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dernità che gli «amatori del genere» potrebbero chiederne informazioni a molti giovani fanées, stanchi... dell’automobile e spossati dal... lawntennis; potrebbero ottenere notizie preziose dalle nevrotiche donnine a cui l’ozio cerchia di bistro gli occhi profondi. Se tutto ciò non è neurastenia, non saprei che cosa indicar loro di meglio. Quanto al mio signor me, e alla mia malattia, che — ahimè — fu reale e dolorosissima, voglio conservare almeno il pudore delle sofferenze. Questo non è un libro di patologia, nè le torture della nevrosi debbono turbare la serenità di chi legge. Di un solo fenomeno strano posso qui render conto; il fenomeno di sdoppiamento, il quale concedeva ad una parte sanissima della mia personalità, l’esame freddo, ragionato, sistematico dell’altra parte ammalata. Durante tutto il tempo della tormentosa neurastenia v’è stato un io sano che ha assistito — immaginatevi con che strazio! — alle sofferenze dell’io infermo.
Durante i primi anni di questo male, il lavoro mi riusciva penosissimo pure era necessarissimo lavorare, e per di più lavorare con l’organo ammalato cioè col cervello. Della difficoltà dell’impresa si può fare un’idea approssimativamente chi si immagini un povero zoppo costretto alla corsa o un povero monco della mano destra obbligato a tirare di scherma. Pure, dovendo in ogni modo lavorare, e non potendo assolutamente star seduta io mi feci costruire appositamente un alto leggìo di legno coperto di stoffa verde, che conservo ancora in uno degli angoli di questa stanza, ove scrivo. Là, in mezzo a inenarrabili torture ho lavorato parecchi mesi, raddrizzandomi via via che me lo concedevano gli impeti del male. Non si trattava di esaurimento, ma di ecci-