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da quell’infausto Ministero della Pubblica Istruzione le cui gravi magagne, in fatto di pedagogìa... e di giustizia, ho così spesso flagellato a sangue negli articoli, nei libri, e pur troppo, nelle conferenze. Seguitai dunque ad essere scrittrice e giornalista, docile alle ingiunzioni del fato.

Me ne capitò un’altra addosso, in quel benedetto biennio 1888-1890. L’Ebe, la figliuola della mia amata sorella, che avevo tenuta da piccina presso di me e che in casa mia era ritornata, già giovinetta, una volta terminata la sua educazione nel convento fiorentino di San Niccolò e aver preso la patente superiore di maestra nella nostra Scuola Normale, volle che io le cercassi un impiego, o in Firenze o fuori.

La volli contentare perchè ho sempre creduto che ogni individuo nel mondo debba pensare a sè stesso e mettere in opera le proprie forze per rendersi meno cruda e meno dolorosa la vita. E alla regola non mi piaceva che facessero eccezione le donne perchè donne. Ho sempre nutrito una grandissima antipatia per la cosiddetta «caccia al marito» che dà al matrimonio il valore di un impiego e all’amore il significato di un contratto commerciale; ed anche allora, quantunque non fossi, come sono oggi, femminista convinta, ero persuasissima che come gli uomini, anche le donne avessero diritti pari ai loro doveri e che fosse una solenne ingiustizia imporsi alla loro volontà e paralizzare la loro perfetta libertà di pensiero e d’azione, in nome di una supremazia ridicola e di una morale gretta e piccina di cui sono i capi saldi l’avvilimento e la umiliazione!

Il posto all’Ebe fu trovato, a Genova. Ma pur troppo, dopo poco tempo ebbi dall’Ebe stessa e dalla direttrice