusi, e gli parve di precipitare in un pozzo buio e profondo. Allora fu preso da una rabbia immane, da una grande vigliaccheria. Si gettò sulla porta della cantoniera e picchiò forte. Voleva svegliare zio Gavino, chiamarlo, gridargli:
— Guardate ciò che accade in casa vostra, guardate, vecchio montone! —
Ma appena ebbe picchiato scappò via, attraverso lo stradale, via per il bosco buio. Un’altra idea ben più feroce lo sospingeva: egli avrebbe ammazzato l’ingegnere.
⁂
Dall’alba Jorgj Preda, appostato dietro una fratta, a un quarto d’ora di distanza dalla cantoniera, armato terribilmente, aspettava che passasse l’ingegnere per tirargli un’archibugiata numero uno.
Il giorno prima Arrosa gli aveva detto che i due signori l’indomani all’alba avrebbero proseguito per l’altra cantoniera; ed egli aspettava, appostato nella fratta come un cacciatore, con una feroce decisione nel volto scomposto e negli occhi più tetri del solito.
Nella fresca aurora primaverile, un vago incantesimo di silenzio, di pace, di luminosità e di profumi teneva il paesaggio; l’ultima linea del bosco s’indorava al riflesso dell’oriente d’oro, e nelle macchie brillava la rugiada e cantavano gaiamente le agasselle, ma Jorgj Preda non vedeva nulla, non udiva nulla e si disponeva a turbare con un delitto quell’idilliaca poesia mattutina. Dalla fratta egli dominava un buon tratto di stradale, e vedeva il piccolo ponte sotto cui scorreva un filo d’acqua smorta, assorbita dagli alti giunchi e dall’asfodelo che copriva le rive del ruscello.
E ripensava istintivamente ai sogni fatti tante volte, seduto sul parapetto del ponte, alle canzoni cantate con voce altissima, perchè venissero intese in lontananza da Nanìa, a tutte le dolcezze di quelle tre settimane d’amore. A momenti, ricordando la felicità perduta lo vinceva una tenerezza accorata, quasi una voglia di piangere; e gli pareva d’aver quella notte sognato un bruttissimo sogno, ma il dolore della realtà lo riprendeva ben presto, e la decisione del delitto si faceva più forte.
Ma i due signori non passavano più ed a Tiligherta ogni minuto pareva un secolo, tanto più che poteva passar gente, e nell’inquietudine egli temeva anche di sbagliare il colpo.
⁂
Eccoli finalmente! Il sole stava per sorgere sul lucente orizzonte, allorchè Jorgi Preda scorse i due cavalieri e sentì la voce aborrita dal suo rivale.
Traverso i cespugli intricati del suo nascondiglio, con gli acuti occhi di falco spalancati ed avidi, il giovane pastore fissava l’ingegnere, esaminandolo attentamente; e una contrazione amara gli increspava le labbra bianche di disperazione.
Ah, quel signore era bello e pulito. Cosa contava lui, Jorgj Preda, la Tiligherta, col suo volto nero ed i suoi stracci, cosa contava lui davanti a quel signore bianco e ben vestito? Nanìa, sottile e graziosa come una signora, aveva ben ragione di preferire il signore alla lucertola umile e selvaggia; ma allora perchè se le piacevano i signori, perchè aveva stregato il povero pastore, perchè gli aveva detto di volergli bene, di attenderlo, di sposarlo? Perchè, Nanìa, perchè?..
Sul punto d’assassinare un uomo Jorgj Preda sentiva una spasmodica voglia di piangere. I signori si avvicinavano. Tiligherta rivide Nanìa, la piccola Nanìa, ch’egli adorava ancora come nostra Signora del Miracolo, fra le braccia dell’ingegnere, e sollevò il vecchio archibugio, mirando freddamente con un occhio solo.
Passando sotto il tiro del suo assassino, l’ingegnere, che certo pensava ad altro che al pericolo sovrastante, sollevò la testa e si tolse il gran cappello grigio tenendolo un po’ sull’arcione: intanto ragionava col compagno, ad un tratto sorrise, col viso rivolto verso la fratta dove stava Jorgj. Pareva lo scorgesse e sorridesse a lui.
Il sole spuntava in quel momento e la sua prima luminosità d’un giallo roseo inondava lo stradale e illuminava il volto sorridente dell’ingegnere.
Jorgj non sparò, lasciando passare sano e salvo il suo rivale. Il volto illuminato e il sorriso dell’ingegnere gli avevano gittato nell’anima sconvolta un lampo di luce, e avevano fermato la sua mano.
⁂
Alle due, appoggiato alla sua lunga pertica, lo scettro da pastore, ritto come il giorno prima, fra l’erba e le margherite del ciglione, Jorgj Preda spiava l’arrivo di Nanìa.
La mattina s’era recato a Nuoro con l’entrata, cioè col formaggio fresco, la ricotta e il latte del giorno prima, e aveva profittato dell’occasione per cambiarsi le vesti e pulirsi. Nella bianchezza opaca della camicia pulita, ora il suo volto, ancora pallido per l’emozione sofferta, pareva quasi bianco: la sofferenza e l’insonnia gli avevano affilato i lineamenti e cerchiato gli occhi.
Nanìa venne puntuale. Anch’essa era più pallida e più seria del solito: nel suo gran fazzoletto color d’oro disteso come un manto sulle spalle, ella pareva una di quelle figure sacre che si ammirano in qualche tela italiana del secolo XV.
A Jorgj sembrò più bella che mai, e appena la vide sentì una dolcezza mai provata, e rimase estatico a guardarla.
Appena furono dietro il ciglione ella lo guardò sorridendo e gli disse con una voce sottile sottile:
— Perchè sei così bello oggi? — Egli non rispose subito, la guardò fisso, severo, e volle mostrarsi cupo, nonostante la tenerezza che provava.
— Sei più bella tu! — disse poi con voce irata. E togliendole di mala maniera l’anfora che depose per terra, aggiunse con lo stesso tono: — Oggi dobbiamo parlare a lungo, Nanì... —
Essa ebbe quasi paura e lo guardò spaventata.
— Cos’hai, oggi? — domandò.
— Siedi — egli rispose costringendola a sedersi sopra una pietra. — Siedi, chè parliamo.
— Non mi fermo, non mi fermo — ella disse cominciando a tremare — il babbo...
— Tuo padre è lontano, che il diavolo lo trovi... Nessuno ci vede. E anche se ci vedono che male c’è? Non possiamo esser amici, conoscenti?
— Perchè parli così? Cosa sono queste eresie? Io non posso, non posso... lasciami.
— Lì! Ferma! — gridò egli stringendola per le braccia. Ella provava paura e piacere nello stesso tempo.
— Mi fai male — disse tutta tremante. — Cosa hai oggi? Sei forse arrabbiato perchè ieri non venni? Ma se non ho potuto! C’era l’impresario, c’era l’ingegnere, sai; ho dovuto lavorare tanto; sai che faccio tutto io. —
Vedendola tremare e impallidire Jorgj la lasciò stare, ma si fece cupo e s’allontanò alquanto, spiando sempre il volto di lei. Un gran buio si faceva nell’anima sua: ah, no, egli non aveva più dubbi; Nanìa lo tradiva, si vedeva bene. Ella aveva paura, ella non voleva fermarsi, ella tremava parlando dell’ingegnere. Ella lo tradiva, lo tradiva: ah, che stupido era stato!
— Cos’hai? cos’hai? — ripeteva Nanìa. — Dimmi che hai?
— Che ho? — gridò egli, agitando le braccia come un pazzo. — Ora ti dirò cosa ho! Anzi no, non te lo dirò, perchè tu lo sai meglio di me...
— Io non so nulla, Jorgj! Io non so nulla! Sei matto, tu?
— Sì! Trattami anche da matto! Giusto appunto! Senti Nanìa, tu sei piccola, ma sei più maligna di me. Anzi, uomini come me, tu ne metti cento nel sacco. Ma voglio dirti che non continuerai a riderti di me, no, non continuerai. Mi hai preso per un ragazzo, tu, per un matto? Credi tu ch’io sia davvero una lucertola? Ti sbagli biondina! Sono un povero pastore nero, straccione, miserabile, rognoso tutto quello che vuoi, ma tu non dovevi riderti di me, perchè dovevi sapere che io son buono a farti pagar caro questo giuoco, Nanì, lo senti, Nanì!.. —
Com’era minaccioso! aveva gli occhi chiari per la rabbia e le mani gli tremavano. Nanìa lo guardava stupita; e quando egli ebbe finito non trovò parole per rispondergli.
— Non rispondi, piccola serpe, eh, non rispondi? — egli gridò.
— Parla piano! — diss’ella alfine tendendo le mani. — Se mio padre ci sente!..
— Tuo padre! — esclamò Jorgj con disprezzo, sputando: — Ecco cosa è tuo padre. Egli non vede e non sente neppure entro casa sua! È un tappo di sughero. Che venga, che venga pure qui! Lascialo venire che io gli aprirò gli occhi a tuo padre.
— Ma cosa hai? Cosa ti hanno raccontato? — domandò Nanìa con disperazione.
— Nulla! nulla mi hanno raccontato! Ho veduto io, con questi occhi; io ho veduto, capisci? Eh, perchè avete lasciata la finestra aperta, bella mia, eh! Ma questa mattina se l’ha veduto tra il naso e le labbra ad esser massacrato il tuo bel signore! Ah, ti piacciono i signori? Le camicie inamidate ti piacciono? Ma a quanto pare ti piacciono anche i pastori sporchi! Tutti ti piacciono, ecco, tutti! che cosa sei tu, di’, che cosa? Perchè cominci così bene? (Intanto l’afferrò di nuovo e la scosse tutta, parlandole come in delirio). Ma io lo ammazzerò, berrò il suo sangue! Questa mattina me l’ho lasciato scappare perchè... guarda come sono pazzo... l’ho visto al sole, sorridere in un certo modo, e mi è sembrato che ti somigliasse, ed ho pensato, guarda che matto, ho pensato così: chissà che sia suo padre! Così ho pensato; ma ora mi accorgo che è una pazzia questa. Che tuo padre! È il tuo amante, e tuo padre è zio Gavino Faldedda, che il diavolo gli roda l’anima, e tu sei... tu sei... — concluse Jorgi stringendo i pugni e dandole un terribile insulto.
Tutti i colori dell’arcobaleno passavano sul viso dolente di Nanìa. Il cuore, il suo piccolo cuore, pareva volesse spezzarsi, saltar fuori dal petto ansante: grosse lagrime le piovevano dagli occhi. Non cercò negare e neppure parlare: solo invasa da una grande paura, temendo che Jorgj le facesse del male, pensò di scappare, e lo fece così abilmente che Tiligherta stentò a raggiungerla nello stradale.
— Nanìa — gridò afferrandola al braccio e sorridendo suo malgrado — non ti credevo così cattiva! Perchè fuggi? Hai forse paura che ti uccida? —
Ella si volse e vedendolo sorridere sorrise anch’essa. Il fazzoletto le era caduto dalle spalle e il sole le illuminava il viso e la testina bionda. Jorgj Preda la guardò avidamente: dapprima provò un grande stupore; poi gli occhi gli brillarono di gioia. Il viso sorridente e gli occhi azzurri verdognoli di Nanìa e il suo sorriso e tutti i tratti della sua fisonomia erano somigliantissimi a quelli dell’ingegnere.
— Nanìa, scusami, Nanìa mia, perdonami... — disse Jorgj ridendo e singhiozzando. — Vieni, facciamo la pace. Come è vero Dio, com’è vera nostra Signora del Miracolo, io non dirò a nessuno questo fatto. Se vuoi non ne terrò mai neppure parola con te; non ti chiederò mai nulla, non ti domanderò come hai saputo... com’egli abbia fatto a dirti, e da quando e perchè... niente, niente ti chiederò, te lo giuro, mai, mai più... Ma vieni là a prender l’anfora, andiamo, vieni, vieni... —
La prese quasi fra le braccia e la ricondusse all’ombra. Ella si lasciò condurre, più morta che viva, pallida, immota, ma quando egli aggiunse imprudentemente:
— Chi poteva pensarlo? chi lo poteva credere? È stata tua madre a dirtelo... —
Nanìa si eresse, arrossi d’ira e gridò fieramente:
— Mia madre è morta! Lasciala in pace... era una santa donna! L’ingegnere mi ha baciata perchè io sono la sua amante, come tu hai creduto. E ora fa quello che ti pare e piace, e se credi uccidimi pure, Jorgj Preda!.. —
E schiantò in pianto, perchè credeva ingenuamente che dopo queste parole Jorgj Preda l’avrebbe piantata, se non più. Ma Jorgj Preda aveva veduto. Per qualche momento rimase immobile e istupidito a guardare la sua piccola innamorata, i cui singulti infantili e disperati si perdevano nel gran silenzio meridiano in quell’angolo di paesaggio dormiente e non vedeva altro, non udiva altro.
Ma internamente provava qualche cosa di strano, come se una mano gli stringesse il cuore, come se mille voci gli risuonassero entro il petto, e davanti alla piccola Nanìa che sacrificava il suo onore e il suo amore credendo di poter così salvare la memoria della mamma, gli pareva che anche la sua anima fosse nera e vestita di stracci come il suo corpo.
— Io sono indegno di lei, io sono una vile lucertola — pensò. — Io dovrei andarmene. Essa sposerà un signore. Quando morrà zio Gavino, l’ingegnere la prenderà con sè, le farà la dote, e la legittimerà. Essa sarà una signora, essa è una piccola santa, ed io sono un vile, io me devo andare. Via, via, va via, Jorgi Preda, va via, lucertola vile... Ma non poteva muoversi. Ah, chi poteva muoversi ricordando le belle promesse scambiate, i sogni fatti laggiù, sul ponte, mentre le greggie s’abbandonavano tra l’asfodelo e i giunchi, e il bacio, il bacio non ancora scambiato?
Si avvicinò, si chinò su Nanìa.
— Lasciami stare... — ella disse.
Ma Jorgj Preda aprì le braccia, la prese e le diede tanti baci finchè riuscì a farsene ricambiare più d’uno.
FINE.
Note
- ↑ Pietro.