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miei titoli, i certificati d’insegnamento, le annate del Giornale che dirigevo e mi feci raccomandare caldamente da persone influentissime, fra le quali — e più influente di tutti — il ministro della Pubblica Istruzione; feci insomma tutto quello che fa un modesto impiegatino per conquistare una piccola promozione od ottenere un aumento di stipendio.
Ma nè i miei sessanta volumi di educazione, nè la fierissima malattia nervosa da cui ero stata colpita, nè i miei titoli pedagogici, nè le raccomandazioni di illustri personaggi, nè l’amicizia di un ministro poterono spuntarla sulla cocciutaggine di un comitato il quale, esaminando i titoli delle concorrenti, s’era partito dal concetto di non volermi favorire a nessun costo. Facevano parte di quel comitato alcuni, che oggi son morti e che avevan fama di generosità e di bontà: non voglio in queste pagine ricordare il loro nome; ma non è possibile, per un malinteso senso di pietà, che io ne taccia l’azione, così ingiusta e così crudele verso di me. La pensione Milli fu decretata ad Ada Negri, e otto anni dopo a Sofia Bisi Albini.
Mentirei a me stessa e anche al pubblico che legge queste mie memorie se dicessi che della solenne ingiustizia il risentimento non fosse grande. Poi siccome tutto passa, e anche il dolore — per provvidenziale bontà di Dio — si lenisce con gli anni, finii col sorridere di ciò che un giorno mi fece piangere amaramente. Anche gli scrittori e gli artisti sono uomini e dell’umanità hanno spesso tutte le debolezze e le piccinerie. Ed io confesso francamente questa.