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sorriso dell’ingegnere gli avevano gittato nell’anima sconvolta un lampo di luce, e avevano fermato la sua mano.
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Alle due, appoggiato alla sua lunga pertica, lo scettro da pastore, ritto come il giorno prima, fra l’erba e le margherite del ciglione, Jorgj Preda spiava l’arrivo di Nanìa.
La mattina s’era recato a Nuoro con l’entrata, cioè col formaggio fresco, la ricotta e il latte del giorno prima, e aveva profittato dell’occasione per cambiarsi le vesti e pulirsi. Nella bianchezza opaca della camicia pulita, ora il suo volto, ancora pallido per l’emozione sofferta, pareva quasi bianco: la sofferenza e l’insonnia gli avevano affilato i lineamenti e cerchiato gli occhi.
Nanìa venne puntuale. Anch’essa era più pallida e più seria del solito: nel suo gran fazzoletto color d’oro disteso come un manto sulle spalle, ella pareva una di quelle figure sacre che si ammirano in qualche tela italiana del secolo XV.
A Jorgj sembrò più bella che mai, e appena