La mia vita, ricordi autobiografici/XXIX

Capitolo XXIX. Sorrisi e lacrime

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XXVIII XXX
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XXIX.

Sorrisi e lacrime.

(1886-90).

Nel 1886 erano già undici anni che io lavoravo assiduamente, e se si toglie qualche raro giorno di lieve stanchezza cerebrale, non avevo mai risentito nell’esercizio della mia professione disturbi tali che potessero indurmi a moderare, sia pure in qualche parte, il mio ardore. Come ho già detto in altre pagine di questo libro ho sempre nutrito la segreta speranza che il governo del mio paese volesse premiare la mia lunga operosità di scrittrice affidandomi qualche incarico, che, mentre mi assicurasse un piccolo conforto nei giorni non lontani del dolore, mi avesse dato modo di attendere ai miei studi letterarî con più pace e con maggiore tranquillità. Il mio desiderio parve che fosse esaudito e verso il 1885 o il 1886 (non mi ricordo più benissimo la data) fui proposta come insegnante di italiano nella scuola normale femminile di Firenze. Le trattative parve che approdassero bene, perchè il professor Aimo direttore della scuola normale, ed amico mio personale venne in persona in casa mia, a congratularsi per la nomina.

Di lì a pochi giorni mi riconfermò la nomina e aggiunse i suoi rallegramenti a quelli del mio vecchio amico, anche il comm. Masi, che era allora provveditore agli studî per la provincia di Firenze. Avendo [p. 228 modifica] ricevuto quelle due visite era naturale che aspettassi da un giorno all’altro l’ordine di recarmi a far la prima lezione alle Scuole Normali, quando tutt’ad un tratto la nomina sfumò, come sfumano le nuvole nelle belle giornate d’agosto.

La mia meraviglia fu grandissima, tanto più che le cose erano ormai giunte a un tal punto che non pareva possibile si potesse ritornare indietro. Si ritornò invece molto bene indietro, tanto indietro che un’altra fu nominata al mio posto ed io ebbi, come suol dirsi, il male, il malanno e l’uscio addosso.

Il colpo era stato troppo forte perchè io, prima per desiderio di giustizia, e poi per curiosità femminile non cercassi di scoprirne subito l’autore. Mi diedi quindi anima e corpo a snodar le fila dell’intrigo e dopo non molto riuscii al mio intento. Fu una disillusione di più, non lo nego: fu come un velo che mi cadde dagli occhi. Il male era stato fatto da un amico carissimo, che io non avrei creduto mai capace di un’azione così bassa e volgare.

Ma ora l’amico riposa nella pace tranquilla del camposanto e il piccolo screzio non turba affatto la memoria affettuosa che io serbo ancora di lui.

Dopo, pochi mesi dal fatto, gli perdonai di gran cuore, e strinsi di nuovo con lui relazioni amichevoli.

Dopo l’esito disastroso di questo mio... tentato ingresso nel mondo ufficiale dell’insegnamento, ritirai le corna in dentro, e seguitai filosoficamente la mia strada. Conoscevo ormai da troppi anni e con troppa esperienza gli uomini e le cose di questo mondo, perchè potesse affliggermi profondamente l’indelicatezza di una simile azione. [p. 229 modifica]

Seguitai, dunque, a dirigere la mia Cordelia, a scrivere i miei articoli, a mettere insieme i miei volumi di educazione e d’arte, a riscuotere abbondantissime messi di lodi e di elogi... e ad impinguare le tasche dei miei accorti editori.

Pure, se questi simpatici mecenati della letteratura nazionale avessero retribuito non dico con maggior larghezza, ma semplicemente con più giustizia il mio lavoro, io forse non avrei dato al mio paese un numero così prodigioso di volumi. Miss Barnett, la celebre scrittrice inglese, arricchì per la pubblicazione del solo romanzo «Il piccolo lord Fauntleroy»; io avrò scritto almeno quaranta volumi che lo equivalgono; ma la mia profonda inesperienza in materia amministrativa mi ha tolto, per sempre, il modo di potermi assicurare l’agiatezza di una comoda vecchiaia. Io sono stata... e diciamola pure la gran parola, con buona pace dei miei editori passati, presenti e futuri..., passabilmente sfruttata. E questo è quanto. Se a qualcuno riesce di dimostrarmi il contrario, si faccia avanti.

Verso la fine del 1887 l’eccessivo lavoro intellettuale determinò i primi sintomi di una profonda neurastenia che mi è durata circa dieci anni, procurandomi talvolta delle sofferenze atroci. Mi soffermerei lungamente a descrivere i caratteri di questa strana malattia, se l’indole rigorosamente scientifica della trattazione non disarmonizzasse col contenuto generale di questo libro.

Del resto, la neurastenia è oggi così diffusa, e l’esserne affetti è un indizio così chiaro di squisita [p. 230 modifica] modernità che gli «amatori del genere» potrebbero chiederne informazioni a molti giovani fanées, stanchi... dell’automobile e spossati dal... lawntennis; potrebbero ottenere notizie preziose dalle nevrotiche donnine a cui l’ozio cerchia di bistro gli occhi profondi. Se tutto ciò non è neurastenia, non saprei che cosa indicar loro di meglio. Quanto al mio signor me, e alla mia malattia, che — ahimè — fu reale e dolorosissima, voglio conservare almeno il pudore delle sofferenze. Questo non è un libro di patologia, nè le torture della nevrosi debbono turbare la serenità di chi legge. Di un solo fenomeno strano posso qui render conto; il fenomeno di sdoppiamento, il quale concedeva ad una parte sanissima della mia personalità, l’esame freddo, ragionato, sistematico dell’altra parte ammalata. Durante tutto il tempo della tormentosa neurastenia v’è stato un io sano che ha assistito — immaginatevi con che strazio! — alle sofferenze dell’io infermo.

Durante i primi anni di questo male, il lavoro mi riusciva penosissimo pure era necessarissimo lavorare, e per di più lavorare con l’organo ammalato cioè col cervello. Della difficoltà dell’impresa si può fare un’idea approssimativamente chi si immagini un povero zoppo costretto alla corsa o un povero monco della mano destra obbligato a tirare di scherma. Pure, dovendo in ogni modo lavorare, e non potendo assolutamente star seduta io mi feci costruire appositamente un alto leggìo di legno coperto di stoffa verde, che conservo ancora in uno degli angoli di questa stanza, ove scrivo. Là, in mezzo a inenarrabili torture ho lavorato parecchi mesi, raddrizzandomi via via che me lo concedevano gli impeti del male. Non si trattava di esaurimento, ma di [p. 231 modifica] eccitazione nervosa; tanto è vero che l’uso dei deprimenti come i bromuri, calmava come per incanto le mie sofferenze. Ma che fosse esaurimento credevano in buona fede e andavano spargendo tra il loro pubblico molti amici ai quali in fondo in fondo non credo che dispiacesse troppo la mia malattia. Una scrittrice esaurita non scrive più; e una concorrenza di meno ha sempre un certo valore nel mercato giornalistico e librario.

Quando mi venne all’orecchio la nuova malignità, prese il sopravvento al male il mio carattere naturalmente sdegnoso; le sofferenze, sotto la suggestione del risentimento, sparvero come per incanto: mi parve che nel cervello corresse un’onda di linfa e di vita nuova e fu allora che dalla penna mi sgorgarono «Gli amici di Giobbe» una delle pagine, più amare, più sentite e più vissute che io abbia mai scritto1. [p. 232 modifica]

In questa dolorosa occasione potei conoscere quanto fossero grande l’anima e il cuore dell’on. Paolo Boselli, allora ministro della pubblica istruzione. Egli venne a conoscere la mia malattia e cercò di [p. 233 modifica] temperarne lo spasimo aiutandomi materialmente in tutti quei modi che gli concedeva l’elevatissima posizione sociale, e accompagnando le frequenti e vistose gratificazioni con lettere squisite, tutte scritte di suo pugno, improntate a una tenera gentilezza, che differivano — oh di quanto! — dalle laconiche epistole [p. 234 modifica] d’altri amici e colleghi, i quali conquistato il potere supremo si ricordavano appena di chi era stato loro compagno in altri tempi, e lo trattavano con quella leggiera alterezza che dà la coscienza della propria superiorità!

La gentile condotta del Boselli verso di me durò fino alla metà dell’anno 1889; l’eccellente uomo non [p. 235 modifica] si contentava soltanto di inviarmi aiuti materiali, ma si occupava anche, con grande ardore, di trovarmi un ufficio che potesse nel tempo stesso appagare le mie esigenze, e non affaticarmi troppo. La carriera dell’ispettorato avrebbe fatto forse al caso mio se le condizioni della mia salute fossero state più floride. [p. 236 modifica]

Non potei quindi accettare molte vantaggiose proposte, e dovei rifiutare recisamente l’incarico quando l’on. Boselli, in una delle sue brevi e caratteristiche letterine mi domandò se avessi voluto recarmi per qualche mese, in Sardegna. Era proprio destinato che io non fossi nè insegnante nè ispettrice: era proprio destinato che io non dovessi mai e poi mai dipendere [p. 237 modifica] da quell’infausto Ministero della Pubblica Istruzione le cui gravi magagne, in fatto di pedagogìa... e di giustizia, ho così spesso flagellato a sangue negli articoli, nei libri, e pur troppo, nelle conferenze. Seguitai dunque ad essere scrittrice e giornalista, docile alle ingiunzioni del fato.

Me ne capitò un’altra addosso, in quel benedetto biennio 1888-1890. L’Ebe, la figliuola della mia amata sorella, che avevo tenuta da piccina presso di me e che in casa mia era ritornata, già giovinetta, una volta terminata la sua educazione nel convento fiorentino di San Niccolò e aver preso la patente superiore di maestra nella nostra Scuola Normale, volle che io le cercassi un impiego, o in Firenze o fuori.

La volli contentare perchè ho sempre creduto che ogni individuo nel mondo debba pensare a sè stesso e mettere in opera le proprie forze per rendersi meno cruda e meno dolorosa la vita. E alla regola non mi piaceva che facessero eccezione le donne perchè donne. Ho sempre nutrito una grandissima antipatia per la cosiddetta «caccia al marito» che dà al matrimonio il valore di un impiego e all’amore il significato di un contratto commerciale; ed anche allora, quantunque non fossi, come sono oggi, femminista convinta, ero persuasissima che come gli uomini, anche le donne avessero diritti pari ai loro doveri e che fosse una solenne ingiustizia imporsi alla loro volontà e paralizzare la loro perfetta libertà di pensiero e d’azione, in nome di una supremazia ridicola e di una morale gretta e piccina di cui sono i capi saldi l’avvilimento e la umiliazione!

Il posto all’Ebe fu trovato, a Genova. Ma pur troppo, dopo poco tempo ebbi dall’Ebe stessa e dalla direttrice [p. 238 modifica] del collegio in cui mia nipote insegnava, la notizia ch’ella intendeva assolutamente di consacrarsi alla vita religiosa e di prendere il velo di monaca.

Il fatto mi colpì, tanto più che l’Ebe, quantunque non avesse mai trascurato quelle pratiche di pietà che la fede sincera e la natural gentilezza di donna le suggerivano, non aveva mai dato a divedere un entusiasmo troppo spinto verso la vita monastica. Ella era spiritosa, disinvolta in società, e moderna nel senso più genuino della parola.

Spaventata da questo improvviso voltafaccia, corsi a Genova, parlai con l’Ebe, e riuscii a condurla con me, per qualche giorno, a Firenze. Nella brevissima permanenza che — ahimè! — doveva esser l’ultima, cercai inutilmente di persuaderla a rinunziare a una idea che per esserle nata così improvvisamente nello spirito, aveva tutto il carattere di una vera e propria suggestione. Ma in certi casi l’ostinatezza ha una logica spietata, e gli argomenti umani non fanno presa su spiriti che sono o si credono ispirati direttamente dal Signore. L’Ebe fu irremovibile; mi giurò che non mi avrebbe mai dimenticata e che sarei rimasta sempre viva nella sua memoria e nel suo affetto! disse che a quel proponimento era stata condotta da una ferma, lunga, e irresistibile vocazione... e mi lasciò. Dopo alcuni anni di soggiorno in Francia, a Lione, fu — non so se per ordini superiori o per deliberazione propria — traslocata a Torino. E a Torino è ancora, felice della nuova vita che la mette direttamente in comunione con Dio. Ora ogni rimpianto è inutile; si è compiuto quel che si doveva compiere. [p. 239 modifica]

L’Ebe, partendo, mi rese ancora più sola. La mia famiglia si era a poco a poco dissolta.

Press’a poco in quest’epoca le scrittrici italiane furono messe a sovvallo per il concorso alla pensione Milli.

La celebre poetessa aveva goduto l’usufrutto vita natural durante, una pensione che le era stata assegnata in ricompensa de’ suoi pregevolissimi lavori letterari. Morta la Milli la pensione doveva esser passata, non a’ suoi naturali eredi, ma a quella delle scrittrici italiane che con le opere dell’ingegno avesse onorato il paese natale.

Non importa dire che se non per la qualità, certo per la quantità delle opere pubblicate, io potevo mettermi fra le primissime scrittrici e credevo quindi di poter aspirare al premio Milli, tanto più che un simile aiuto finanziario, in quei momenti, e in tali condizioni di salute sarebbe stato la man di Dio. Pensai bene di concorrere anche perchè non volevo che si imputasse quella volta a orgoglio poco giustificabile la mia natural ritrosìa, e mettendo in pratica tutti i buoni consigli che negli anni trascorsi mi avevano dato i buoni amici e le buone amiche, a’ quali ero sempre parsa troppo ingenua e minchionciona, cercai con tutti i mezzi possibili di favorire me stessa, e di farmi avanti sostenuta e incoraggiata2. Inviai a chi dovevo le mie pubblicazioni i [p. 240 modifica] miei titoli, i certificati d’insegnamento, le annate del Giornale che dirigevo e mi feci raccomandare caldamente da persone influentissime, fra le quali — e più influente di tutti — il ministro della Pubblica Istruzione; feci insomma tutto quello che fa un modesto impiegatino per conquistare una piccola promozione od ottenere un aumento di stipendio.

Ma nè i miei sessanta volumi di educazione, nè la fierissima malattia nervosa da cui ero stata colpita, nè i miei titoli pedagogici, nè le raccomandazioni di illustri personaggi, nè l’amicizia di un ministro poterono spuntarla sulla cocciutaggine di un comitato il quale, esaminando i titoli delle concorrenti, s’era partito dal concetto di non volermi favorire a nessun costo. Facevano parte di quel comitato alcuni, che oggi son morti e che avevan fama di generosità e di bontà: non voglio in queste pagine ricordare il loro nome; ma non è possibile, per un malinteso senso di pietà, che io ne taccia l’azione, così ingiusta e così crudele verso di me. La pensione Milli fu decretata ad Ada Negri, e otto anni dopo a Sofia Bisi Albini.

Mentirei a me stessa e anche al pubblico che legge queste mie memorie se dicessi che della solenne ingiustizia il risentimento non fosse grande. Poi siccome tutto passa, e anche il dolore — per provvidenziale bontà di Dio — si lenisce con gli anni, finii col sorridere di ciò che un giorno mi fece piangere amaramente. Anche gli scrittori e gli artisti sono uomini e dell’umanità hanno spesso tutte le debolezze e le piccinerie. Ed io confesso francamente questa.




  1. La riporto qui, per intero, anche per mostrare a qualcuno de’ giovani che mi leggerà, come tutto sia utile all’artista; anche un senso di sdegno e una fiera ribellione dello spirito.
    La bellezza ha spesso bisogno del dolore. Non dico che questa pagina sia bella; ad ogni modo è vibrante.

    N. D. A.

    Gli amici di Giobbe.

    Le arpe d’oro dei serafini sospesero improvvisamente i loro gemiti melodiosi, i cantici del Salmista tacquero e fra il roseo sciame degli angioli passò un vento sinistro che recò all’aure profumate del cielo un acre odore di zolfo. Quasi subito alcune nubi nere oscurarono rapidamente gli eterni fulgori, e una severa figura bruna, alta, triste, sorse ai piedi del Signore. Questi la contemplò per qualche minuto in silenzio e quindi la richiese:
    — Di dove vieni, Satana?
    — Dalla terra.
    — Avrai dunque posto mente al mio servo Myrio, così buono, così bravo, così pieno di tenerezza per tutti?
    — E chi non sarebbe buono nei suoi piedi, o Signore? — osservò Satana — A lui arridono e salute, e ingegno, e bellezza: lui tutti adorano: uomini, donne e fanciulli. Ma aggrava la tua mano su di esso, o Signore: fa’ che la sua salute illanguidisca, che il suo ingegno vacilli, che la sua bellezza si oscuri e vedrai che le sue labbra non tarderanno a vilipenderti a maledirti....
    Un fremito d’orrore agitò i petti delle creature alate e Teresa, la santa sublime, si coprì il viso estenuato con le gracili mani di cera.
    — Ebbene — disse il Signore, in mezzo al silenzio pauroso del cielo — ebbene, Satana: io abbandono il mio servo Myrio alle tue esperienze: offendilo nella formosità della persona, sciupagli la salute, annebbia il suo intelletto, ma lasciagli salva la vita.
    Il Demonio, lieto della grande concessione, passò altero fra le celesti coorti e con le nere ali spiegate rivolse il volo alla terra, in un angolo fiorito, che dai fiori toglie il nome e la gentilezza.
    Là viveva Myrio.

    Voi avete veduto, contemplato lungamente un cadavere, pallide lettrici, che mi seguite in questa malinconica fantasia; voi avete veduto le fronti color di cenere, le labbra rigide, gli occhi eternamente chiusi al sole, e forse nella vostra semplicità avrete creduto di aver contemplato lo spettacolo più doloroso che la natura possa offrite ai suoi figli: ebbene, vi siete ingannate; v’ha qualche cosa di più ineffabilmente triste del cadavere ed è la vista angosciosa dell’ingegno che agonizza, è la vista del morto che trascina come un sudario, lungo la strada, i ricordi della sua forte esistenza operosa....

    La mano di Satana si aggravò su Myrio. La bella persona, già segno agli sguardi desiderosi delle vaghe donne e delle fanciulle cortesi, s’incurvò sopra sè stessa come giglio altero percosso dall’uragano: una lenta febbre mise un velo su i grandi occhi divini: e l’ingegno, il forte ingegno, per cui la vita e la gloria gli promettevano ineffabili dolcezze gli si oscurò.....
    Ma — cosa strana e acutamente dolorosa — Myrio sopravvisse per vedere, per sentire, per analizzare il lento dissolversi delle sue facoltà più squisite.

    Oh, assistere a un tramonto di fuoco, vedere i monti tingersi a grado a grado delle delicate sfumature della rosa e dell’indaco, contemplare amorosamente un plenilunio d’argento, udir piangere lontano, lontano, in mezzo ai misteriosi silenzi notturni, una dolce cantilena d’amore, sentirsi piegar le ginocchia al cospetto della bellezza, udir parlare di forti imprese, di belle lodi, di magnanimi fatti, e non poter più, non poter più, capite? dar forma sensibile alle imagini or liete, or meste ora ardite, or soavi, ma sempre divine che menano una danza sfrenata nel vostro povero cervello indebolito, veder l’arte, la bella arte luminosa del canto e della dolce parola, tendervi smaniosa le braccia, e non poterla giungere e non poter neppure baciarle un lembo, un lembo solo della veste fluttuante, è tale spasimo che intelletto umano non può intendere.
    E Myrio fu colpito da quello spasimo: i bei libri di Isaotta e di Lucia, le novelle delicate del Fogazzaro e i dolorosi drammi del Verga caddero dalle mani stanche: non gli fluì più sul labbro il facile eloquio per cui il suo dire pareva musica non più udita, non gli sgorgarono più dalla penna le pagine gentili, piene di greche venustà. Cadde inerte sopra un letto di dolore, appoggiò la fronte impallidita su i guanciali e il dolce sguardo accarezzò con amore più intenso il crocifisso di avorio che gli stendeva nel silenzio della piccola stanza, le delicate braccia sanguinanti.
    Ora, ciò era appunto quel che non voleva Lucifero.
    — Che fare? — egli pensò — che fare, per accrescere e affinare sino alla disperazione le sue sofferenze? Lo farò visitare da tre amici suoi.... E gli amici giunsero.

    — Te l’avevo detto, te l’ho ripetuto a sazietà cento volte, Myrio — diceva il primo amico, un bell’ometto dalla prudente barbettina color carota, dal fare quieto e modesto. — Te l’ho cantato su mille tuoni: Myrio, tu almanacchi troppo col cervello; metti troppo fosforo, troppo sentimento nelle cose tue. Santo Iddio benedetto! Deve il cristiano affaticarsi come tu hai fatto, quando le biblioteche stanno aperte sette ore al giorno, quando il Larousse si può avere con un centinaio di lire? Bisognava darmi retta: pigliare un classico, annotarlo, vestirlo, spogliarlo, fargli dir bianco quando diceva nero e viceversa, eppoi presentarlo, tutto infronzolito della tua erudizione, al colto pubblico, col tuo bel nome a stampatello, tutto fregi e svolazzi.
    Che bellezza! Ti avrebbero fatto cavaliere, saresti stato nominato ispettore di qualche cosa, è ora ti godresti il papato tranquillamente, in barba a chi ti vuol male. O pigliala l’arte! O pigliati gli ideali, gli entusiasmi, le convinzioni.
    Myrio taceva sconsolato.
    — E di codesto benedetto cuore, siamo giusti, via, che ne hai fatto? — esclamava indignato il secondo amico, un cosino lungo lungo, secco come un uscio, dai piccoli occhi afflussionati, nascosti da due grosse barelle color fumo. — Che si fa celia! Quante Lydie, quante Silvie, quante Nerine nei tuoi «Madrigali», nelle tue odi, nei tuoi canti solitari! Io, grazie a Dio — e abbassava la testa compunto — non ho cantato che la mia signora, un fior di donna tutta casa e marito, unica nel suo genere!
    Myrio taceva sospirando e riandando forse col pensiero a certe vecchie storie poco edificanti che correvano sul conto dell’amico virtuoso e commendatore.
    — Tu almeno — esclamò volgendosi malinconicamente al terzo visitatore che non aveva fino allora dato segno di vita — tu almeno non ti unirai a costoro per amareggiare sempre più il mio stato infelice! Io t’ho amato, t’ho venerato sempre. Te ne ricordi? Perdesti il fratello ed il padre dilettissimo ed io per narrare i tuoi lutti al pubblico seppi trovar parole che ti fecero singhiozzare. E sai perchè piangesti! Perchè io pure piansi, perchè il tuo dolore era il mio dolore....
    Quegli a cui eran dirette quelle amorevoli parole

    ..... non messe ciglio, non pigò sua costa.

    — Vedremo — borbottò fra i denti — vedremo se vi potremo aiutare..... se un soccorso materiale.....

    Myrio si sollevò penosamente su i guanciali e con la mano stanca fece cenno di no. Due lacrime ardenti gli scesero sulle guancie impallidite, mentre il crocifisso di avorio, illuminato dal sole sul tramonto, gli stendeva ancora le scarne braccia sanguinanti.
    Gli amici uscirono.....
    — Ah! — esclamò amaramente il malato, livido in volto, tremante di dolore.... — ah, non è così che io mi figurava il mondo, gli uomini.... Ma io, se il cielo mi concede un lampo solo di luce, io dirò, io scriverò....
    Il pallido simulacro del martire divino si mosse visibilmente dalla bruna cornice e una voce soave risuonò nel silenzio:
    — Tu non dirai, non scriverai cosa alcuna che contristi coloro ai quali desti il nome santo d’amici: abbi in faccia al pubblico l’orgoglio delle tue scelte e non porre nel fango chi inalzasti un dì sull’altare. Ad ognuno il mestier suo.
    E siccome Myrio, percosso da ineffabile spavento, stava per cadere a terra, Gesù lo toccò in fronte con la mano divina.
    — Ritorna sano e forte e buono — gli disse. — Passa e dimentica. Di questa dura lezione aveva bisogno il cuor tuo, sì facile ai candidi entusiasmi e alla fede nell’uomo. Compi il tuo cammino, fortificato dal dolore, reso cauto dall’esperienza.
    Myrio giungeva le mani estatico, compreso di tenerezza indicibile.

    E quando si svegliò dal suo lungo sogno di dolore, il crocifisso d’avorio gli tendeva ancora le braccia in atto di preghiera dolcissima. Myrio s’inchinò riverente, ed uscì fuori al sole, uscì fuori alla vita, che tornava a fluirgli più fervida e calda, nel lampo sereno dei grandi occhi soavi che non avevano mentito mai. I suoi amici gli passarono più volte d’accanto, ma egli non li vide, assorto com’era nelle contemplazioni serene dell’arte che ci migliora e c’insegna tutte le gentilezze: anche quella del perdono.

  2. Dal ch. prof. A. Alfani e dal senatore marchese Pietro Torrigiani.