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Appena Nanìa spuntava nel desolato biancore dello stradale, Jorgj scendeva giù a precipizio dal suo osservatoio, e riparava all’ombra, dietro il ciglione. E Nanìa con in testa una lunga anfora arabescata, che pareva una anfora etrusca, passando dietro il ciglione si fermava tutta vibrante d’amore e di paura.
Perchè, certamente, se il babbo la scopriva a far l’amore con Tiligherta, le rompeva le costole. A quell’ora zio Gavino Faldedda, schiacciava un sonnellino o si tratteneva a coltivare il campicello attiguo alla cantoniera, ma non c’era da fidarsi.
All’ombra del ciglione, nel gran silenzio del meriggio, sotto il cielo d’un azzurro di pervinca, i due ragazzi chiacchieravano per cinque o sei minuti, scambiandosi delle frasi inconcludenti, e divorandosi con gli occhi, ma senza toccarsi neppure la punta delle dita: poi Nanìa proseguiva pensierosa la sua strada e Jorgj s’internava nel bosco sospirando dolorosamente dal profondo del cuore.
Certo egli si sentiva altero e contento di possedere finalmente una innamorata tutta sua, là, in campagna, lontano dal paese, nella solitudine del suo ovile, ma era tutt’altro che felice.
Prima di tutto c’era quello spasimo di zio